IL CENTRO DEL RESTO DI NIENTE. SU “MALACQUA” DI NICOLA PUGLIESE – di MARIO PEZZELLA

IL CENTRO DEL RESTO DI NIENTE. SU “MALACQUA” DI NICOLA PUGLIESE – di MARIO PEZZELLA

3 Maggio 2024 Off di Francesco Biagi

 

In Malacqua l’evento traumatico di un diluvio che pare inarrestabile (fatalità, punizione divina o catastrofica incuria) fa irruzione nella città di Napoli, in un mondo che ha una superfice di normalità e una sotterranea sostanza vuota. Di questo ordine simbolico in slavina di senso fanno parte o lo rappresentano politici, carabinieri, burocrati, che rivelano nella circostanza la più grottesca inadeguatezza, il vuoto del simbolico e della legge che dovrebbe sostenerli. La coscienza apocalittica che sorge nel protagonista – e in forma almeno intuitiva in alcuni dei personaggi – prende atto di questa mancanza erodente, nell’attesa del colpo che disintegri l’apparenza di stabilità che la copriva e si rivela ipocrisia insostenibile: «per folgorazione si procedeva adesso sulla strada della conoscenza» (71)[1]. C’è attesa del crollo e una confusa speranza che da esso nasca «un aggiustamento, una riconversione strana» (70). Tutto questo non avviene in una coscienza compiutamente desta, è uno “stato d’animo”, un moto profondo dell’inconscio del collettivo, «un interrogativo incompiuto e deforme, una domanda non precisata né formulata ancora», che si rivela piuttosto che nella forma del pensiero in quella di un sintomo corporeo indubitabile, «respirando se ne avvertiva concreta presenza al diaframma», «tra le maglie del petto» (70).

In una versione desacralizzata e divenuta indubbiamente angosciosa della coscienza apocalittica cristiana e del “tempo che resta” di San Paolo[2], di fronte al «sinistro imprecisato presagio», all’ «interrogativo oscuro apocalittico» (117), il futuro cambia di senso, perché a che vale fare progetti, pro-tendersi in avanti, quando il proprio sentimento profondo dice che ogni cosa finirà ben presto? E allora in una reversione certo pessimista del tempo che resta, perché la conversione o addirittura la redenzione sono appunto prospettive molto molto nebulose rispetto alle speranze del cristianesimo apocalittico, non si può che «dilazionare, dilazionare tutto» (117)[3], perché non c’è motivo di affrettarsi, ed anzi non c’è motivo di neppure semplicemente “fare” qualsiasi cosa, dato che il tempo è perduto comunque. San Paolo diceva di continuare la propria vita di sempre (sposarsi, occuparsi dei figli, lavorare…) nella forma del “come se”, avendo coscienza che tutto ciò sarebbe durato per poco. Ma la dilazione che ci riguarda, che riguarda Andreoli Carlo, è stanca, rassegnazione che si trasforma in indifferenza, abulia, atassia, malinconica stasi. Sembra dunque irrazionale che a questo polo dello stato d’animo si accompagni l’altro dell’attesa, finalmente, di una svolta, di un salto di prospettiva, per cui «la vita sarebbe cambiata» (23), in uno «straordinario accadimento» (124), in un «Giudizio Universale» (125), «cento pensieri di consapevolezza attraversavano la mente» (125). Il risveglio che la coscienza apocalittica ci richiede è in questi pensieri: che l’universo simbolico in cui abbiamo trascorso la nostra vita precedente si sta dissolvendo sotto un diluvio battente; che siamo sospesi tra il vuoto che si apre alle nostre spalle e una “svolta verso” un possibile ignoto; che per noi non c’è alcuna garanzia che questo ignoto sia salvifico o non piuttosto annientante; e che comunque un desiderio oscuro ma palpabile, oscuramente palpabile, ci porta vicino ad esso, dovesse pure essere il nulla se non fosse il tutto. In questa forma assai poco rassicurante si prefigura per noi il “dio sconosciuto”[4].

