L’altro Novecento
di Pierpaolo Poggio
Pubblichiamo l’introduzione al primo volume de «L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico», opera pubblicata da Jaca Book in coedizione con la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (693 pagine, 40 euro). Un grande lavoro di ricerca attorno ai pensatori e militanti «eretici» del comunismo del Novecento. In questa introduzione, Pier Paolo Poggio, coordinatore del volume, ne spiega gli scopi. Qualche mese fa è uscito l’ultimo volume dal titolo “Alle frontiere del capitale” (a cura di Massimo Cappitti, Mario Pezzella e Pier Paolo Poggio).
Il Novecento, secolo del comunismo e del suo fallimento. La somma di queste due affermazioni, che noi consideriamo fondate, ha prodotto, assieme a molte altre conseguenze, la cancellazione di persone, movimenti, concezioni senza i quali la comprensione del nostro passato è impossibile o fortemente mutilata. La loro eliminazione o stravolgimento sono stati parte costitutiva del programma dei vincitori, anche, e spesso, appartenenti alla loro stessa parte politica. Il primo obiettivo del presente lavoro è quindi di carattere storico e storiografico. Si tratta di riportare alla luce un mondo che rischia di sprofondare nel nulla, ingoiato dall’implosione del sistema sovietico. La finalità e le motivazioni non sono però di carattere antiquario e archeologico; in base a un giudizio di valore e a una valutazione interpretativa, sicuramente contestabili e che per ciò è bene esplicitare, la nostra tesi è che le idee e le esperienze prese in esame non abbiano un interesse unicamente storico, ma rappresentino dei referenti per il presente e il futuro. Certamente non dei modelli o degli idoli, ma una realtà eterogenea, ancora ricca di vita e di possibilità. La delimitazione di campo di ciò che intendiamo per comunismo eretico e pensiero critico nella storia del Novecento è avvenuta per approssimazioni successive, assumendo come termine di riferimento, e cartina di tornasole, la posizione nei confronti dei tre macrosistemi politici ed economici che hanno impresso il loro marchio sulle vicende del Novecento: il comunismo sovietico; il capitalismo liberale; il fascismo. La messa a fuoco di un Novecento radicalmente Altro comporta l’individuazione di figure, movimenti, esperienze non riconducibili alle forme politiche egemoni nella storia del secolo, anzi alternative e critiche nei confronti di queste, anche se per la loro irriducibile diversità potevano pervenire unicamente a una convergenza in negativo. Una prima obiezione si potrebbe sollevare in merito al carattere eurocentrico del criterio adottato. In effetti al di fuori dell’Europa e dell’Occidente la prospettiva e il concetto stesso di comunismo cambiano alquanto, a partire dalla centralità del colonialismo e della lotta contro di esso. Ad ogni modo pensiamo che il criterio regolatore adottato possa essere valido anche per il mondo extraeuropeo, che sarà affrontato in due volumi distinti: uno per le Americhe e l’altro per l’Asia e l’Africa, coprendo per ognuno l’intero secolo, proprio perché nella loro storia prevalsero le strutture della continuità, sotto il segno del dominio coloniale, ovvero della piena realizzazione del capitalismo, rispetto alla frattura segnata, in Europa, dall’instaurarsi dei fascismi e del comunismo stalinista. In tutti i contesti extraeuropei la critica del capitalismo è inestricabilmente connessa all’anticolonialismo e all’antirazzismo, alla centralità del confronto tra civiltà e culture altre rispetto al modello occidentale, innegabilmente forgiato in Europa e poi rigogliosamente fiorito negli Stati Uniti d’America. La delimitazione all’Europa dei due primi volumi, assumendo come anno periodizzante il 1945, può suscitare legittime perplessità anche per altri motivi. In primo luogo si rischia di perdere di vista il carattere universale della rivoluzione del 1917, ma si potrebbe risalire a quella del 1905; a parte ciò, l’accento sull’Europa non avrebbe senso, considerando la sua progressiva marginalizzazione nella seconda metà del Novecento, come conseguenza delle guerre mondiali. Sul primo punto è da dire che la sconfitta della rivoluzione in Occidente, a partire dall’epicentro russo-sovietico, non è stata compensata dalla sua espansione in Oriente. In entrambi i casi la rivoluzione è stata sequestrata dal partito e