Il capitalismo americano
di DANIELE BALICCO e PIETRO BIANCHI [1]
(10 febbraio 2014, www.democraziakmzero.org)
Pubblichiamo un saggio di Daniele Balicco e Pietro Bianchi dal terzo volume di “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici”, vol. III. Jaca Book 2013. Il titolo originale è: “Interpretazioni del capitalismo contemporaneo. Fredric Jameson, David Harvey, Giovanni Arrighi”
Nel secondo dopoguerra, il marxismo ha occupato un ruolo importante nel campo della cultura politica europea, soprattutto in Italia, Germania e Francia. Ma è solo a partire dagli anni Sessanta che la sua influenza travalica gli argini tradizionali della sua trasmissione (partiti comunisti e socialisti; sindacati e dissidenze intellettuali) per radicarsi come stile di pensiero egemonico nell’inedita politicizzazione di massa del decennio 1968-1977. Tutto cambia però, e molto rapidamente, con la fine degli anni Settanta: una serie di cause concomitanti (cito in ordine sparso: la sconfitta politica del lavoro, l’esasperazione dei conflitti sociali, l’uso della forza militare dello Stato conto i movimenti, una profonda ristrutturazione economica, la rivoluzione cibernetica, il nuovo dominio della finanza anglo-americana) modifica non solo l’orizzonte politico comune, ma, in profondità, le forme elementari della vita quotidiana. In pochi anni, tutta una serie di nodi teorici (giustizia sociale, conflitto di classe, redistribuzione di ricchezza, industria culturale, egemonia, ecc.) escono di fatto dal dominio del pensabile; e in questa mutazione occidentale il marxismo, come forma plausibile dell’agire politico di massa, semplicemente scompare.
Sopravviverà contro se stesso come teoria pura, protetta in alcune riviste internazionali prestigiose («New Left Review»; «Monthly Review»; «Le Monde Diplomatique»), in un eccentrico quotidiano italiano («Il Manifesto») e in alcuni fortilizi accademici minoritari, per lo più americani (come per esempio Duke, cuny e New School). La maggior parte degli studi pubblicati in questo nuovo contesto sradicato e internazionale non riesce, come è ovvio, a superare il confine minoritario nel quale è imprigionato. E tuttavia esistono alcune eccezioni, come, per esempio, Postmodernism di Jameson, Limits to Capital di Harvey, The Long Twentieth-Century di Arrighi. Pochi altri testi – forse soltanto Empire di Hardt e Negri, escluso da questo saggio anche perché la sua tesi di fondo, già a distanza di pochi anni, veniva smentita non dalla teoria, ma dalla storia – sono riusciti infatti ad attraversare il deserto politico di questi decenni conquistandosi, magari retrospettivamente, il ruolo di bussola teorica di questo nostro tempo disorientato. Prima di avvicinare questi lavori importanti, fondamentali per decifrare il capitalismo contemporaneo, solo una precisazione: di questi tre autori – tutti e tre firme prestigiose della «New Left Review»– solo Jameson è americano; Harvey è britannico ed Arrighi italiano. Tuttavia, l’associazione non è impropria perché medesimo è il contesto nel quale hanno lavorato e pubblicato la gran parte dei loro studi.
Postmodernismo
Non è stato Fredric Jameson ad inventare il termine «postmodernismo»; e neppure Jean François Lyotard, sebbene lo scelga come aggettivo per il titolo del suo pionieristico saggio pubblicato alla fine degli anni Settanta[2]. Tuttavia, è solo con il lavoro teorico di Jameson che la parola «postmoderno» diventa termine guida del dibattito teorico contemporaneo fino ad assumere la dignità di concetto storico periodizzante. Dopo la pubblicazione di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism sulla «New Left Review» nel 1984 diventerà comune, infatti, pensare come postmoderna l’età contemporanea, qualificandola, con questo aggettivo, come «età della fine del processo di modernizzazione»[3]. La discussione teorica, che lo scritto ha inaugurato, sul significato di questa trasformazione profonda della vita quotidiana nelle società occidentali, ha occupato il centro della teoria critica internazionale per almeno vent’anni. Non stupisce che Postmodernism sia stato subito tradotto in moltissime lingue, fra cui, già alla metà degli anni Ottanta, il cinese mandarino.
Professore di letterature comparate alla Duke University in North Carolina, Fredric Jameson può, senza problemi, essere considerato come l’importatore negli Stati Uniti del marxismo critico europeo. Allievo di Auerbach e di Marcuse, Jameson ha infatti incarnato, con tutti i pregi e i difetti del caso e forse fuori tempo massimo, una figura un tempo tradizionale per la cultura europea, ma sicuramente eccentrica per quella americana: il critico letterario di formazione marxista. Con la differenza, però, che l’innesto di questa tradizione politica in un contesto asettico come quello dei campus americani – universi per lo più avulsi dal mondo reale ed estranei a qualsivoglia movimento sociale, organizzazione politica o sindacale – si è spesso trasformato in un esausto esercizio accademico. Anche nei saggi più riusciti di Jameson, come L’inconscio politico[4] o lo stesso Postmodernismo, probabilmente i suoi due veri capolavori, è difficile non percepire il contesto da cui si originano. Tanto la forma confusa e debordante dell’argomentazione quanto l’accumulo bulimico di eterogenei materiali d’analisi potrebbero senza difficoltà essere letti come una freudiana formazione di compromesso. O forse, molto più probabilmente, come la stanca trascrizione crittografica di un sismografo che segnala ad estranei la presenza di un terremoto avvenuto altrove.
La prima stesura di Postmodernism risale ad un famoso intervento pubblico di Jameson tenutosi al Whitney Museum di New York nell’autunno del 1982. Il titolo anticipa già la sostanza dell’argomentazione: Postmodernism and Consumer Society. La rielaborazione sarà pubblicata in una prima versione nel 1983[5], e in una seconda, più estesa e parzialmente differente, l’anno successivo, con il titolo, negli anni divenuto celebre, di Postmodernism or the Cultural Logic of Late Capitalism. Tutti i lavori successivi approfondiscono spunti od intuizioni già presenti in questo primo saggio, davvero straordinario per condensazione di temi e proposte. Nel 1991 Jameson ha pubblicato in volume – ed è un libro ponderoso, di oltre quattrocento pagine – i suoi lavori più importanti sul tema, incluso, naturalmente, quel primo saggio apparso sulla «New Left Review» che ora dà il titolo e apre l’intera raccolta. Ed è questo il libro canonico per chiunque voglia iniziare ad occuparsi della «questione postmoderna». Vediamo rapidamente come è costruito.