 

Così il romanzo resta in bilico tra «un’attesa di morte»[5] e la speranza dell’”accadimento straordinario”, che dividono la psiche personale del protagonista Andreoli Carlo e quella di tutta la città di Napoli, «la città dolente», che si sfalda intorno al suo centro di vuoto. il Reale irrompe sia nella vita dei singoli (determinandone le diverse e insieme collegate traiettorie, quasi in contrappunto musicale) sia come trauma collettivo che investe fino alle pietre delle strade e il senso stesso del vivere comune. Si ha qui un evento traumatico oggettivo “esterno” che viene subìto e percepito dai soggetti; che d’altra parte proiettano in ciò che accade il proprio trauma o la propria “perdita” personale, lungamente e amaramente covata nell’intimo. L’evento collettivo risveglia in ognuno il trauma latente o represso sotto la superficie dell’ordine simbolico dominante, affetto da una lacerazione o da una insensatezza dilagante e incapace di rispondere al tempo di emergenza: con valori e fondamenti che si sfarinano, come dimostra l’inconsulto agitarsi dei vari funzionari, politici e burocrati. Si tratta di una crisi della presenza, ma anche di un desiderio di morte per cui quell’ordine ormai privo di legittimità e già oscuramente sentito come tale si vuole che si dissolva. Nell’inconscio del collettivo si fa strada questo pericoloso stato d’animo: che tutto crolli, piuttosto che continuare in questa amorfa banalizzazione dell’esistenza. Non c’è solo paura, ma anche desiderio del dissolvimento; e una fantasia di rivolta scatenata e anarchica, che si esprime in uno stile paratattico e rotto, che ricorda quello di Celine:

 

«Forse colonne di contadini con falci e forconi sarebbero accorse dalla campagna. Avrebbero invaso il cortile travolgendo il servizio d’ordine. Avrebbero salito urlando le scale di pietra, e nella luce elettrica rossastra della sala avrebbero fatto irruzione, con grosse scarpe ai piedi, fazzoletti al collo, braccia nerborute, e sarebbe cominciata allora una crudele caccia all’uomo…Zitto tu! gli avrebbero urlato invece, traditore del popolo! Due tre quattro forconi gli avrebbero attraversato il petto, e avrebbe sentito i ferri nelle carni, e avrebbe urlato urlato, e fiotti di sangue sarebbero sbocciati da quelle sue carni mollicce e giù riverso senza più vita alcuna sarebbe giaciuto alla fine… Le teste sarebbero state infilate su lunghe pertiche, ed esposte sui bastioni merlati, poi, in questa notte nera percorsa da fiammate. Urla ancora di giubilo sarebbero cresciute nella notte, e ogni cosa devastata, e bruciati i banchi del consiglio in un immane rogo, e alte le fiamme si sarebbero levate a illuminare da lontano questa città in angoscia… »(64-65).

 

Il disfacimento dell’ordine simbolico e la crisi della presenza[6] da cui sono investiti la città e i suoi abitanti sono indicati dal correlativo oggettivo del dissolvimento nelle acque: dei muri, delle strade, dei corpi stessi, se è vero che «l’umidità raggiungeva il cervello…informi masse gelatinose respiravano con l’acqua» (18), che raggiunge gli occhi, il naso, le labbra, «e saliva di dentro e raggiungeva le ossa, e disgregava piano»(87), e penetra nella città «negli interstizi fra pietra e pietra», «e chi resiste all’acqua che precipita e s’insinua e scava e incide?»(29). A questa dissoluzione per così dire materiale si associa quella soggettiva della «coscienza disgregata». Tutto questo non accade per un colpo traumatico repentino, come sarebbe una granata in una trincea di guerra, o una violenza sconosciuta e subita all’improvviso, ma in una lenta erosione, nel profondo dell’ordine simbolico c’era già il «liquame», che poi balza fuori e sembra inaspettato, ma in realtà «era tutto dentro, sì, tutto pus all’interno» (54), presentito ma rimosso, intuito in una tristezza o in un’angoscia diffusa. Questa crisi della presenza è la risultante di un trauma cumulativo, di un «sinistro presagio inconcludente che non si spezza nel fulmine improvviso, che non si spezza, e che trascina tuttavia decorazioni rutilanti giù nel liquame dell’ansia» (107).

Medaglie e ornamenti del potere in similoro,

dei politici, dei burocrati, delle uniformi,

dei giornalisti cialtroni,

il vuoto che viene alla luce.

Da tutto ciò emergono frammenti spezzati di esistenza, il fantasma infantile della frammentarietà del corpo e della mente, simile per molti aspetti a quella che Elena Ferrante definirà una “frantumaglia”: “decorazione rutilante” è sinonimo di kitsch ed è anche l’immagine mitica e solare, turistica e spettacolare di Napoli, «la malattia aveva cancellato gli orpelli e le rutilanti decorazioni, e aveva spento le grida della strada, e i gerani ai balconi s’erano fatti giallastri, e la finzione allegra del fatto collettivo si era trasformata adesso in dura constatazione di solitudine. E questo restava, della città impagabile, questo soltanto, e l’ombra di un passato scolorito e la retorica che pretendeva di essere poesia…» (127).

