Se la storia non è stata vinta – su “Noi credevamo” di Mario Martone
democraziakmzero.org – 13 maggio 2011
di GIANFRANCO FERRARO
Pubblichiamo un testo di Gianfranco Ferraro su “Noi credevamo” – il film di Mario Martone – uscito sulla rivista “Il Ponte” nel mese di aprile 2011. Ferraro è un giovane studioso di filosofia politica, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa. (Mario Pezzella)
Passi stanchi ma fermi sono quelli con cui Domenico Lo Presti (Luigi Lo Cascio), protagonista di una delle due storie che Martone intreccia nella sua pellicola, risale la maestosa scalinata di un palazzo signorile. Abbiamo seguito fin qui Domenico dal paesaggio natio del Cilento fin dentro i salotti parigini dove la giovane nobildonna Cristina di Belgioioso (Francesca Inaudi e Anna Bonaiuto) accoglie patrioti e affiliati alle società segrete italiane, così come tra le mura del carcere borbonico di Montefusco: la sua sarebbe in fondo una delle tante vicende risorgimentali di repubblicano mazziniano e poi garibaldino che l’iconografia postunitaria avrebbe canonizzato dopo averla opportunamente scremata delle sconce verità moleste al nuovo regime. Del Risorgimento Martone riporta al contrario in primo piano, contro la forma dell’epopea con cui esso è stato consegnato a generazioni di italiani nel segno di De Amicis, innanzitutto delle storie, con quella casualità di eventi e di speranze che il discorso ufficiale dello Stato unitario ha prima cristallizzato e poi inchiodato nella forma di un mito originario in grado di garantire la legittimità di nuovi squilibri. E’ proprio questa retorica che Domenico, alla fine della lunga salita, avverte nell’oratoria altisonante del parlamentare Francesco Crispi (Luca Zingaretti), che appena intravediamo da uno spiraglio socchiuso sulla grande aula. Il vecchio patriota siciliano si rivolge però ad una platea di scranni vuoti: di fronte ad essi assicura la fedeltà al re dei “nuovi monarchici” come lui, attraverso un radicale capovolgimento con il quale, rinnegando il giovanile repubblicanesimo, costruisce il primo trasformismo dello Stato unitario. Nel guardarlo, e nel puntargli una pistola a distanza, Domenico ha da subito quello sguardo disgustato che il giovane giornalista de “L’Imperio” di De Roberto avrà solo dopo aver vissuto molti anni dietro le quinte di Montecitorio. Ma una generazione separa appunto il giovane personaggio di De Roberto, nato nel 1861, dal vecchio narratore calabrese del romanzo biografico di Anna Banti, nato nel 1813, e a cui Martone si ispira. Ma a quale pubblico Martone pretende di raccontare una storia in cui scarseggiano didascalie e nella quale ognuno parla la sua lingua e il suo dialetto? L’antiepopea di Noi credevamo (2010) si delinea attraverso coppie oppositive. La prima è quella che contrappone Domenico all’altro vero protagonista, Angelo (Valerio Binasco), anche lui aderente alla Giovine Italia per reazione ai soprusi che il regime borbonico compie sulla pelle dei contadini. Contadini che vediamo nuovamente spauriti di fronte alle case incendiate e ai massacri compiuti dalle truppe piemontesi non appena il nuovo re si sarà imposto sul vecchio. E proprio su questo fronte si introduce un’altra opposizione, quella di classe: la stessa “fratellanza” massonica della Giovine Italia, che nel nome del repubblicanesimo di Mazzini accoglie al suo interno anche il giovane contadino Salvatore, non è esente in realtà da un sistematico sospetto verso la fedeltà alla causa dei patrioti poveri. Sospetto che assume, persino nella comune condizione di prigionia, il volto di un liberale e fin troppo ambiguo spirito di “tutela” nei confronti delle classi subalterne: borghesi e aristocratici illuminati pretenderanno anche in carcere di avere essi soli accesso alla verità e alle complesse logiche della geopolitica. Così, l’ipotesi di un tradimento e la linea d’ombra della gelosia finiranno presto col dividere Angelo, piccolo possidente di provincia al pari di Domenico, dal giovane Salvatore, non appena una sera questi gli presenta il conto di verità sull’ingiustizia commessa dai padroni: da sempre infatti i signori rubano l’olio ai contadini e da sempre i contadini fanno finta