“Perfect Days”, il sublime sta nelle piccole cose – di Alvise Marin

“Perfect Days”, il sublime sta nelle piccole cose – di Alvise Marin

23 Aprile 2024 Off di Francesco Biagi

 

L’ultimo film di Wim Wenders, Perfect Days, ambientato nella Tokyo dei nostri giorni, narra la vita quotidiana di Hirayama, un serafico sessantenne giapponese, interpretato dall’ottimo Kaji Yakusho, vincitore della meritata Palma d’oro come miglior interprete al festival di Cannes. La vita di Hirayama, che per lavoro pulisce gli ipertecnologici bagni pubblici della città, disegnati da archistar del calibro di Tadao Ando, è scandita ogni giorno, con regolarità, dalle stesse azioni e spostamenti. Si alza di primo mattino, innaffia con devozione le numerose piantine che egli raccoglie al parco dove pranza, si lava, indossa la tuta da lavoro, raccoglie le sue cose ed esce di casa. Sull’uscio guarda sempre in alto verso il cielo, con un’espressione di ringraziamento alla vita. Poi va al distributore automatico, prende una lattina di caffè ed entra nell’abitacolo della sua minuscola macchina, sorseggiandolo. Nel suo giro tocca diversi bagni pubblici dove entra, portando con sé l’attrezzatura, e pulisce accuratamente ogni superficie. Finito il suo turno di lavoro, va a pranzo sempre nello stesso parco, dove siede su di una panchina a consumare il suo pasto. Alzando gli occhi all’insù, incrocia le fronde di un albero che lo sovrasta e attraverso le quali filtra la luce del sole. Un momento, questo, (komorebi in giapponese), che egli fissa su pellicola, scattando ogni giorno una foto con la stessa angolazione, per catalogarla poi per mese e anno. Un’operazione profondamente spirituale, il cui significato sta nell’accompagnare la ciclica diacronia del tempo e l’impermanenza delle cose, nel loro impercettibile svolgersi in ogni momento, rendendole accessibili a uno sguardo sincronico che, rappresentando la simultaneità del tempo, ne sintetizza l’inesistenza. Per i giapponesi, infatti, conta solo l’istante, quello di un hic et nunc che, nella perfezione effimera di una fioritura di ciliegi o di onde sulla battigia, evapora in fretta come neve al sole.

Nel pomeriggio prende la bicicletta e va in un onsen pubblico, dove si lava e si strofina accuratamente, per entrare poi nella vasca di acqua termale. Poi va sempre nella stessa libreria, dove sceglie e acquista un libro e al momento di pagare, la proprietaria, nel dargli il resto, lo congeda puntualmente con un suo commento. La sera cena in un chiosco, dentro una stazione della metropolitana, dove lo stesso cameriere gli porta un bicchiere d’acqua con del ghiaccio, rivolgendogli ogni volta la medesima espressione. Poi va in un locale, la cui proprietaria, oltre a servire da bere, diletta i presenti cantando, accompagnata dalla chitarra di uno degli avventori. Rientrato a casa svolge il futon sul tatami, legge un po’ e poi, toltisi gli occhiali, si addormenta.

La vita di Hirayama, nella sua profonda semplicità, è l’approdo spirituale di una sensibilità tipicamente giapponese ed eminentemente zen, che trova bellezza e poesia in ogni piccola cosa e azione, compresa quella di pulire un bagno pubblico. Un approdo, anche, nel quale contano il come e non il cosa, la forma e non il contenuto, il significante e non il significato, come accade in qualunque rito si possa ancora ritenere tale. La ripetizione dei medesimi gesti quotidiani, compiuti con estrema cura, non è pedissequa, perché rinvia ogni volta a uno scarto, a una differenza, quella in cui dimora la singolarità di ognuno. Singolarità che emerge sempre in quell’intervallo tra due gesti, attraverso il quale si dà la loro consecutio. Ogni gesto di Hirayama è parte di una meditazione che coinvolge anche lo spettatore e appartiene a un rituale che non ha alcun significato in sé, ma che trae il suo fine da quella ripetizione in cui naufraga ogni illusoria compattezza dell’Io. Come fosse un rituale, egli compie ogni azione con rigore, sostituendo i prodotti, pulendo con accuratezza ogni angolo del bagno e controllando minuziosamente anche le parti nascoste dentro la tazza, con l’ausilio di uno specchietto, adattato da lui stesso allo scopo. Non si tratta di gesti solipsistici, chiusi in sé, ma di una celebrazione e apertura alla vita in ogni sua sfumatura e di un trascendimento del pensiero binario che distingue positivo e negativo. Con un rispetto nei confronti dell’altro, quando egli esce immediatamente dal bagno, per farlo entrare, e attende pudicamente che abbia finito, che testimonia quella ricerca di un’armonia interpersonale, che sta alla base della sensibilità giapponese. Quell’armonia che egli instaura anche con uno sconosciuto che, in un anonimo scambio di mosse nel gioco del Tris, scritto da questi su di un foglietto lasciato in una intercapedine nello specchio, alla fine lo ringrazia.