L’ordine simbolico, nella sua forza (apparente) è il «Grande Cerchio» (66), da cui non si può uscire, se si esce è per morire, o per finire in manicomio, nel disordine della follia. Di esso la grande pioggia fa sentire l’inconsistenza, presentita, in fondo desiderata, se la situazione suggerisce anche ad alcuni personaggi di soddisfare in extremis il loro desiderio prima sempre rinviato o rimosso. In effetti al Grande Cerchio

si contrappone ora il «greve cerchio ineluttabile»

della pioggia e dell’acqua che serra tutta la città e lo dissolve,

ne rende ridicola l’autorità.

Lenta eruzione del Reale nel vuoto del simbolico.

 

Nota. Il trauma cumulativo, a differenza da quello improvviso e verticale (uno choc di guerra, una violenza sessuale, un incidente) avviene in una durata protratta nel tempo, in una successione ripetitiva di erosioni e di aggressioni, che finiscono per assottigliare e infine per abbattere le barriere protettive dell’Io. Nella prima intuizione di Freud, il concetto si riferisce alla sofferenza precoce e continua subita dal bambino in ambito familiare, o comunque a una condizione di disagio personale: «Il grande trauma singolo viene sostituito da una serie di drammi minori, tenuti assieme per affinità o perché parti di una stessa tribolazione»[7]. Il termine “trauma cumulativo” si deve a Masud Khan[8], che ne parla a proposito di un rapporto disastrato tra la madre e il bambino: «…È l’esito di un insieme di brecce nello scudo protettivo, che si accumulano silenziosamente e invisibilmente nel corso del tempo»[9]. Questo concetto può essere trasposto dalla dimensione psichica personale a quella storica e collettiva; di questa natura sono le continue infrazioni percettive che, secondo Simmel e Benjamin, subisce l’abitante della metropoli moderna e che producono a lungo andare una lesione nell’inconscio del collettivo, un’angoscia diffusa ma ancora innominabile, fino a che un evento esterno non ne scateni fino alla superficie la potenza latente. Dalla catena di montaggio fino ai più comuni gesti quotidiani, nella modernità l’individuo è aggredito da una massa quasi insopportabile di choc percettivi, perfino il semplice «muoversi attraverso il traffico comporta per il singolo una serie di choc e collisioni. Negli incroci pericolosi è percorso da contrazioni in rapida successione, come dai colpi di una batteria. Baudelaire parla dell’uomo che si immerge nella folla come in un serbatoio di energia elettrica»[10]. E se oggi la folla, a cui nel frattempo ci siamo addestrati, non fa lo stesso effetto, tanto più lo sperimentiamo nella bolgia di percezioni a cui siamo sottoposti dai nuovi media di comunicazione informatica, con tutte le loro varianti e deformazioni. Ma traumi cumulativi sono pure quelli che si verificano nel disfarsi di un ordine simbolico, nelle crisi storiche che lasciano il tempo in sospeso, o anche nell’eredità che ci proviene dalle umiliazioni e dalle sconfitte di generazioni passate[11].

 

Sembrano essere traumi cumulativi quelli che colpiscono in Malacqua gli abitanti di Napoli, ridestati certo dall’evento catastrofico della pioggia, ma che in profondo provengono dalle ferite continue della loro vita precedente, e più indietro ancora, dalla non-storia o dalla storia discontinua, frantumata e “dolente” della città. Va poi detto che una identificazione con lo stato di vittima è quasi un archetipo del suo inconscio del collettivo: è lo stato d’animo di chi ritiene di essere privato di una condizione felice e regale

e per questo accumula malinconia, risentimento e oscura rivolta,

o per converso senso di inferiorità

e pulcinellesche allegrie.

È lo stato d’animo dell’armonia perduta di cui tanto ha detto La Capria, ma che in forma meno esplicita percorre il romanzo di Pugliese, il quale del resto ha dichiarato in una video intervista: «Napoli era comunque il centro di qualcosa…e per quell’epoca era una delle maggiori città d’Europa…

 

ora siamo il centro del resto di niente».

 

Anche se questa dileguante età dell’oro è in gran parte un’immagine di sogno, tuttavia esprime insieme al suo carattere di fantasma immaginario la percezione di ferite storiche effettivamente subite, la condizione coloniale del Mezzogiorno d’Italia e le sue conseguenze nella psiche di successive generazioni[12].

 

Inserti di cronaca. Napoli, settembre 1969: «La strada si aprì sotto i piedi di un insegnante, Alfredo Cerrato, che abitava con la sua famiglia in una palazzina di due piani a valle di via Aniello Falcone, sulla collina del Vomero…Il 16 giugno 1967 un’enorme frana aveva cancellato un pezzo di via Tasso»). (Il Mattino)

Napoli, febbraio 2024: «Il manto stradale improvvisamente si apre in via Morghen e inghiotte la sua auto intorno alle 5 del mattino di oggi…A causare l’enorme voragine una probabile infiltrazione d’acqua nel civico 63 di via Morghen». (Il Mattino)

«E di certo Napoli, anche nella semiotica spaziale che Pugliese ci fornisce…può essere considerata una città traumatizzata, solcata dalle tracce di un dolore profondo e sempre vivo, una città abbandonata, immobile nell’eterna mancanza di un riscatto e di un significato che possa dare senso ai frammenti della sua storia»[13].