dallo Stato sovietico e ridotta a strumento di una politica di potenza. Quanto alla marginalizzazione dell’Europa, non si può certo negarla, assumendo come criterio quello politico-militare, più in generale la dimensione statale. Ma non è tanto la sua debolezza istituzionale a inaridirne le fonti dell’immaginazione politica e del pensiero critico, quanto la concentrazione sul presente assoluto dell’economia e del consumo. Non a caso l’Europa spaccata a metà per effetto della guerra ha saputo esprimere, come documenterà il secondo volume di questa opera, un ricco panorama di movimenti e figure riconducibili al pensiero critico ed eretico. Al contrario, l’Europa unificata dopo il crollo dell’89 appare effettivamente in preda allo smarrimento se non alla regressione, al punto che la democrazia sta perdendo di significato ed è messa sotto scacco da istanze post ideologiche, che assumono l’esistente come stato di natura prodotto dal movimento incontrollabile della tecnica. Proprio la lotta contro l’esistente, la sua inaccettabilità in quanto carico di ingiusti- zia, ineguaglianza, violazione della libertà e dignità dei singoli, è all’origine dell’azione e riflessione del comunismo eretico e del pensiero critico novecentesco. Come detto, il criterio adottato per delimitare un tale campo di forze è prevalente- mente negativo, facendo valere il loro distacco e l’attività critica svolta nei confronti del comunismo sovietico, vale a dire dell’URSS e degli Stati, partiti e movimenti che ad esso si rifacevano come guida e modello. Lo stesso dicasi, e a maggior ragione, verso il fascismo nelle sue varie manifestazioni, a partire da quella suprema e insuperata del nazionalsocialismo. Gli ulteriori due criteri fatti valere sono da un lato ovvi, dall’altro molto selettivi. Le critiche al capitalismo, compresi i suoi approdi liberal-democratici, erano un tem-po, lungo i decenni del Novecento, molto diffuse, ma pochi sapevano sottrarsi alle sirene degli opposti totalitarismi. D’altro canto, in epoca più recente, e a cose avvenute, si sono moltiplicati i critici dei totalitarismi di destra e di sinistra, nella generalità dei casi approdati a un liberalismo che non maschera l’adesione incondizionata al capitalismo e alle figure politiche che lo incarnano e rappresentano. Se agli elementi di critica e negazione già alquanto impegnativi per la richiesta di un’operatività estesa su tutti e tre i fronti individuati, si aggiunge il criterio in positivo dell’adesione a una qualche forma di comunismo, sia pure ideale, eretica e critica, il rischio di una dissoluzione preventiva dell’oggetto stesso della ricerca parrebbe molto forte. Prima di affidare al lavoro che presentiamo la risposta a tale decisiva obiezione, forniamo alcuni ulteriori spunti per chiarire le scelte effettuate e le modalità di applicazione dei criteri individuati, sia in negativo che in positivo. La tentazione della marginalità e del settarismo manicheo è risultata immediatamente evidente, con il rischio di fissare e riprodurre, fuori del loro tempo, antiche scomuniche. Il che è a un tempo insensato e grottesco. Si è quindi fatto il possibile per tener conto dei contesti storici, del mutare delle posizioni nel corso del tempo, valorizzando gli apporti che parevano più interessanti rispetto al progetto complessivo, anche quando provenivano da figure non riconducibili in alcun modo al comunismo, fosse pure eretico, ma che hanno fornito elementi imprescindibili alla sua conoscenza e critica, molto prima che entrasse nella fase di senescenza e dissoluzione. Il primo gruppo di personaggi a cui è stata rivolta attenzione è costituito dagli eretici del comunismo in senso proprio, vale a dire da coloro che avendo aderito alla rivoluzione del ’17 in polemica anche con i partiti socialisti e riformisti, vennero a trovarsi in una sorta di terra di nessuno, da cui riemergevano per breve tempo in occasione di eventi sociali che sembravano poter dare corpo alle loro idee (guerra di Spagna, lotte operaie, 1968). Assieme agli anarchici, e in particolare agli anarco-comunisti, essi compongono il mondo minoritario e più o meno effervescente delle opposizioni di sinistra al comunismo sovietico, avendo in Trockij, peraltro fervente bolscevico, l’esponente di maggior spicco, ma anche il più interno all’universo sovietico rivoluzionario e post rivoluzionario. L’accento