Il volume è diviso in due parti: la prima comprende nove capitoli e sono per lo più saggi già apparsi in rivista, e qui ripubblicati con aggiunte, modifiche, riletture, sistemazioni. La seconda, invece, è inedita e ha la forma di una laboriosa nota a margine, di un commento laterale alla prima sezione orientato verso alcune possibili linee di approfondimento. Non a caso, molti dei saggi pubblicati negli anni successivi – da Geopolitical Aesthetic: Cinema and Space in the World System (1992) fino al più recente Archaeology of the Future: the Desire Called Utopia and Other Science Fictions (2005) – saranno effettivamente la sistemazione compiuta di quelle proposte originarie. Nell’introduzione al volume Jameson descrive i quattro temi fondamentali della sua ricerca, così come si è sviluppata dal saggio originario del 1984: il problema dell’interpretazione dell’estetico, l’utopia come categoria necessaria del pensiero politico, le tracce della sopravvivenza del moderno, la «nostalgia» come ritorno del represso storico.
Le mosse teoriche di Jameson sono sostanzialmente due. La prima: il postmoderno è l’età storica del compimento del processo di modernizzazione («Il Postmoderno è quello che si ha quando il processo di modernizzazione è terminato e la natura è sparita per sempre»[6]). Jameson è subito molto chiaro: il suo studio ha un intento periodizzante, non vuole proporre un nuovo paradigma epistemologico, come Lyotard (La condition postmoderne); né descrivere un nuovo stile architettonico, come Jencks (The Language of Post-modern Architecture, Rizzoli, New York 1977); né tantomeno articolare un nuovo progetto filosofico, come Habermas (Modernity – an Incomplete Project, in AA.VV., The Anti-Aestetic, cit., pp. 3-15). Il postmoderno, per Jameson, è, molto più semplicemente, una categoria storica. Descrive un’epoca caratterizzata, come chiaramente indica il prefisso «post», dall’esaurimento del movimento moderno, dall’estenuarsi del suo processo di trasformazione sociale, economica e culturale. Il ragionamento che guida la sua periodizzazione si origina, ed è profondamente suggestionato, dalla lettura di Late Capitalism(Humanities Press, London 1975) di Ernest Mandel. Seguendo l’interpretazione dell’economista trockijsta belga-tedesco, Jameson è persuaso che ci siano tre fondamentali discontinuità nello sviluppo tecnologico moderno a cui corrispondono, in modo più o meno coerente, tre diverse fasi dello sviluppo economico, sociale, estetico.
La prima, situabile a partire dalla seconda metà del Settecento in Inghilterra, ma operativa lungo tutto l’Ottocento nel resto d’Europa, riguarda l’invenzione dei motori a vapore. A questo primo salto tecnologico corrisponde un’intensa stagione di trasformazioni sociali, politiche ed economiche: sono questi gli anni della prima rivoluzione industriale e della rivoluzione politica americana e francese. Ma le trasformazioni naturalmente agiscono in profondità, trasformano il pensiero: è questa, infatti, l’età che pone, per la prima volta, il problema filosofico dell’emancipazione e della libertà individuale in un sistema post-cetuale, non comunitario; ma è anche l’età della catastrofe del sistema dei generi, se nel giro di pochi anni l’intero corpus letterario tradizionale si sfalda e il centro del campo estetico viene conquistato da due forme sostanzialmente nuove: la lirica moderna e il novel. Questa, nella periodizzazione di Jameson, ed è una lettura che corrobora le antiche intuizioni di Lukács, è «l’età del realismo», l’età, fra gli altri, di Scott e di Balzac, di Hegel, di Beethoven e di Smith.
Dalla seconda metà dell’Ottocento diventa visibile, perché determinante, un nuovo poderoso salto tecnologico: l’invenzione dei motori elettrici, dei motori a scoppio, quindi lo sviluppo dell’industria chimica. Sono questi gli anni dell’invenzione del telegrafo e delle ferrovie. Successivamente, delle automobili, del telefono, della radio e degli aeroplani. Ognuna di queste invenzioni trasforma radicalmente l’uso e la percezione dello spazio e del tempo. Del resto, questo mondo progressivamente rimpicciolito è anche un mondo progressivamente conosciuto, conquistato, controllato e spartito: il 1881 è la data del congresso di Berlino. Poi verranno le guerre mondiali. Secondo Jameson, è solo a questo punto dello sviluppo del capitale che diventa avvertibile e tragico il contrasto fra il nuovo universo sociale e percettivo costruito e plasmato dalle macchine e tutto ciò che, pur coabitandovi, tuttavia riesce ancora a preservarsi, rimanendone al di fuori, segno antropomorfico millenario in un universo sempre più accelerato e non-umano. Di questa precisa contraddizione il modernismo è la soluzione simbolica. Che potenzi la forma come resistenza aristocratica ad un presente minaccioso (come, per esempio, in Flaubert, Proust o Mahler) o che viceversa esalti la modernità tecnologica attraverso strategie di luddismo estetico (e si pensi anche solo a Rimbaud, Marinetti, a Duchamp o a Beckett), quello che è comune alle due strategie è la percezione di essere in bilico fra due mondi, di percepirli, nel bene e nel male, ancora come differenti e antagonisti: Freud e Nietzsche, Einstein e Svevo, Keynes e Schönberg, Lenin e Le Corbusier, Ford e Ejzenstejn. Non è un caso, secondo Jameson, che proprio in questi anni diventino centrali due concetti estetici: il concetto di «stile» e il concetto di «genio». Entrambi esprimono la possibilità della totalizzazione del differenziato anticipata nella forma – ed è compensazione simbolica di un’oggettiva dépossession du monde, che nessuna esperienza personale potrà ormai più colmare – oppure pretesa, rischiata, combattuta nella politica – ed è la storia tragica, quanto meno negli esiti, del movimento operaio e delle rivoluzioni comuniste mondiali. Il modernismo esprime la sostanza di questa tumultuosa età di lotta fra forze oppositive, tanto nella possibilità di un nuovo equilibrio fra mondo umano e sistema delle macchine; quanto, viceversa, nella possibilità oggettiva del suo annientamento: Auschwitz e Hiroshima.