 

La città è tutta incrinata da una «provvisorietà sconcertante infida» (105), «costruita sul vuoto» (118), che non è solo quello del sottosuolo ma diventa precarietà psichica, crisi della presenza, diffidenza verso la storia, per cui nel suo intimo Andreoli Carlo vive una profonda disappartenenza, «a nulla si appartiene mai, neanche alla somma di strade e di motivi che sembrano la tua città» (121), città costruita di apparenze e sembianze, che lui fantastica di abbandonare in un «viaggio al termine della notte» (121): e il rimando al romanzo di Celine non è certo casuale, perché ad esempio nella dirompente immagine della rivolta plebea si può sentire un’eco dello stile frantumato in continui sussulti dello scrittore francese. La fragilità, la rabbia e il dolore della città si fanno sintassi franta, e in Andreoli Carlo sradicamento e dispersione dell’Io, perché in effetti «la sua precarietà era la stessa identica sensazione d’imbarazzata incertezza che la città avvolgeva nel suo manto grigiastro» (126). Questa labilità e questo stato d’animo di umiliato risentimento trapassano quasi senza soluzione di continuità dal sogno di un’età dell’oro, in cui nella città senza angoscia «si potrebbe restare giovani per sempre, all’infinito» (127), alla scatenata fantasia di ribellione, violenza e sadismo, in cui si rovescia la delusione del sogno. Il trauma collettivo si fonde qui con quello personale di Carlo, diventano ormai una cosa sola. Se nel passo della rivolta è il trauma storico a essere in primo piano, rievocando momenti tragici della storia della città, come l’insurrezione del 1646, o l’invasione dei lazzari alla fine della Repubblica Partenopea, o i quadri secenteschi di Micco Spadaro, fitti di pesti, di eruzioni, di invasioni di folle e di armati: a un certo punto erompe invece in una maledizione il corrispondente trauma personale di Carlo, dove la scomposizione dei corpi diventa il riflesso di un indefinito e radicato sentimento di umiliazione, di un risentimento, si direbbe, illimitato;

«L’attesa indecifrata? Nasceva a rancore» (10):

 

«…Città maledetta!, appenderò le tue donne a gambe all’aria sul bastione più alto di Castel Sant’Elmo e lascerò le loro teste a penzolare nel vuoto, mutilerò i bambini delle gambe e degli occhi e per le strade verificherò migliaia di carrozzine con questi mostriciattoli deformi, ai tuoi uomini taglierò le dita delle mani e getterò mercurio nelle vene, getterò merda di vacca nei saloni di Palazzo Reale e nelle sale del Museo nazionale e merda di vacca a Villa Pignatelli e alla Certosa di San Martino, e porterò gli asini a pisciare in via dei Mille e nella Galleria Vanvitelli e la brodaglia giallastra invaderà le strade del Vomero e di Chiaia, spargerò interiora di maiale nei negozi e nelle botteghe e in tutti gli uffici di tutta la città, e questo diventerai, città mia dolentissima, nient’altro che un ammasso di frattaglie maleodoranti marce, e il tuo fetore si mischierà al fetore della nafta che verserò sul mare a ricoprire, questo sarai e non altro, una chiazza giallastra puzzolente fetida, con i miasmi della decomposizione ormai vicina, il tuo gran corpo abbandonato di puttana sarà putrefazione, squallida vergognosa morte inarrestabile…dalle maioliche azzurrine della stanza da bagno i riflessi si moltiplicavano nella confusione dei significati, nel sovrapporsi disordinato inconcludente di una vita che era di certo disordinata e inconcludente.…».

 

Sono tre i registri stilistici tra cui si muove Malacqua. Uno è quello realistico, perché la storia parte da crolli e voragini davvero avvenute (e che avvengono!), da una reale incapacità e corruzione dei burocrati, ridicolizzata nel linguaggio “carabinieresco» ridondante e ampolloso dei verbali di polizia, così come realistiche sono le connotazioni che riguardano la vita dei personaggi, la loro quotidianità per lo più dimessa o delusa, e qui le frasi diventano semplici, descrittive, qualche volta volutamente elementari, come in una cronaca giornalistica[14]: poi c’è il registro favolistico e magico, in cui lo stile ondeggia in ritmi musicali e narranti[15], e infine quello delirante e onirico, di cui i passi citati della rivolta e della maledizione sono esempi evidenti. Una sintassi scolastica scandisce il realismo burocratico, un linguaggio narrante continuo e associativo la tonalità della favola, una paratassi dirotta e violenta, quella del delirio.