è stato posto sui singoli piuttosto che sulle correnti e i raggruppamenti perché questi rivoluzionari anticapitalisti e antifascisti, oltre che avversari indomabili dello stalinismo, non riuscirono a dar vita, nonostante le loro aspirazioni, a partiti e movimenti di qualche consistenza. A parte ciò, quel che importa e riveste un valore non effimero concerne il loro specifico apporto teorico e analitico, talvolta il loro apporto creativo alla concezione del comunismo, segnalando uno dei tanti paradossi di questa storia, in cui i fautori più radicali dell’uguaglianza si distinguono per la loro irriducibile individualità, diversità, originalità, mentre i loro avversari praticano un culto idolatrico dei capi e propugnano la sottomissione conformistica delle masse. Come detto, pur valorizzando le minoranze, nel caso specifico accomunate dall’an-tistalinismo, non abbiamo assunto come criterio guida il minoritarismo e l’estremismo – secondo la scomunica pronunciata dall’ultraradicale Lenin appena giunto al potere –. Sono quindi presenti nel primo volume, e poi nei successivi, esponenti di primo piano del comunismo novecentesco, molto più vicini alle organizzazioni ufficiali che alle diaspore ereticali. Ci riferiamo in particolare a Gramsci e Lukács, anch’essi colpiti in tempi diversi da condanne più o meno esplicite, a cui quasi nessuno riusciva a scampare, ma difficilmente ascrivibili al mondo degli eretici visto il ruolo cruciale che ebbero nel forgiare rispettivamente la politica culturale, e non solo, del PCI e quella del campo sovietico. In questi casi, oltre alla loro complessa elaborazione, ciò che importa è l’apporto teorico alla conoscenza della società capitalistica, all’analisi del fascismo e anche del socialismo realizzato. Un secondo filone è rappresentato da esponenti politici e pensatori che, pur non essendo riconducibili al movimento comunista novecentesco, hanno fornito contributi di rilievo alla critica dell’ortodossia marxista e del comunismo sovietico (e sue varianti), e soprattutto del capitalismo nella sua multiforme fenomenologia, senza entrare nel cono d’ombra di «terze vie» riconducibili alla destra fascista, tradizionalista, reazionaria. Trattandosi di figure eterodosse e controverse, la loro valutazione e collocazione può risultare difficile, si pensi a un Bataille o, per altri versi, a un Silone; e però è proprio da queste posizioni di confine che possono venire gli stimoli più interessanti per cogliere le continuità e le differenze dal presente, per calarsi in un mondo ormai lontano, con cui tuttavia dobbiamo ancora fare i conti. L’esplorazione fatta ha consentito di stabilire innanzitutto la consistenza storica e intellettuale del filone individuato e delle sue molte diramazioni; la sua ricchezza e molteplicità, potremmo dire, cui si accompagna la viva fisionomia di ognuno dei protagonisti, avendo come contraltare e sfondo il grigiore e l’oblio che stanno inghiottendo gli esponenti e portavoce delle ortodossie che hanno dominato le scene novecentesche non lasciando alcuna eredità in positivo, bensì il peso di un comune fallimento. Per ragioni di spazio molte figure interessanti non hanno trovato posto e d’altro canto le scelte operate sono senz’altro opinabili, ma si tenga conto che, oltre ai fitti elenchi di nomi che abbiamo dovuto sacrificare, tagli più dolorosi sono derivati dall’impostazione dell’opera che, pur non avendo preoccupazioni di tipo disciplinare, ha dovuto assumere come asse portante quello del pensiero politico-filosofico, ovvero della critica della politica, trascurando altre dimensioni non meno importanti, quali l’arte e la letteratura, ovvero alcuni ambiti delle scienze umane, come la psicoanalisi, o delle scienze esatte, andando al cuore del Novecento e dei dilemmi che ci ha consegnato. A ciò si aggiunga che l’impostazione dell’opera non è di taglio enciclopedico ma interpretativo e saggistico, privilegiando l’approfondimento selettivo ma non specialistico a quello descrittivo, sacrificando preventivamente l’obiettivo della completezza. Non meno dirompente è la mancanza di un’adeguata trattazione dei movimenti col-lettivi che si sono manifestati nel corso del secolo, alimentando e smentendo le speranze e le aspettative dei comunisti eretici e della teoria critica. Per la verità non si tratta solo dello scarso spazio dato agli