Il terzo salto tecnologico è spinto dall’invenzione dei motori nucleari e dalla cibernetica, a partite dagli anni Quaranta del secolo scorso negli Stati Uniti; più o meno dall’inizio degli anni Sessanta nell’Europa occidentale. Quello che è fondamentale capire di questa nuova trasformazione è, secondo Jameson, l’inedita capacità meccanica di plasmare le forme elementari della percezione umana, di invadere, in poche parole, il dominio dell’estetica. Quindi, di elaborare, produrre ed esprimere cultura. Le nuove macchine, infatti, non producono oggetti, ma ri-producono il mondo. Sono depositi sconfinati e non-umani di linguaggio e di memoria. Della presenza, per quanto residuale, di un universo ancora pre-moderno cancellano la percezione, le tracce; e soprattutto la possibilità del ricordo. Si pensi anche solo a come sono stati trasformati la Natura e l’Inconscio, elementi ancora simbolicamente caricati e percepiti nelle età precedenti come irriducibili al processo di modernizzazione. Secondo Jameson se lo sviluppo dell’industria culturale colonizza il secondo, invadendo l’immaginazione, manipolando il desiderio, estetizzando le pulsioni, l’industrializzazione dell’agricoltura, l’impiego della chimica e delle biotecnologie genetiche per il suo sviluppo intensivo, trasforma definitivamente la prima, il suo uso, il suo controllo, la sua conoscenza. Di questo nuovo universo percettivo non antropomorfico il postmodernismo è la traduzione simbolica: dall’architettura di Las Vegas agli aeroporti internazionali, dalla pop art di Andy Warhol alla musica elettronica, dal movimento punk a quello new age. E, soprattutto, la video art che, insieme a design e architettura, occupa il centro del sistema estetico postmoderno. Per quanto il nuovo universo percettivo escluda a priori la possibilità dello stile, essendo l’età nella quale le macchine hanno conquistato il dominio dell’espressività, si possono ricordare almeno gli autori sui quali Jameson concentrerà il suo implacabile sguardo diagnostico: fra gli altri, David Lynch, Claude Simon, Frank Gehry, Robert Gober.
Come si vede, il ragionamento alla base di questa periodizzazione, tanto affascinante quanto discutibile, è di natura economico/tecnologica. Nella lettura di Jameson le trasformazioni tecnologiche sono sintomi, vettori periodizzanti di mutazioni molto più vaste. Il suo sguardo acrobatico si sofferma però solo sul loro impatto sociale e sensorio: marxianamente, è uno sguardo che non supera mai la soglia della sfera della circolazione. Lontanissima da quest’analisi l’idea che i salti tecnologici siano anche momenti di conflitto interni alla storia dell’uso capitalistico della scienza. E che quest’ultima, incorporata nello sviluppo delle macchine, produca un’innovazione per lo più comandata contro il lavoro vivoe quasi sempre trasformata in un’arma nella competizione infra-capitalistica. Jameson preferisce adottare lo sguardo neutro e scettico dell’osservatore partecipante; scelta decisamente eccentrica, per un intellettuale che si autodefinisca marxista. La sua periodizzazione infatti descrive solo la storia della progressiva espansione del dominio delle macchine su tutte le dimensioni dell’esistenza umana fino a conquistare, nel postmoderno, le forme elementari della percezione. Quello che rivela, infatti, l’analisi dell’estetica contemporanea, non è altro che il formarsi di una nuova e precisa antropologia: «il postmoderno deve essere visto come la produzione di persone postmoderne capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare mondo socioeconomico»[7]. Ed è questa la tesi che sostanzia il secondo movimento di fondo della sua impostazione. L’analisi dell’eterogeneo universo estetico postmoderno, dal celebre confronto fra Van Gogh e Andy Warhol sulla trasformazione e sul declino dello stile espressivo, all’analisi della «nostalgia» come forma estetica dell’impossibilità della narrazione storica in Ragtime di Doctorow o nel film Body Heat di Kasdan, fino all’interpretazione dell’organizzazione dello spazio del Westin Bonaventura Hotel di Portman in Downtown Los Angeles, serve a Jameson come verifica della tendenza. Il suo è uno sguardo diagnostico, l’uso dell’estetico è sempre sintomatologico. Per questa ragione l’analisi non è interessata ad esprimere giudizi di valore, ma al reperimento delle tracce, al riconoscimento degli indizi significativi. All’altezza di questo primo saggio, Jameson li raggruppa sotto tre costanti, correlate e interdipendenti: il declino della soggettività espressiva, l’implosione del tempo, l’equivalenza dello spazio. Sono tre lati di uno stesso triangolo: la forma generica della nuova antropologia plasmata dal sistema delle macchine.
I limiti del Capitale
Molto diversa rispetto a quella di Jameson – che resta, nella solo apparente bulimia teorica, un marxista occidentale standard – l’impostazione teorica di David Harvey. A dire il vero, il suo percorso intellettuale è così particolare da poter essere considerato quasi un unicum all’interno delle vicende del marxismo internazionale di fine secolo. Non soltanto perché il suo ambito disciplinare – la geografia – lo colloca in una posizione strutturalmente eterodossa rispetto alla tradizione marxista, ma anche per il relativo isolamento che caratterizzerà buona parte della sua vita intellettuale, fino all’indubbio successo degli ultimi anni.