La contraddizione tra la favola e la storia percorre tutto il romanzo, poli estremi che circoscrivono i confini della «città dolente»: che oscilla tra fantasie di rivolta e immagini utopiche di sogno. Le quali emergono dagli squarci che si aprono nella stessa tessitura del quotidiano, del piano “realistico”[16].

 

Nota 2. Alla prospettiva di Francesco Orlando, per cui la letteratura esprime soprattutto il ritorno del desiderio represso e delle sue vicissitudini, occorre aggiungere quella per cui essa è riparazione e rappresentazione di un trauma, e dunque lavoro sulla pulsione di morte e sulla coazione a ripetere che l’accompagna, come già Freud aveva intuito. Secondo Stefano Ferrari[17] l’arte è un sostituto del lutto rituale, una elaborazione cerimoniale della morte e dell’angoscia che si sente incombere su di sé, che sia la nostra o quella di un prossimo. Così gli autoritratti di Rembrandt sono un tentativo di riparazione, che cerca di fissare la propria immagine nel tempo, conferendole una sorta di eternità trascorrente. E questo vale per i traumi che colpiscono la vita individuale, ma in misura non minore per quelli storici e collettivi, che feriscono una intera generazione. Almeno nella sua poesia, se non nella sua esistenza, Paul Celan è l’esempio più intenso di elaborazione di un trauma storico, che, nel suo caso, sembrava avere per contro le caratteristiche dell’irreparabile. Appagamento del desiderio e riparazione della pulsione di morte sono i due poli da cui non può prescindere la genesi di un’opera d’arte. Nelle singole opere si esprime la tonalità affettiva dominante di un’epoca e il modo in cui si dispongono le potenze in atto nell’inconscio del collettivo, sospese fra il trauma e il sogno di felicità.

 

Irace Salvatore, portiere di palazzo e padre di famiglia, ha la sensazione

«della vita della loro vita che se n’è andata» (51),

nel grigio e monotono scorrere del Grande Cerchio,

nel suo uniforme rollio di essere opaco,

se ne rende conto ora,

per la prima volta con tanta acutezza,

dinanzi alla «presenza oscura»

che su tutto incombe

e impone rendiconti e riflessioni ultimative.

Ma anche Andreoli Carlo, il protagonista, di fronte alla morte che (nella sua fantasticheria) gli concede un giorno ulteriore, ripercorre il passato, nelle sue luci prima appena intraviste, e ora vivide, «la breve stagione tenerissima», il «giorno definitivo e solare» (131), in cui cose assai semplici e banali, come una partita di calcio in mezzo alla strada, assumono un colore che non possedevano quando il rotolio del Grande Cerchio ne offuscava i contorni, e ora si crea una coscienza doppia: quella di avere contemporaneamente un nulla fra le mani, a considerare i falliti progetti e le fortii ambizioni, e insieme inascoltate dolcezze.

Una prospettiva, dice Andreoli Carlo, «capovolta».

Lo stesso sentimento ha Lecaldano Paola, che si rende conto che da una parte «c’è la nostra vita che stavamo per agguantare…che poi una strega malvagia ha nascosto in un punto lontano e difficile» (148); la coscienza apocalittica ha questa consapevolezza estrema del possibile, di ciò che poteva e potrebbe essere e non è, risveglio dal trauma che ha ottuso l’esistere. C’è una frase che, io credo, riassume tutto il senso del romanzo nel suo continuo oscillare tra l’angoscia del nulla e l’utopia o il sogno del possibile:

 

«Come sarà mai possibile scompaginare l’ordine dei giorni e accendere i fiori della notte?» (148).

 

In fondo è questa la domanda inespressa nel «labirintico urlo disgregato, sibilo disperato a interrompere, a tagliare» (9), che sommerge Andreoli Carlo all’inizio del romanzo.

 

L’ «attesa di morte» (9) e al contempo di una improbabile miracolosa svolta salvifica è la tonalità affettiva dominante nel romanzo[18]. Siamo così in un tempo sospeso tra la vita e la morte, una mezza vita e una mezza morte. Si vive, direbbe G. Anders, in un “esserci-ancora-appena”, in una protratta, dilatata sopravvivenza tipica del trauma cumulativo, «l’attesa era una malattia sfibrante, progressiva…ti veniva da pensare che non saresti morto, forse, ma non avresti mai più vissuto» (19), «attesa sfibrante come agonia d’animale, viva e densa come sangue che esca interminabilmente» (23). A questo polo mortifero, dissanguante dell’attesa e del tempo sospeso, si accompagna quello utopico, perché in questo vuoto di vita si assiste a un connubio paradossale di «morte e di avvenire» (53), una speranza per chi non ha più speranza, lo «straordinario accadimento», che si associa al sentimento della fine, un’apocalisse che sia insieme fine e rigenerazione. Ma avverrà mai?