eventi e ai loro anonimi protagonisti, bensì dell’impossibilità di restituire dignità e voce alle donne e agli uomini che con i loro comportamenti hanno dato corpo agli ideali propugnati dal movimento dei lavoratori, pur tra enormi errori e fallimenti, tragedie e tradimenti. È nel mondo dei lavoratori manuali sia delle città che delle campagne, e di entrambi i sessi, che hanno preso vita e si sono affermate, per un breve lasso di tempo, quelle forme di democrazia autonoma, eguale e diretta, che hanno alimentato i sogni e le ideologie dei militanti di base, così nei soviet di Pietroburgo e delle campagne russe come nei consigli operai, comitati di base e gruppi omogenei delle fabbriche novecentesche. Uno spazio incolmabile ci separa da quel tempo, già di per sé fragile e minacciato da amici e nemici. Eppure l’idea è che non sia passato del tutto; esso infatti si riaffaccia ogni volta che le persone comuni escono dall’apatia e si interessano di quel che propriamente è collettivo e comune, in quanto è di ognuno. Ma ogni volta ripartono da zero e rifanno gli stessi errori, ridando spazio al vecchio mondo. Ciò avviene perché non esiste una memoria culturale dell’alterità, dell’Altro che si è manifestato nel passato, e anche nel Novecento, secolo tragico e irrisolto. Pensare a un Altro Novecento passando attraverso il comunismo, in ogni sua possibile accezione, è a un tempo necessario e insufficiente. Necessario perché un tale passato non può essere rimosso, non meno di quello colonialista, fascista e nazista, senza conoscerlo e farci i conti, evitando illusioni liquidatrici o restauratrici. Insufficiente perché il comunismo novecentesco, compreso quello eretico, è stato forgiato nella dimensione della guerra civile e di classe e nella guerra tra Stati: in esso, come nelle altre ideologie politiche novecentesche, l’ultima parola, quella decisiva, spetta alla violenza e alla guerra, al prevalere della logica della potenza, al suo sviluppo senza fine. Proprio per tale motivo il comunismo è il prodotto di un Novecento chiuso in se stesso, condannato alla ripetizione dell’identico. Per andare oltre il Novecento il comunismo eretico e il pensiero critico offrono degli appigli preziosi, sottraggono il monolite d’acciaio al destino di trasformarsi in una bara in cui seppellire esaltanti aspettative ed enormi tragedie. La nostra distanza da quel mondo è sempre più palese e la tentazione di tagliare ogni legame è per molti irresistibile, tanto più se ci si abitua a vivere o meglio a galleggiare in un presente senza spessore, ovvero a rincorrere affannosamente un futuro inafferrabile. Ma, appena si esca dal sonno ipnotico indotto artificialmente dai media, le vecchie ed eterne questioni tornano di attualità e i conti debbono essere fatti con il maggiore e più problematico tentativo di tradurre in politica, nella realtà sociale, i valori della modernità. Il comunismo ha concepito la politica come lo strumento per realizzare nell’espe-rienza, nella realtà storica, i valori supremi, assoluti, della giustizia e dell’uguaglianza, cancellando lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il fallimento catastrofico di questo progetto, sia per i mezzi utilizzati che per i risultati raggiunti, definisce la condizione di un’epoca in cui la paralisi dell’azione esprime una sorta di congedo dalla politica, o perché priva di autonomia e progettualità oppure perché pronta a riproporre altri e diversi valori assoluti cui sacrificare la libertà dei singoli, la loro capacità di autodeterminazione. La paralisi dell’azione politica, la mancanza di immaginazione e di prospettive o, detto in altri termini, il consolidarsi di un atteggiamento «astorico», in cui si esprime sia la perdita del valore fondativo del rapporto con il passato sia la rinuncia a pensare al futuro come storia da costruire da parte di tutti e di ognuno, questa sindrome del declino, cui fa da controcanto il moto automatico dell’innovazione tecnologica e della circolazione del denaro, ci restituisce una diversa e più fondata formulazione della riflessione tutt’altro che superficiale sulla «fine della storia» come effetto indotto dalla fine del comunismo. Si possono trovare riscontri empirici a tali considerazioni, basti pensare a come è stata affrontata la recente crisi economico-finanziaria: ogni sforzo e aspettativa sono stati indirizzati