Harvey compie la sua formazione all’Università di Cambridge; le sue prime ricerche di geografia storica riguardano la coltivazione del luppolo nel Kent del xix Secolo. Anche il suo primo lavoro importante, Explanation in Geography[8], pubblicato nel 1969, è relativamente tradizionale. Tuttavia già in questi primi anni di apprendistato si nota un bisogno positivista di dare respiro sistematico ad un disciplina, come la geografia, ancora chiusa in quello che Harvey definisce «eccezionalismo», ovvero la tendenza a concepire i propri oggetti di studio come una sequenza di casi particolari sprovvisti di una qualsivoglia legge universale[9]. La svolta, allo stesso tempo politica e accademica, avviene nel 1970 con il trasferimento negli Stati Uniti, alla John Hopkins University di Baltimora. Qui Harvey inizia a lavorare in un dipartimento interdisciplinare che amplia i suoi punti di riferimento teorici ben oltre i confini della geografia; incontra un milieu teorico già orientato verso tematiche radicali, il movimento contro la guerra del Vietnam e una città che può essere considerata un laboratorio di sviluppo urbano contemporaneo per le vertiginose ineguaglianze sociali che produce. Il suo lavoro del 1973, Social Justice and the City[10], rappresenta il suo definitivo incontro con il marxismo. Tuttavia è solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con The Limits to Capital[11], il suo lavoro teorico più ambizioso e più sistematico, che la sua originale impostazione teorica raggiunge piena maturità. Harvey ci lavora per quasi un decennio, trascorrendo anche un anno di studi a Parigi (esperienza alla base di un successivo studio – che è probabilmente il suo capolavoro saggistico – sulla trasformazione urbanistica, sociale e politica della Parigi di Hausmann[12]). Alla pubblicazione del libro, che avverrà solo nel 1982, le reazioni furono tuttavia abbastanza fredde. Il lavoro venne sostanzialmente ignorato, perfino nel dibattito economico marxista (unica eccezione, la recensione negativa di Michael Lebowitz sulla Monthly Review). Harvey scontava senz’altro la poca familiarità che molti studiosi marxisti avevano con la disciplina geografica. Tuttavia, non è difficile riconoscere che la lenta penetrazione delle tesi di Harvey nel dibattito teorico internazionale derivi soprattutto dalla novità del suo approccio. Oggi, a distanza di oltre tre decenni dalla pubblicazione, The Limits to Capital è universalmente riconosciuto come il punto di riferimento imprescindibile di quanto, nella teoria internazionale, cade sotto il nome di «materialismo storico-geografico».
Harvey costruisce la propria argomentazione attraverso un confronto serrato con i tre volumi del Capitale, riducendo al minimo i riferimenti alla letteratura secondaria. La caratterista principale di quest’opera è infatti quella di essere un appassionato close reading del testo marxiano. Del resto, i suoi seminari universitari di lettura del Capitale, che vanno avanti ininterrottamente dal 1971 (e che hanno avuto negli ultimi anni, grazie alla pubblicazione su web – www.davidharvey.org – un successo planetario) oltre a provare il suo indubbio talento divulgativo, mostrano molto bene il suo metodo di lavoro. L’idea di fondo di The Limits to Capital è relativamente semplice: analizzare il processo di accumulazione capitalistico attraverso la lente della sua articolazione spaziale. Diversamente da Jameson, Harvey astrae «da un certo tipo di complessità (la complessità empirica della vita di ogni giorno), in modo da rendere visibile un’altra complessità, la complessità dei processi sottostanti che appaiono nella forme»[13]. Seguendo Marx, Harvey legge il rapporto di capitale come un rapporto strutturalmente fondato su una contraddizione: il processo di accumulazione, infatti, è per un verso caratterizzato da spiccati tratti di omogeneizzazione (l’universalità del valore divenuto denaro), ma per un altro tende ad esprimersi sempre in forme particolari differenti. Alla coppia concettuale astratto/concreto, che Marx mutua da Hegel, si sovrappone così la coppia omogeneo/differente. Secondo Harvey, la mobilità e rapidità della ristrutturazione dei processi di accumulazione intrattiene sempre un rapporto dialettico con la dimensione concreta dello spazio. Da un lato infatti, la dimensione spaziale permette e fluidifica i processi di accumulazione in un certo luogo, ma dall’altro lato può esserne un ostacolo nel momento in cui, ad esempio, la rigidità del capitale fisso impedisce la rapidità di un processo di ristrutturazione. In Harvey dunque, lo spazio non è un’alterità inerte e immutabile che si oppone dall’esterno al processo di accumulazione; semmai è un soggetto in continua trasformazione (o meglio, il risultato di un rapporto sociale antagonistico) nel quale si sono sedimentati i cicli precedenti e le crisi che l’hanno attraversato. È qui che vediamo l’ambiguità della parola limit, essendo contemporaneamente un ostacolo che frena il processo di accumulazione e insieme il limite del modo di produzione capitalistico che deve essere superato ad ogni ciclo.
Per Harvey la circolazione di capitale è caratterizzata da una fondamentale e ineliminabile instabilità: da un lato perché si producano dei profitti è necessario impiegare lavoro vivo nel processo produttivo; dall’altro, l’innovazione tecnologica tende ad espellere sempre di più lavoro vivo – l’unica fonte del valore – dalla produzione. Il lavoro vivo, pur necessario, tende paradossalmente ad essere sostituito dall’innovazione tecnologica nella produzione. Il risultato è quella forma di irrazionalità capitalistica che emerge nitidamente nei periodi di crisi, dove coesistono enormi capacità produttive inutilizzate e disoccupazione di massa. In questi casi, i surplus sia di capitale fisso che di forza-lavoro, che non riescono a essere assorbiti, inducono un processo di svalutazione (sotto forma o di merci invendute o di capacità produttive sottoutilizzate o di disoccupazione). A rigor di logica sarebbe possibile avere, a seconda dei rapporti di forza o a causa di squilibri nella composizione, solosurplus di capitale fisso o solo di forza-lavoro. Tuttavia, Harvey è interessato soprattutto a quei momenti storici nei quali il capitale incontra una crisi strutturale, dove vi è un surplus che non riesce a essere assorbito in entrambi i poli della relazione. Questa contraddizione fondamentale che non può essere risolta una volta per tutte, può tuttavia generare dei temporanei processi di ristrutturazione che si muoveranno lungo due direttrici: o temporali o spaziali. Nelle direttrici temporali, attraverso la creazione di capitale fittizio, viene dilazionato nel tempo l’impatto con lo squilibrio fondamentale nella produzione (processi di finanziarizzazione). Ma è sulle direttrici spaziali che Harvey concentra la sua attenzione, contribuendo ad uno sviluppo innovativo delle teorie marxiane della crisi. La domanda fondamentale di The Limits to Capital sarà dunque: in che modo il capitale riesce a evitare momentaneamente la propria svalutazione tramite una ristrutturazione spaziale?