Alla fine del romanzo questa prospettiva rigenerante, arrovesciata, non si realizza, i giorni della pioggia sono stati un sogno o un incubo di mutamento, il sole ritornerà al quinto giorno e niente sarebbe cambiato «no, per nessuno al mondo»(150): e la conclusione è però ambigua, a doppio senso, perché sì le cose ora riprendono colore e Andreoli Carlo sente dentro di sé «una tenerezza nuova, pensiero incontaminato»: eppure c’era un motivo se le bambole urlavano, le monete cantavano e il mare risaliva verso i bambini dei vicoli, se «la voce lamentevole come di moltitudine…era discesa dagli spalti del Maschio Angioino incontro alla città»(149). Non sarebbe successo nulla: «i giorni avrebbero tirato diritto come in passato per la strada impietosa, cosa ne sarebbe rimasto? Soltanto quest’eco flebile, questa malinconia nell’iride dischiusa a verificare la luce» (150).

Cos’è dunque più vero? La tenerezza rinata o la strada impietosa? Che tutto ritorni e rimanga uguale è un bene rassicurante o è la conferma e la rinnovata rimozione dei vecchi poteri, degli antichi sfaceli, delle strade che crollano e dei burocrati che straparlano in consiglio comunale, mettendo a sacco la città dolente? Il romanzo ci lascia così, demandando al lettore di chiedersi cosa scegliere, cosa preferire: sospetto che Andreoli Carlo alla fine tenga soprattutto alla sua consapevolezza, alla sua lucida e fredda presa di coscienza che l’accadimento straordinario è pura illusione. Tuttavia non dovremmo confondere l’io narrante con l’autore: se il primo sembra appagarsi dello scivolamento un po’ cinico un po’ disincantato nel Grande Cerchio che ha ripreso il suo lento rullio, Pugliese inscrive nel romanzo, oltre che le anarchiche rivolte, anche tre immagini di favolosa utopia, sogni che tutti sorgono dall’anima dell’infanzia.

 

Nota. È del 1961 Il giudizio universale, di De Sica-Zavattini, che in certe sequenze ricorda moltissimo Malacqua, tanto che Pesce nella sua videointervista a Pugliese ha montato alcune immagini del film. Come nel romanzo, i personaggi sono sorpresi da un preannuncio di apocalisse nel mezzo delle loro mediocri faccende quotidiane. Qualche volta il film scade nel bozzettismo, ma sono molto potenti le sequenze della seconda parte sotto il diluvio, quando folle attonite in una Napoli grigia e piovosa attendono la loro sorte e il giudizio sulla propria vita. Anche qui, nel gran ballo finale, tutto riprende come prima: gli adulteri, le invidie, le miserie, i meschini compromessi. Solo i bambini e i ragazzi conservano l’innocenza, come sempre i piccoli e i marginali nei film di De Sica. Ed anche nel Giudizio universale si mescolano favola e (neo)realismo.

 

È una bambola semisepolta dietro un banco del Maschio Angioino a levare il “labirintico urlo” che dà voce al dolore sommerso della città[19], ai traumi soffocati che lentamente si sono accumulati nel tempo, ed anche alla protesta e allo sdegno contro i corrotti e incapaci amministratori: insomma alla “ferita a morte” che ha colpito anime, corpi, strade e perfino il sottosuolo franante. Per quanto confuse e intraducibili in un qualunque linguaggio articolato, provenienti da un altrove perturbante eppure intimamente connesso alla vita quotidiana della città, «erano di certo parole, e voci umane, ambiguamente umane che irrompevano all’esterno in contorcimenti insoliti, in singulti inestricabili» (20), «uno scricchiolio distorto di parole» (21), in cui si concentra l’intera storia di Napoli, si accavallano diverse stratificazioni di tempo, o meglio la «non storia» o la storia mancata, o le promesse molteplici, di età in età e non mantenute, e tutto ciò si condensa nell’ «oscura presenza sonora come di Grande Voce onnipotente»(25), il risvolto negativo e ribelle di quell’immagine di sogno che La Capria chiamava “armonia perduta”, ma bisognerebbe usare il termine al plurale, «armonie perdute» e ogni volta in modo effimero rinnovate, e ora emergenti in una travolgente protesta, «voci sovrumane e lunghi strazianti gemiti come di moltitudine»(30).