alla restaurazione dei meccanismi stessi che hanno prodotto la crisi; in alto e in basso la speranza era unicamente quella che si tornasse al più presto alla normalità, alla condizione naturale di funzionamento e di vita dell’economia e della società, sancendo l’intoccabilità di uno «stato di natura», che peraltro produce ogni sorta di oggettivi disastri e di personali insoddisfazioni. Qualsiasi ipotesi di cambiamento e di apertura sul futuro viene respinta, come se l’esistente coincidesse con il migliore dei mondi possibili; comunque la convinzione diffusa è che sia l’unico che ci sia dato, per cui non deve essere modificato: l’ideale non deve disturbare il reale. Nondimeno si vive in preda a paure crescenti, la cui amministrazione e somministrazione assorbe gli sforzi della politica e dei media. Il fatto che siano in gran parte paure immaginarie conferma e radicalizza la sindrome della paralisi, il venir meno della possibilità di esperienze fondative e innovative. Da più parti, con evidente soddisfazione, si è sottolineato che il crollo del comunismo realizzato non ha veramente inaugurato l’epoca della fine della storia. Peraltro non ha nemmeno aperto nuove prospettive, in grado anzitutto di sottrarre l’umanità al rischio dell’annientamento totale insito nella politica del terrore, imperniata sulla mu-tua e reciproca distruzione. Semmai assistiamo alla proliferazione nucleare, mascherata o meno dalla opzione per l’uso pacifico dell’energia atomica. Di sicuro non sono stati compiuti passi avanti significativi verso la costruzione di un assetto internazionale capace di rendere antiquata la guerra, semmai il contrario: essa viene perpetuata pur essendo manifestamente insensata e priva di efficacia. Né la consapevolezza dal basso, nella coscienza dei singoli, della comune umanità sembra in grado di progredire. Si armano e si moltiplicano gli Stati con pretese sovrane, essendosi sottratti alla presa delle due superpotenze; si moltiplicano le divisioni e i raggruppamenti tribali in seno a società in preda alla paura e alla ricerca di capri espiatori. Su questo sfondo la democrazia e i diritti umani, le armi ideali utilizzate nella lotta contro il comunismo sovietico, perdono di efficacia, subendo un esplicito processo di perversione e strumentalizzazione, come emerge nelle politiche poste in atto dagli USA, specie dopo il 1989 ad opera di Bush senior e successori. Il moltiplicarsi degli indicatori di regresso, sia registrando i dati strutturali nella distribuzione della povertà e della ricchezza su scala mondiale e all’interno dei singoli paesi, sia valutando il grado crescente di insoddisfazione in ogni ambiente sociale, sia considerando la mancanza di prospettive e di certezze per le generazioni più giovani, tutto ciò e molto altro sta inducendo una revisione nel giudizio sul comunismo novecentesco, se non una vera e propria riabilitazione, come avviene in Russia, in termini selettivi e nondimeno clamorosi. Da un lato vi sono pensatori che, prendendo atto della vittoria inconsistente del capitalismo liberistico e del moltiplicarsi dei fondamentalismi clericali, propugnano un ritorno immediato al comunismo, senza fare troppe distinzioni tra Lenin, Stalin, Mao e i loro oppositori e critici, anzi rifacendosi di preferenza al comunismo storicamente realizzato, al più sfrondato da degenerazioni locali, attribuite all’influsso di culture vernacolari. Dall’altro il comunismo viene riabilitato non tanto in sé, ma in quanto stimolo e co-strizione per una politica di progresso sociale nei paesi a capitalismo avanzato. In sintesi la tesi è che, con il venir meno del polo comunista, il capitalismo ha potuto dare libe-ro corso ai suoi «spiriti animali» distruggendo il Welfare State. L’argomento si articola poi in una specifica rivalutazione dello Stato sociale di tipo sovietico, come dimostrano le ampie correnti nostalgiche emerse anche nei paesi satelliti. In realtà è difficile stabilire l’incidenza del comunismo sulle politiche adottate in Occidente, per non dire dei riflessi sugli scenari extraeuropei. La costruzione di nessi meccanici è altamente opinabile, anche perché trascura fattori endogeni, quali l’azione di partiti e movimenti che si ponevano in concorrenza con il movimento comunista sul suo stesso terreno di rappresentanza e di espressione diretta delle classi lavoratrici. Sarebbe però