Secondo Harvey, è indubbio che Marx abbia privilegiato la dimensione temporale su quella spaziale: «il fine ultimo e l’obiettivo di chi è impegnato nella circolazione del capitale deve essere, dopotutto, controllare il surplus di tempo di lavoro e convertirlo in profitto all’interno del tempo di rotazione socialmente necessario»[14]. Tuttavia, se si osservano le dinamiche geografiche dello sviluppo capitalistico, è altresì indubbio che storicamente il capitale esprima una continua tensione verso il superamento delle barriere spaziali o, più precisamente, verso l’annientamento dello spazio mediante il tempo. E tuttavia questa compressione spazio/temporale può essere raggiunta soltanto tramite una continua riconfigurazione spaziale. Si giunge così al paradosso di un’organizzazione dello spazio finalizzata, capitalisticamente, al superamento dello spazio stesso. Harvey definisce spatial fix il modo attraverso cui lo spazio organizza il superamento del proprio stesso limite:
Nonostante questi diversi significati di fix possano apparire contraddittori [ndr: «fissare» «inchiodare» e «aggiustare» «risolvere un problema»], sono tutti internamente legati all’idea che qualcosa (una questione, un problema) possa essere corretta e messa al sicuro. Nella mia concezione del termine, questa contraddizione può essere usata per far vedere qualcosa di importante delle dinamiche geografiche del capitalismo e delle sue tendenze alla crisi. In particolare mi sono occupato del problema della «fissità» (nel senso di essere posto al sicuro) opposta al movimento e alla mobilità del capitale. Ho notato, per esempio, che il capitalismo ha bisogno di fissare uno spazio (in strutture immobili di trasporto e reti di comunicazioni, così come nella costruzione di fabbriche, strade, case, acquedotti, e altre infrastrutture fisiche) per superare lo spazio (raggiungere la libertà di movimento attraverso i bassi costi di trasporto e comunicazione). Questo porta a una delle contraddizioni centrali del capitale: deve costruire uno spazio fisso (fixed) necessario per il proprio funzionamento a un certo punto della sua storia soltanto perché poi in un periodo successivo possa distruggerlo (e svalutare di molto il capitale là investito) per fare spazio per un nuovo spatial fix (e aprire nuove possibilità di accumulazione in altri luoghi e territori)[15].
Dall’esportazione di capitali o di forza-lavoro attraverso l’inclusione di nuovi territori nel modo di produzione capitalistico (imperialismo) allo sviluppo di nuove tecnologie che accorciano tempi di spostamento di merci o capitali; dal governo territoriale sulla forza-lavoro (differenziali geografici nel mercato del lavoro) al mercato fondiario e così via, compito di una teoria marxiana dello spazio è quello di descrivere la modalità attraverso cui le contraddizioni fondamentali di un processo di accumulazione si esprimono e si attestano temporaneamente in un dato equilibrio spaziale.
A partire da The Condition of Postmodernity[16] fino ai saggi pubblicati in questi ultimi anni (The New Imperialism[17]; A Brief History of Neoliberalism[18]; The Enigma of Capital[19]), Harvey applicherà le categorie elaborate in Limits to Capital all’attuale fase di accumulazione e alla sua crisi. In particolare, con il concetto di «accumulazione per espropriazione» (accumulation by dispossession) Harvey identifica la strategia con cui la classe dominante attuale sta cercando di ri-configurare un nuovo spazio adeguato alla ripresa dell’accumulazione. Esproprio e privatizzazione di beni comuni, erosione di quel che resta del welfareuniversalistico, attacco alle conquiste sindacali di mezzo secolo, sono tutte azioni politiche solo apparentemente diversificate, ma che in realtà hanno come scopo comune l’appropriazione di una serie di «spazi» non del tutto messi a valore perché ancora parzialmente governati da una logica pubblica.
Con [accumulazione per espropriazione] intendo la continuazione e proliferazione di pratiche di accumulazione che Marx ha descritto come «primitive» o «originarie» durante l’ascesa del capitalismo. Queste includono la mercificazione e la privatizzazione della terra e l’espulsione forzata di popolazioni di contadini […]; la conversione di varie forme di proprietà intellettuale (comune, collettiva, statale, ecc.) in diritti di proprietà privata esclusiva […]; la soppressione dei diritti ai beni comuni; la mercificazione della forza lavoro e la soppressione di forme alternative (indigene) di produzione e consumo; processi coloniali, neocoloniali, imperiali di appropriazione di risorse (comprese le risorse naturali); monetizzazione dello scambio e tassazione, in particolare della terra; la tratta di schiavi (che continua in particolare nell’industria del sesso); usura, il debito nazionale e, la più devastante di tutte, l’uso del sistema creditizio come mezzo radicale di accumulazione per espropriazione[20].
Secondo Harvey, dunque, non si può separare il processo di finanziarizzazione, generato dalla crisi strutturale degli anni Settanta, dall’impressionante compressione spazio-temporale che l’ha accompagnato: nel mondo che abitiamo il tempo di accumulazione del capitale (e la conseguente ristrutturazione spaziale) si è infatti accelerato in questi ultimi quarant’anni in modo vertiginoso, creando squilibri e instabilità che difficilmente potranno assestarsi in un nuovo spatial fixcapace di armonizzarli, seppur transitoriamente, senza passare attraverso un lungo periodo di caos e di distruzioni massicce di capitale; e, naturalmente, di vita.