Ed anche legata all’infanzia è l’immagine di sogno delle monetine che cantano, perché a farle nascere è l’incantesimo magico di una bambina, a cui la madre ha gettato dalla finestra la radio, unica consolazione della sua triste famiglia e dei suoi pomeriggi monotoni; e allora come in una novella di Basile la monetina da 5 lire prende a suonare e a cantare, e tutte le bambine di dieci anni, ma solo le bambine di dieci anni, scoprono che suonano e cantano le loro monetine da 5 lire, agli adulti questa magia è negata, perché proviene da un sogno e da un desiderio che essi non sanno neppure provare, e questo suono confortante è come una risposta all’oggetto transizionale negativo, alla bambola che urla, è l’oggetto buono che permette identità e salvezza. Anche se poi di questa apertura utopica c’è un recupero, i soliti ambulanti vendono monetine contraffatte (ma che non suonano) e viene proclamato Il Giorno del Canto, alla presenza del Capo dello Stato, con una «oceanica interpretazione di Funniculì Funniculà» (105): ma pure questa impossibile e grottesca rappresentazione appartiene al registro favolistico del sogno.

E un altro incantesimo riservato ai bambini è quello del mare[20] che risale lentamente da via Caracciolo ai vicoli di Montedidio, fino ai bassi dove essi vivono, a loro in un giorno d’estate il mare è stato negato perché inquinato e avvelenato, da qualche colera o da qualche liquame, sbarrato da una schiera di carabinieri stupefatti, perché «risulta difficile a un qualsiasi carabiniere, anche esperto, fermare il mare, o procedere alla sua identificazione» (78-79). Nel realismo magico di Pugliese il linguaggio della favola, così radicato nella tradizione popolare della città, si oppone al “carabinierese”, alla lingua delle guardie e dell’autorità, anch’essa assai presente nell’inconscio del collettivo: smentisce la storia per come è stata, per sognare la storia come avrebbe dovuto (potuto?) essere. E se la pioggia mostra l’aspetto dissolutivo dell’acqua, quella del mare al contrario sorge miracolosamente incontro ai bambini, a quelli delusi e sommersi dalla povertà e dalla delusione, «fu chiaro a tutti davvero che se i ragazzi non erano andati al mare perché impediti dall’Opera di piantonamento, era stato il mare, una volta tanto, a trovare i ragazzi…[con] puntigliosa e allegra determinazione» (82)

e le campane suonano

al tempo che finisce

e senza suono sgorgano le voci

inudibili

dalle crepe che frangono le mura

e dettano al respiro che le scrive –

per poco trema l’ala della luce

si sperde nell’attesa

e le bambole parlano

le monete cantano

il mare risale nei vicoli scuri

‘o mare saglie rinto e’ viche ascure.

 

 

NOTE 

[1] N. Pugliese, Malacqua. Quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un accadimento straordinario, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2013, i numeri di pagina delle citazioni sono indicati in corpo testo tra parentesi.

[2] «…Il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (I Corinzi 7-29).

[3] «Nel romanzo di Nicola Pugliese l’evento catastrofico vive però della sua continua procrastinazione. Il vero evento traumatico sembra identificarsi con la stessa attesa del trauma…Quella che arriva da questo testo è proprio l’impressione di un’apocalisse diffusa, non concentrata in un evento puntuale ben precisato nel tempo, bensì un catastrofismo quasi innato nella natura e nella storia di Napoli» (G, Riccio, Il senso della catastrofe in Malacqua di Nicola Pugliese, https://doi.org/10.6092/issn.1721-4777/12715 , «Griseldaonline» 20, 1 | 2021).

[4] San Paolo agli Ateniesi: «Ho percorso la vostra città e ho osservato i vostri monumenti sacri; ho trovato anche un altare con questa dedica: al dio sconosciuto. Ebbene, io vengo ad annunziarvi quel Dio che voi adorate ma non conoscete». (AT 17, 15.22-18,1).

[5] D cui parla lo stesso autore nella bellissima videointervista realizzata da Giuseppe Pesce nel luglio 2011 ad Avella. Di G. Pesce, cfr. anche Napoli, il dolore e la non storia. Malacqua di Nicola Pugliese, un piccolo capolavoro del secondo Novecento, Oxiana, 2010, che ricostruisce anche la biografia dell’autore e la ricezione del romanzo.