davvero assurdo negare l’enorme risonanza della rivoluzione bolscevica nel mondo intero e la rilevanza delle dinamiche da essa innestate: un effetto mobilitante prolungatosi per decenni. La verità è che la vicenda del comunismo novecentesco, imperniata sull’esperimento russo-sovietico, è dominata da una colossale ed enigmatica eterogenesi dei fini, rispetto a cui l’analisi e il giudizio storico-teorico debbono ancora approfondirsi in più direzioni, ma di cui l’essenziale ci è noto da tempo. Non solo l’esperimento è fallito, ma esso ha trascinato con sé e nel nulla le vite e le speranze di milioni di uomini e donne, ha minato la possibilità che gli ideali a cui proclamava di ispirarsi possano mai trovare modo di tradursi nella realtà effettuale. La loro riconoscibilità, il loro valore e significato noi pensiamo che siano affidati innanzitutto alla debole testimonianza degli eretici e dei pensatori non conformisti, a cui è dedicata questa ricerca. È attraverso di essi che una frattura altrimenti incolmabile può essere riconosciuta e superata, riattivando una memoria culturale a cui attingere per affrontare vecchie e nuove sfide. Non pensiamo affatto che il presente lavoro sia esaustivo, anzi ne siamo certi e consapevoli, il che è di stimolo per ulteriori scoperte a cui i lettori possono essere indotti, sviluppando indicazioni appena accennate e individuando lacune manifeste. Se dalla scena novecentesca incentrata sull’Europa e gli USA, a un tempo proiezione e anticipazione del vecchio continente, ci spostiamo nel nuovo secolo e nel tempo presente, superata l’impressione di completa estraneità dei problemi di oggi rispetto a quelli affrontati e non risolti dal comunismo, nonché oggetto dei tentativi e delle riflessioni dei nostri comunisti eretici e pensatori critici, non è troppo difficile individuare gli elementi di continuità, le invarianti e le novità o discontinuità. Ne forniamo un’estrema sintesi perché è utile per collocare l’opera e i fulcri tematici attorno a cui si sta sviluppando il confronto e la riflessione nella prospettiva di un contributo conclusivo, incentrato sul mondo globalizzato e contraddittoriamente unificato dopo il crollo dell’89 e la fine dell’URSS. La prima questione è quella della democrazia, rispetto a cui le correnti intellettuali e politiche prese in esame non avevano una posizione univoca, considerato che accanto a fautori convinti di una democrazia radicale, sorgente dal basso e ancorata ai luoghi della produzione, non mancavano i teorici della dittatura del proletariato in quanto tappa obbligata per il passaggio a una forma politica superiore, socialista o immediatamente comunista, saltando la fase democratico-borghese. Di sicuro gli Stati socialisti si sono dimostrati incapaci di democratizzarsi, per cui o sono crollati senza dar vita a uno Stato democratico come nel caso dell’URSS, oppure sono riusciti a ibridarsi con il capitalismo, dando origine a una figura inedita e ancora poco indagata di sistema capitalistico-dittatoriale a guida comunista, come è avvenuto con la Cina. Al di là di questi due casi principali c’è tutta una serie di situazioni, ma il giudizio complessivo non cambia: il passaggio o ritorno alla democrazia si è dimostrato molto più prosaico e problematico di quanto non lasciasse presagire la «primavera dei popoli» osannata, per ovvi motivi, dai media occidentali. Nel grigiore postcomunista sono pressoché scomparse tutte le figure più significative del «dissenso», gli oppositori e critici più coerenti ed efficaci del sistema sovietico e sue varianti nell’epoca successiva a Stalin. Pur condividendo l’obiettivo polemico dei comunisti eretici, essi erano così lontani dal comunismo da non poter essere collegati, se non in pochi casi, agli oppositori di sinistra su cui abbiamo posto l’accento. Il crollo del comunismo sovietico ha formalmente moltiplicato il numero degli Sta- ti retti secondo le regole della democrazia, ma ciò avviene in un’epoca in cui lo stato di salute della democrazia nei paesi occidentali, e un po’ in tutto il mondo, è deludente se non pessimo, talché gli scaffali si stanno riempiendo di libri dedicati alla sua crisi, da molti considerata senza via d’uscita, con l’auspicio che se ne possa conservare almeno una qualche versione minimale, un simulacro, tenuto in vita per comodità dalle forze stesse che l’hanno svuotata