Come scrive Byung-Chul Han, nei riti, nello specifico, nella cerimonia giapponese del tè, “ci si sottopone a una serie minuziosa di gesti ritualizzati. Non c’è spazio per la psicologia, si viene letteralmente depsicologizzati: il giusto movimento della mano e del corpo sfoggia una chiarezza plastica che non si lascia intimidire da alcuna psicologia, da alcuna anima. Gli attori sprofondano se stessi in gesti rituali che producono un’assenza, una dimenticanza di sé […] L’anima ammutolisce. E nel silenzio si scambiano gesti che generano un intenso stare insieme”. Il Giappone, come scrisse Roland Barthes, è “l’impero dei segni”, un “impero cerimoniale di significanti”, con i quali si svuotano di significato le cose, per assegnare il segno che avvolge ognuna di loro a una trama estetica, che con il suo formalismo, rende ogni prassi quotidiana, occasione di rito. L’umiltà delle azioni che Hirayama compie nel suo lavoro, acquisisce lo splendore e il mistero che avvolgono ogni rituale, nella precisa ripetizione delle sue regole. La loro forma ne trascende il contenuto, rendendolo più che accessorio, vuoto. Il silenzio del protagonista diventa anch’esso un silenzio meditativo e rituale che, allontanandosi dal rumore costante della comunicazione che non comunica nulla, dà vita a una profonda condivisione estetica, nel senso più ampio di sensazione, sensibilità (aisthésis). Un estetica, quella giapponese, fondata sulla transitorietà e imperfezione delle cose e sintetizzata dalla parola Wabi-sabi.

Nella sua casa, Hirayama dispone con ordine i libri che legge e le cassette che ascolta, queste ultime, vera e propria archeologia sonora, che per molti giovani risulta un oggetto misterioso, ma che il mercato ha già reinserito nel suo circuito, facendone oggetti che, venendo da un mondo che non c’è più, possiedono oggi un’aura molto cool. Il protagonista ascolta brani musicali anni Settanta-Ottanta, che compongono la splendida colonna sonora e che vanno da Perfect Day di Lou Reed, vera e propria cifra del film, a The house of the rising sun degli Animals e ancora da Patty Smith a Nina Simone, che canta la conclusiva Feeling Good. Alcuni episodi del film testimoniano la profonda empatia di Hirayama, come quando egli accoglie la sua disorientata nipote Niko, scappata di casa e in cerca di affetto. O ancora quando fa scoprire a una giovane inquieta, di nome Aya, la canzone Redondo Beach, di Patty Smith, all’ascolto della quale la ragazza si commuove. E infine il gioco di “schiacciare le ombre”, nel quale egli coinvolge un ammalato di tumore, illuminante metafora, che nella volatilità dell’ombra, rappresenta quella relatività e impermanenza delle cose, che rendendole imperfette, spinge a cogliere nell’attimo un bagliore di eternità.

Il regista tedesco, profondo estimatore della cultura giapponese, in questo film, certamente uno dei suoi migliori, si avvale anche della collaborazione di sua moglie, Dorothea, autrice della suggestiva trama di riverberi onirici in bianco e nero, inseriti nel film.

Dalla visione di Perfect Days, al plurale, perché tutti i giorni sono perfetti per il protagonista, si esce rasserenati, come avessimo partecipato a una seduta di meditazione, durante la quale il turbinio dei nostri pensieri è placato e il peso della corazza del nostro Ego, alleggerito.