Il pensatore del possibile nella breccia di una rivoluzione
MARIO PEZZELLA
La monografia di Francesco Biagi, Henri Lefebvre. Una teoria critica dello spazio (Jaca Book 2019), ripropone i temi fondamentali del pensiero del filosofo francese, ingiustamente sottovalutato in Italia negli ultimi anni. Dopo aver ricordato il complesso intreccio di relazioni e scontri con i protagonisti della cultura del secondo Novecento (Althusser e Sartre, soprattutto) e il suo rapporto contraddittorio col partito comunista francese, l’autore analizza uno degli aspetti meno conosciuti dell’opera del filosofo di Hagetmau, gli studi di sociologia rurale. In essi prende forma per la prima volta il suo metodo di indagine progressivo-regressivo: di una situazione sociale vanno considerate con pari attenzione la genesi – e la tendenza del possibile, che coabitano e confliggono nel suo fondo. La ricerca sociologica non può limitarsi alla ricostruzione del passato o alla considerazione del presente: deve anche interrogarsi sui possibili non realizzati, e però documentabili, che tendono a trascendere le contraddizioni e l’incompiutezza della situazione. Fin da questi primi studi, Lefebvre è un pensatore del possibile, vicino per molti aspetti a Ernst Bloch e alla sua nozione di utopia concreta. Questa prospettiva utopica è presente anche nelle ricerche più note di Lefebvre sullo spazio urbano e sullo spazio sociale: la dimora non è un concetto tecnico o puramente architettonico, ma il luogo dove l’uomo entra in rapporto con “qualcosa di più (o di meno) che se stesso: la sua relazione col possibile come con l’immaginario” (Lefebvre). Secondo Biagi, Lefebvre ha una concezione intensamente politica dello spazio: in esso si concretizzano i rapporti di potere, nella materialità delle abitazioni, delle architetture, dei progetti urbanistici. Lo spazio sociale è un cristallo espressivo della lotta di classe, e anche dei possibili che essa contiene e possono emergere alla luce del giorno, come avvenne durante la Comune di Parigi, sulla quale Lefebvre ha scritto una delle sue opere più importanti, descrivendo la sua concezione rivoluzionaria della città e del diritto ad abitarvi. Biagi ricostruisce la polemica di Lefebvre contro il funzionalismo e il Bauhaus, che furono i primi a concepire lo spazio sociale moderno secondo un progetto unitario: rischiando però di sacrificare ogni aspetto qualitativo e singolare dell’esperienza alla preminenza del piano astratto di costruzione, il gioco intersoggettivo alla funzione. In particolare Lefebvre non ama Le Corbusier; il trionfo in lui “dell’angolo retto e della linea retta” gli sembra esprimere un verticalismo del tutto consonante con i valori di Stato e ordine della borghesia francese. Nel capitalismo contemporaneo si afferma una forma di spazio sociale che Lefebvre definisce “fallico-video-geometrico”: uno spazio astratto “attraversato da una simbologia sovrana che sceglie l’altezza e la lunghezza come espressione dei propri centri di potere” (Biagi). All’astrazione dominante del modo di produzione del capitale corrisponde l’astrazione geometrica che si cristalizza in scheletri spaziali. Cè dunque un’opposizione radicale tra l’abitare – che Lefebvre intende come una relazione ecologica tra l’essere umano e l’ambiente – e l’habitat, che è invece la sua deformazione sotto il dominio del capitale, del tutto subordinato alle funzioni di produzione e circolazione delle merci. Contro una vita quotidiana interamente dominata dall’astrazione del capitale, Lefebvre oppone la sua teoria dei momenti, un concetto che ha molta affinità con quello di situazione costruita di Guy Debord: il momento segna “l’emersione del discontinuo nella prospettiva spazio-temporale del quotidiano”(Biagi). Il decorso cronologico e dominato del tempo, viene spezzato da uno squarcio che rivela nel quotidiano un possibile ignorato, una forma di vita alternativa a quella dominata dal lavoro astratto subordinato al capitale e alla fantasmagoria delle merci: “Chiameremo ‘momento’ il tentativo che mira alla realizzazione totale di una possibilità” (Lefebvre), come avvenne durante la Comune o all’inizio della Rivoluzione d’Ottobre: e cioè di una vita sottratta al dominio dello Stato, del danaro, e del lavoro astratto. Il momento è l’attuazione concreta di un possibile, e in certo modo la dimostrazione che effettivamente si può vivere al di fuori di questa trinità del potere. La brevità della breccia non pregiudica la qualità della sua indicazione. Nel momento emergono le “eccedenze” del gioco, del riconoscimento e della vita liberata che tendono a disgregare le forme di dominio del capitale e si manifestano come critica e contraddizione del quotidiano. Il compito che Lefebvre ci lascia in eredità è quello di comprendere le tonalità esistenziali della nostra vita quotidiana, sottoposta a un progressivo imbarbarimento: e anche di mettere in luce le sue “eccedenze” e la resistenza possibile.
( Da “Il Manifesto”, 28 febbraio 2019)
*in foto Leszek Kolakowski insieme a Henri Lefebvre (1971)
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