e ridicolizzata. Quel che sta avvenendo, al di là di diagnosi più o meno pessimistiche, sembra confermare che non solo il comunismo, ma anche il capitalismo, senza più oppositori ufficiali, non costituisce un ambiente adatto per la vita della democrazia. Ed è proprio sul terreno della democrazia, all’interno della società piuttosto che nelle istituzioni, che si è rimessa in movimento una pluralità di soggetti interessati alla sua realizzazione, ai destini della cosa pubblica, della polis o almeno del territorio, con rischi evidenti di frammentazione, nonostante l’utilizzo sempre più massiccio della Rete. Crediamo che per queste esperienze il banco di prova decisivo sia rappresentato dalla capacità di attestarsi sul terreno dell’universalismo, con quel che ne consegue in termini di eguali diritti civili, politici, sociali per tutti, spezzando le dinamiche regressive, e ormai apertamente razziste, sviluppatesi negli ultimi venti anni. Su questo terreno i deboli movimenti emersi sullo sfondo della globalizzazione possono ricollegarsi direttamente alla tradizione principale della sinistra, ereditata e stravolta dal comunismo realizzato novecentesco. La situazione è alquanto diversa se dalla dimensione della politica e dei diritti si passa a quella dell’economia. Su questo terreno le istanze democratico-universalistiche hanno subìto colpi terribili per quanto concerne la condizione e la forza dei lavoratori, al punto che il polo lavoro è interamente subordinato al capitale e le lotte puramente difensive avvengono entro limiti sempre più ristretti, senza mascherare una sussunzione reale che si traduce sia in degrado del lavoro che in comportamenti e scelte politiche arretrate o apertamente reazionarie, quasi a sanzionare una subalternità insuperabile, accettata e difesa a scapito di chi sta ancora peggio, gli autentici proletari della nostra epoca. Nondimeno una ricomposizione del mondo del lavoro non è inimmaginabile. Anche nel passato a grandi sconfitte e smarrimenti sono seguiti cicli di ripresa del protagonismo operaio, che oggi, o meglio domani, potrebbe rinascere sotto forma di un proletariato transnazionale in cui confluiscano sia lavoratori manuali che cognitivi, sia uomini che donne. Con il che si intende sottolineare la forza di una tradizione e di un’eredità pratico-teorica duramente colpita dal crollo del comunismo sovietico e dal trionfo del capitalismo globalizzato e molecolare, ma tutt’altro che cancellata, anche perché il capitalismo, piuttosto che mantenere le sue promesse, conferma antiche diagnosi, troppo frettolosamente considerate antiquate. La vera debolezza della sinistra, la sua inadeguatezza pratica e teorica, anche quando riesce a liberarsi dall’eredità paralizzante e invalidante del comunismo sovietico (e varianti), consiste, a nostro avviso, nell’incapacità di fare i conti con la sua storia e di tematizzare gli esiti sempre più problematici dell’industrialismo, affrontando l’inaggirabile questione ecologica e quella, a essa intrecciata, della tecnologia. In entrambi i casi è da tempo all’ordine del giorno la necessità di operare una discontinuità, prendendo coscienza del fatto che lo sviluppo illimitato, la totale sottomissione della natura, l’artificializzazione integrale del mondo, la liberazione dalla materia e dai corpi, dal dolore e dalla morte non rappresentano la realizzazione del progetto emancipativo della modernità, ma la sua riduzione a puro immaginario, subalterno al dominio della Tecnica. Il lento emergere di un continente sommerso di esperienze, sensibilità, movimenti che si oppongono alla distruzione della Terra, rappresenta un segnale importante e inaspettato, provenendo principalmente da un mondo contadino da tempo considerato scomparso. Altrove, anche nel cuore dello sviluppo, si manifestano deboli ma ostinate resistenze. È poco, ma è tantissimo di fronte al nulla. La politica odierna oscilla tra l’adesione incondizionata e il rifiuto irriflesso senza uscire mai dall’occasionalismo, dalla ricerca spasmodica di un consenso che non le serve a nulla, perché non ha nulla da proporre oltre allo spettacolo che offre di se stessa. Per andare al di là è necessario operare la discontinuità che si diceva e riprendere le possibilità intraviste, sia pure per brevi momenti, dai comunisti eretici e pensatori critici del secolo passato e del tempo presente.