Il lungo xx secolo
Anche il capolavoro saggistico di Giovanni Arrighi, Il lungo xx secolo[21], è un lavoro teorico che parte dalla crisi capitalistica di inizio anni Settanta. Come Jameson, Arrighi decifra le trasformazioni violente che questa crisi ha generato, elaborando una periodizzazione di lungo periodo. Nello stesso tempo, il suo lavoro segue anche la direzione di Harvey, almeno per quanto riguarda l’attenzione con cui analizza le metamorfosi geografiche dei cicli sistemici di accumulazione. E tuttavia, a differenza dei primi due, il suo lavoro si muove su coordinate davvero molto vaste, coordinate che coincidono, per quanto riguarda lo spazio, con il sistema-mondo; e per quanto riguarda il tempo, con l’intero ciclo dell’era moderna, dall’emergere del capitalismo nel sistema delle città-Stato italiane rinascimentali, fino alla crisi dell’egemonia statunitense di questi ultimi decenni. Tre sono gli autori guida alla base di quest’ambizioso progetto di ricerca: Marx, Gramsci e Braudel. Ma fra i tre è sicuramente quest’ultimo l’autore decisivo, quello con cui rilegge, riposizionandole sulla longue durée del sistema-mondo, tantola logica dell’accumulazione marxiana, quanto la riflessione di Gramsci su dominio ed egemonia.
Può sembrare strano, ma Arrighi di formazione è un economista neoclassico. Si laurea infatti all’Università Bocconi di Milano alla fine degli anni Cinquanta, con l’intento di portare avanti l’azienda del padre, che è morto pochi anni prima. Il nonno materno, un ricco industriale tessile, gli sconsiglia però di mettersi a lavorare come imprenditore, perché, secondo lui, non ne ha la stoffa. E infatti, dopo pochi anni, Arrighi capisce chiaramente che la sua passione è la ricerca: nel 1963 vince una borsa dell’Università di Londra per una cattedra di economia in Rhodesia (l’attuale Zimbabwe). Il contatto con la realtà politica africana – sono gli anni della decolonizzazione – e la conoscenza di antropologi come Clyde Mitchell e Jaap Van Velsen, che lavorano nella sua stessa facoltà, metteranno definitivamente in crisi i modelli matematici acquisiti nella formazione bocconiana. Inizia qui il suo abbandono dell’economia neoclassica per la sociologia storico-comparativa. Risultato di questa metamorfosi teorica è il suo primo libro, Struttura di classe e sovrastrutture in Africa[22], tradotto in italiano nel 1969 da Einaudi. Già in questo primo saggio emergono nitidamente due temi centrali della sua interpretazione del capitalismo. Il primo: per comprendere le forme dello sviluppo di una qualsiasi regione o Stato-nazione è fondamentale conoscere la struttura del capitalismo, così come si è organizzata a livello mondiale: quali potenze dominanti, quali polarità, quali gerarchie. Il secondo: la trasformazione dei lavoratori in forza lavoro salariata non sempre e non ovunque è condizione necessaria per lo sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Nel 1969 Arrighi torna in Italia, giusto in tempo per essere parte di quei movimenti antisistemici su cui poi rifletterà a lungo, almeno fino alla pubblicazione nel 1989 di Antisystemic Movements, insieme a Wallerstein e Hopkins[23]. Il decennio italiano, prima come professore di sociologia a Trento, poi ad Arcavacata, è segnato infatti, oltre che dall’insegnamento, da un’intensa attività politica. Sono questi gli anni in cui fonda a Milano, insieme a Romano Madera e Luisa Passerini, il Gruppo Gramsci, con l’intento di elaborare una strategia politica orientata verso l’autonoma di classe[24]. Da subito inizia ad interrogarsi sulla natura della crisi economica che in quegli anni sta sconvolgendo l’Occidente. Leggerà l’inconvertibilità del dollaro in oro, imposta da Nixon nel ’71, come un segnale non equivocabile: gli Stati Uniti stanno modificando le regole e l’organizzazione del capitalismo mondiale. Questo significa che l’ordine geopolitico costruito nell’immediato dopoguerra sta per essere superato. Negli studi più importanti di questo periodo – Verso una teoria della crisi capitalistica[25] e Geometria dell’imperialismo[26] – Arrighi cerca costantemente di smarcarsi dalle intepretazioni marxiste dominanti. Anzitutto, legge la crisi di inizio anni Settanta come una crisi da caduta del saggio di profitto e non da sovrapproduzione, come fu, invece, quella del 1929. Una lettura corretta e tuttavia parziale che solo negli anni successivi approfondirà introducendo, nel quadro generale, il fattore scatenante: l’esacerbarsi della competizione inter-capitalistica. Nello stesso tempo proverà a mettere in crisi anche il paradigma leninista e la sua interpretazione dell’imperialismo. Attraverso la lettura di Hobson[27] Arrighi scompone le forme di dominio inter-statale in età moderna in quattro modalità operative sempre coesistenti: colonialismo, impero formale, impero informale, imperialismo. L’imperialismo dunque non rappresenterebbe più, come invece in Lenin, l’ultima fase dello sviluppo dei rapporti inter-statali, quanto una modalità operativa standard, coesistente insieme ad altre. Senza entrare nel merito di questa lettura, va comunque almeno segnalato che, adottando questa prospettiva, Arrighi di fatto elide il nodo centrale dell’interpretazione leninista che vede nell’imperialismo la proiezione geopolitica del potere finanziario, come unità di potere bancario e potere industriale[28].