[6] «Gli enti mondani si irrigidiscono, si artificializzano, i loro contorni diventano troppo definitivi, senza possibile “oltre…Oppure la consistenza di questi enti si affloscia e i loro limiti diventano troppo molli, come se il mondo diventasse di gomma. Oppure gli enti sono travagliati da un vuoto “oltre”, come forza maligna di dissoluzione…Le cose si scaricano le une nelle altre, diventano onniallusive, vanno oltre in modo irrelato» (E. De Martino, La fine del mondo, p. 632 e 633. Devo rinviare per questo tema al mio La memoria del possibile, Jaca Book, Milano, 2009, pp. 239-271.

[7] S. Freud, “Comunicazione preliminare sul meccanismo dei fenomeni psichici”, in Opere, vol. I, Bollati-Boringhieri, Torino, 1989, p. 177.

[8] “Il concetto di trauma cumulativo” ne Lo spazio privato del Sé, Bollati-Boringhieri, Torino, 1979.

[9] G. Mierolo, “Trauma e vittime”, in La clinica psicanalitica del trauma, a cura di E. Mundo e F. Lolli, Litorale, 2021, p. 165.

[10] W. Benjamin, “Di alcuni motivi in Baudelaire”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995, p. 110.

[11] «Diversamente da quanto in genere si crede, infatti, non è il trauma a generare l’impotenza, ma l’impotenza a generare il trauma. Trauma non si dà di per sé quando accade qualcosa di negativo, ma quando il soggetto esposto al negativo non si trova nelle condizioni di elaborare una risposta (psichica, linguistica, culturale, politica) […]. C’è trauma dove non è possibile l’azione». (D. Giglioli, Stato di minorità, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 4).

[12] «Il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco ‘urbano’ (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte». Repressione poliziesca e compravendita degli intellettuali si alternano con continuità, cosicché «lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2007, pp. 2038-2039). Esiste – secondo un Gramsci oggi rivalutato dagli studi postcoloniali – una complementarità strutturale tra lo sviluppo capitalistico delle metropoli e la «mezza modernità» fatta di consumi e intrallazzi mediocri dei paesi colonizzati. Cfr. il mio Altrenapoli, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

[13] G. Riccio, Attesa e soprannaturale…cit.

[14] Per esempio: «Alle 7 del mattino del 23 di ottobre…la notizia arrivò per prima ad Annunziata Osvaldo, di anni 27, da Boscotrecase, centralinista al 113 della questura» (11).

[15] Per esempio: «La monetina da cinque lire era piccola e minuscola e leggera nel palmo della mano e chissà come le venne se l’accostò all’orecchio, forse le monete erano come le conchiglie, si poteva sentire il mare…Non il mare venne, non il fruscio lontano di un’eco di mare ma una musica invece…» (102).

[16] «Per dare una definizione minimale, la più generale possibile, del soprannaturale all’interno della fictio, possiamo dire che esso costituisce una supposizione di entità, di rapporti o di eventi in contrasto con quelle leggi della realtà che sono sentite come normali o naturali in una situazione storica data. Nell’ambito due volte immaginario di un soprannaturale così inteso, tocca sempre alle regole limitare, e con ciò determinare, l’informità del non essere, la licenza e l’infinitezza della fantasia, la plasticità del vuoto preliminare» ((F. Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica, forme, Torino, Einaudi, 2017, p. 18, cfr. in G. Riccio, Attesa e soprannaturale… cit.

[17] Scrittura come riparazione: saggio su letteratura e psicanalisi, Laterza, Roma-Bari, 2007.

[18] Polarità anche questa, archetipica, non solo per Napoli, ma per tutto il Mezzogiorno: «…La nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana… novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto» (G. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1969, pp. 98-99).

[19] «Quella bambola si fa esternazione e concretizzazione di un trauma di certo non individuabile in un particolare evento traumatico collocabile nella «Storia», bensì di una costante traumatica che da sempre ha attraversato la città e i suoi abitanti, quasi ad essa connaturata» (G. Riccio, Attesa e soprannaturale…, cit.)

[20] G. Riccio,  Attesa e soprannaturale…, cit: «Napoli è bagnata dalla pioggia, la quale porta con sé traumi e inquietanti anomalie, e dal mare, che invece sembra corrispondere a quella funzione protettiva che Ferenczi individua nel concetto di “regressione talassale”, nel suo saggio Thalassa del 1924: il mare è l’acqua in quiete, la ricostituzione della situazione prenatale all’interno dell’utero materno, mentre il diluvio non fa che riproporre, con un «rovesciamento dello stato reale delle cose», l’autentica «grande catastrofe» (S. Ferenczi, Thalassa. Saggio sulla teoria della genitalità, Cortina, Milano, 1993, p. 81), il trauma primordiale della nascita segnato dall’espulsione extra-uterina e dall’adattamento alla vita terrestre. L’acqua ha quindi un aspetto ambivalente».