All’inizio di questo paragrafo abbiamo scritto che lo studio di Braudel rappresenta per Arrighi l’incontro teorico fondamentale, ma, come ora è evidente, è un incontro tardivo. È solo con il suo trasferimento nel 1979 al Fernard Braudel Center di Binghamton, nello Stato di New York, che la lezione dello storico francese, mediata dalla scuola di sistemica di Hopkins, Wallerstein e Frank, si trasforma nella chiave teorica capace di decifrare il significato delle espansioni finanziarie come fenomeno storico ricorrente e non come stadio ultimo e finale dell’accumulazione, come invece in Hilferding o, ancora, in Lenin. Soprattutto nel Braudel di Civiltà materiale, economia e capitalismo[29] Arrighi trova in un colpo solo l’interpretazione guida per comprendere il nesso che lega crisi economica degli anni Settanta e successiva espansione del potere finanziario statunitense. Per Braudel, infatti «ogni evoluzione complessiva [dell’ordine capitalistico] sembra annunciare, con lo stadio del rigoglio finanziario, una sorta di maturità: è il segnale dell’autunno»[30]. Se si studia, infatti, la storia del capitalismo come la storia di lunga durata di un meccanismo astratto di accumulazione di potere e di ricchezza (e non esclusivamente come modo di produzione) è possibile rilevare alcune costanti di fondo e almeno una ricorrenza precisa: ogni volta che la potenza egemone di una determinata configurazione storica abbandona il campo della produzione di beni per la speculazione finanziaria, la sua sovranità sul sistema inizia a vacillare. La finanziarizzazione rappresenterebbe dunque l’autunno di un potere, o più precisamente, il momento conclusivo del ciclo sistemico di accumulazione. Quest’ultimo concetto è particolarmente importante perché mostra come Arrighi riposizioni la struttura logica del modo di produzione capitalistico, così come è stata descritta da Marx nel Capitale, sulla longue durée dischiusa dalle analisi di Fernard Braudel:
La formula generale del capitale di Marx (D-M-D¹) può essere considerata descrittiva non solo della logica dei singoli investimenti capitalistici, ma anche di un modello ricorrente del capitalismo storico come sistema mondiale. L’aspetto principale di questo modello è costituito dall’alternanza di epoche di espansione materiale (le fasi D-M dell’accumulazione di capitale) e di epoche di rinascita e di espansione finanziaria (le fasi M-D¹). Nelle fasi di espansione materiale il capitale monetario «mette in movimento» una crescente massa di merci (inclusa la forza-lavoro mercificata e le doti naturali); nelle fasi di espansione finanziaria una crescente massa di capitale monetario «si libera» dalla sua forma merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie (come nella formula marxiana abbreviata D-D¹). Insieme, le due epoche o fasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione.
A questo punto, Arrighi inizia un’appassionante ricostruzione storica, economica e politica. Retrocede, insieme a Braudel, alla fine del Medioevo e prova a verificare la tenuta di questo modello interpretativo. Costruisce così una periodizzazione di lunghissima durata, individuando quattro cicli sistemici di accumulazione. Il primo coincide con «il lungo xvi secolo italiano» (1350-1650), e si concentra in particolare sulla crisi del potere di Venezia, Milano e Firenze fino allo stabilirsi dell’alleanza politica fra Genova (potere finanziario) e corona castigliana (potere militare). Se paragonate alle altre città-Stato italiane rivali, Genova è una piccola città di modeste dimensioni e priva di difesa militare. Cionondimeno, ha una classe capitalistica molto dinamica, organizzata in una diaspora cosmopolita, strutturata in una rete internazionale gravitante su alcune piazze controllate. Per oltre due secoli, questa struttura reticolare riuscirà a dominare la finanza internazionale sfruttando la competizione europea per la conquista di capitale mobile a proprio vantaggio. La «nazione» genovese ha però un problema serio, essendo priva di protezione militare; di qui l’alleanza con gli spagnoli, a cui finanzia le esplorazioni fuori dal Mediterraneo, anche per mettere sotto scacco il monopolio veneziano delle rotte commerciali orientali. Il centro di questo primo ciclo è per questa ragione anfibio: il potere militare e territoriale gravita intorno alla corona spagnola che si serve del potere finanziario genovese, in un primo tempo per consolidarsi, quindi per scoprire e costruire un vero e proprio impero mondiale. Nel secondo ciclo sistemico, che va dalla fine del xvi secolo fino alla metà del xviii, protagonista è invece l’Olanda. Rispetto a Genova, le Province unite hanno una forma ibrida: conservano alcuni elementi delle città-Stato italiane che vengono però combinati con prerogative proprie dei nascenti Stati nazionali. L’Olanda esprime infatti un’organizzazione interna capace di contenere potere sufficiente da renderla indipendente dalla Spagna imperiale e da riuscire a costruire, nello stesso tempo, una rete di avamposti esterni capaci di erodere, poco a poco, la supremazia marittima e commerciale spagnola e, nell’area dell’Oceano Indiano, portoghese. Tra il 1620 e il 1740 Amsterdam diventa il primo mercato azionario internazionale in seduta permanente. Può essere considerata come la prima borsa mondiale, nodo strategico centrale di una rete internazionale di avamposti, costruita e controllata da «compagnie privilegiate», come la potentissima voc. Con l’ascesa della Gran Bretagna, nella seconda metà del Settecento, si struttura il terzo ciclo sistemico, che si protrae fino agli inizi del xx secolo. Rispetto alle Province unite, l’Inghilterra è un vero e proprio Stato. Essendo un’isola, non ha grandi problemi territoriali, a differenza di Francia, Spagna, Germania e Olanda. La sua classe dirigente, non dovendo finanziare guerre per proteggere o espandere confini, si specializza subito nella competizione mercantile, riuscendo a costruire un impero marittimo senza precedenti per estensione e per possibilità di controllo di risorse naturali e umane. Se dunque rispetto al ciclo genovese le Province unite erano state capaci di coordinare capacità militare, strutture mercantili e potere finanziario, rispetto a quello olandese, l’Inghilterra riesce a incorporare al suo interno anche lo sviluppo produttivo: il controllo mondiale di materie prime e di forza lavoro si combina con la rivoluzione industriale, trasformando Londra, contemporaneamente, in centro manifatturiero del mondo e in centro finanziario. L’ultimo ciclo sistemico è quello dominato dagli Stati Uniti d’America, dalla fine del xix secolo fino ad oggi. Con l’emergere degli usa come potenza dominante si dilatano ulteriormente le dimensioni interne del centro di accumulazione di potere – non più uno Stato-isola, ma un vero e proprio Stato-continente; inoltre, la capacità di produzione industriale raggiunge dimensioni tali da garantire protezione militare ed economica ad un numero elevato di Stati satelliti, subordinati o alleati. Ma nell’organizzazione complessiva del sistema mondiale, l’innovazione statunitense riguarda soprattutto il controllo dei mezzi di transazione: per la prima volta produzione e consumo vengono coordinati in un apparato produttivo multinazionale integrato.
Ridotta ai minimi termini, l’analisi di Arrighi è dunque abbastanza lineare: ogni ciclo sistemico conosce una prima fase di espansione materiale, nella quale il soggetto egemone coordina a proprio vantaggio il mercato mondiale; e una seconda fase di espansione finanziaria, dove la potenza egemone declinante abbandona il campo della produzione diretta per dominare il sistema attraverso la finanza, mentre nuove realtà si scontrano per emergere come leader del ciclo sistemico successivo. Esattamente come con l’accumulazione marxiana, Arrighi riformula i concetti gramsciani di egemonia e di dominio spostandoli dal conflitto fra classi all’interno di uno Stato, al conflitto fra Stati all’interno del sistema-mondo:
il concetto di «egemonia mondiale» si riferisce in particolare al potere di uno Stato di esercitare le funzioni di leadership e di governo su un sistema di Stati sovrani. In teoria, questo potere può implicare solo la gestione ordinaria di tale sistema secondo le modalità proprie di ciascuna epoca. Storicamente, tuttavia, il dominio su un sistema di Stati sovrani ha sempre comportato qualche tipo di azione trasformatrice che ha mutato in maniera fondamentale il modo di operare del sistema. Questo potere è qualcosa di più e di diverso dal «dominio» puro e semplice. È il potere associato al dominio, accresciuto dall’esercizio della «direzione intellettuale e morale». […] [Per questa ragione] nel nostro schema, […] mentre concepiremo il dominio come basato principalmente sulla coercizione, l’egemonia sarà intesa come il potere aggiuntivo che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità di porre su un piano «universale» tutte le questioni intorno alle quali ruota il conflitto[31].
Sta qui la ragione per la quale il passaggio da un ciclo sistemico all’altro avviene quando al dominio della potenza declinante si sostituisce una nuova egemoniacapace anzitutto di mettere ordine al caos creato dai problemi del sistema precedente. La nuova leadership dovrà infatti essere in grado di innovare tanto le regole del mercato mondiale quanto l’esercizio della forza militare, assumendosi l’onore della coordinazione politica e delle tecniche di protezione dell’intero sistema. Non è dunque un caso se ad ogni salto sistemico le dimensioni territoriali della potenza egemone si dilatano: tanto più grande lo spazio da governare tanto più complessi i problemi organizzativi, produttivi, finanziari e militari da risolvere e guidare. Nello stesso tempo, tuttavia, questa progressione lineare conoscerebbe al proprio interno anche un movimento in direzione contraria, di recupero di tecniche di governo sperimentate nel ciclo precedente. Facciamo solo due esempi. L’Olanda rispetto a Genova è un piccolo Stato-nazione capace di incorporare i costi della protezione militare che la «nazione» genovese invece aveva appaltato all’esterno, alleandosi con la corona spagnola. Nello stesso tempo, però, le Province unite recuperano strategie militari e strutture di governo proprie del capitalismo monopolistico veneziano, il modello sconfitto dall’egemonia genovese. Allo stesso modo, gli Stati Uniti rispetto all’Inghilterra sono un continente capace di pianificare verticalmente produzione e consumo, ma per far questo utilizzano avamposti commerciali (le multinazionali) che recuperano modalità operative già sperimentate dalle compagnie «privilegiate» olandesi. Questa oscillazione a pendolo viene interpretata da Arrighi attraverso l’alternarsi, nella storia del capitalismo mondiale, di due diverse tipologie di accumulazione: una cosmopolita/imperiale e una aziendal-nazionale. La prima – genovese/iberica e britannica – avrebbe avuto una funzione estensiva, essendo responsabile di gran parte dell’espansione geografica del capitalismo moderno. Se infatti sotto i genovesi il mondo fu scoperto, sotto gli inglesi fu conquistato. La seconda tipologia – olandese e statunitense – invece avrebbe svolto una funzione intensiva, di consolidamento di potere. Sotto il dominio olandese la «scoperta» del mondo, operata dagli iberici, partner dei genovesi, fu consolidata in un sistema di depositi commerciali e società per azioni privilegiate convergenti sulla borsa di Amsterdam; sotto quello americano, la conquista britannica del mondo fu stabilizzata in un sistema di mercati nazionali e corporazioni multinazionali avente come suo centro di gravità il governo degli usa. Come si può evincere, anche solo da questa breve esposizione, la formazione neoclassica in Arrighi sicuramente scompare come lente teorica, ma sopravvive a tratti come forma mentisorientata da una continua, e talora ossessiva, attitudine modellizzante.
Il lungo xx secolo si chiude provando ad individuare l’area continentale che potrebbe sostituire il dominio americano esercitando una nuova egemonia. Arrighi scommette sull’Asia orientale, in particolare sul Giappone (ma siamo solo nel 1994) e su tutta la rete manifatturiera e finanziaria che si è sviluppata, a partire dalla Guerra di Corea, sotto la sua orbita di influenza (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Honk Kong). L’evolversi del quadro internazionale nei decenni successivi avrebbe confermato e, nello stesso tempo, smentito questa previsione. Come indicava Arrighi, il centro manifatturiero del mondo si è spostato in Asia orientale, ma è la Cina, e non il Giappone, lo Stato che più di ogni altro ha le caratteristiche sistemiche per sostituire la leadership mondiale degli Stati Uniti. Due anni prima di morire, Arrighi pubblica Adam Smith a Pechino[32],volume interamente dedicato alla Cina e alla «rivoluzione industriosa», oltre che industriale, di cui sarebbe artefice. Va detto che il suo ultimo lavoro è un libro controverso, sicuramente più per le analisi fantasiose sulla presunta qualità smithiana dello sviluppo capitalistico cinese che per i ragionevoli interrogativi sui modi della transizione della leadership mondiale. Ne riporto due. Il primo: nonostante la Cina sia di fatto il centro manifatturiero del mondo, gli Stati Uniti potenza economica declinante mantengono tuttavia il controllo mondiale dell’esercizio della forza militare (Standing Army), un controllo che non conosce, e per molto ancora non conoscerà, rivali credibili. Il secondo: per la prima volta nella storia dei cicli sistemici la potenza declinante non è prestatrice mondiale di liquidità, ma, esattamente all’opposto, è epicentro del flusso di capitali mobili mondiali. Si apre così in realtà un plausibile scenario di caos sistemico, dove, parafrasando Schumpeter «prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della Guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere»[33].