di non accorgersene. Qualunque appello formale all’unità delle lotte non può che suonare quindi alle orecchie di questi ultimi come l’ennesima menzogna retorica formulata al solo scopo di legittimare e perpetuare il principio di diseguaglianza. Il giudizio ultimo sullo stesso “discorso” repubblicano di Mazzini (un debole Toni Servillo) risulterà di fatto come una netta condanna di una retorica avulsa dalla concreta realtà e in quanto tale incapace di vera influenza: l’attività insurrezionale della “setta” mazziniana appare – e l’ombra dello stesso rischio sembra allungarsi su qualunque pratica politica simile – costitutivamente votata al fallimento. La difficoltà di conciliare le diverse ragioni per cui “signori” e “popolo” si ritrovano per un momento dalla stessa parte appare evidente nella distanza che separa i tentativi insurrezionali dalla concreta dinamica del conflitto: la notizia della tragedia di Pisacane, fatto trucidare dagli stessi contadini, fa quasi da controcanto alla sequenza in cui Angelo pugnala Salvatore. Ed è esattamente a partire da questa incomunicabilità che il male dell’astrazione, portato in germe dalla setta, si coagulerà sempre più nella figura di Angelo: lo ritroveremo ai margini della folla londinese nel disperato tentativo di convincere un Francesco Crispi all’epoca emissario di Mazzini della necessità di far saltare in aria Napoleone III, e poi fattivamente impegnato, al seguito di Orsini, nell’esecuzione della strage in cui anche l’imperatore dovrebbe trovare la morte. Ma proprio l’esito ad un tempo ridicolo e tragico della scommessa definisce la vera eredità dell’originaria astrazione. Il terrorismo anarchico di Angelo, nella sua vocazione al nulla, risulta ormai come una semplice giustificazione ad una passione di morte. Dopo il crollo di una cornice condivisa in grado di offrire direzione e respiro a lotte anche differenti, e la conseguente dissoluzione di una sfera pubblica dell’azione, risulterà sempre in agguato il rischio di un’ossessione necrotica che invade per intero l’esistenza di chi ha combattuto: è ciò che Martone legge nel volto inespressivo e anaffettivo di Angelo adulto. La persistenza nella speranza è allora forse il vero discrimine che continua a distinguere le esistenze di Domenico e di Angelo. Alla solitudine della lotta di Angelo contro il tiranno, ormai estranea a qualunque impulso etico, risponde l’attivismo che conduce invece l’amico prima nelle prigioni borboniche e quindi, ad Unità compiuta, a riprendere il fucile per raggiungere Garibaldi in Aspromonte. Ma rientrato nel Paese che riteneva liberato, Domenico trova sulla sua strada campi invasi dai cadaveri dei briganti uccisi dalle nuove truppe di occupazione e dei militari orrendamente scempiati dalla rabbia popolare. Lo scontro con le truppe unitarie che respingono la nuova generazione di camicie rosse che avanzano verso Roma, ultimo vero guizzo della storia risorgimentale, è anche la misura della disfatta cui quella storia è andata incontro in seguito alla vittoria degli interessi sabaudi. Lo “spettro” di Garibaldi che appare da un’altura nel clamore generale pare agitarsi per l’ultima volta da un lato contro la storia del Risorgimento come storia oligarchica delle “congiure”, dall’altro contro la storia delle intercambiabili retoriche del dominio. Nulla è cambiato nelle condizioni di vita delle classi subalterne e nuovi padroni hanno preso il posto dei vecchi. Lo stesso mutismo in cui la madre di Domenico si è rinchiusa allude al fondo di angoscia senza espressione dato dal ripresentarsi improvviso e non richiesto di uno spettacolo della vanità nelle alterne vicende dell’oppressione. Ad una indagine sulla “rivoluzione tradita” Martone preferisce però la pratica di uno scavo nei confronti della particolare forma retorica assunta dal discorso pubblico dei nuovi vincitori: lo scavo fa affiorare lentamente un “orizzonte condiviso” nel quale una intera generazione si è ritrovata con l’obiettivo di sciogliere una specifica forma storica di oppressione. Ma attraverso questo gioco di occultamenti e persistenze, in che modo dunque i “vinti” possono continuare a testimoniare la loro verità nonostante la “Storia”? E hanno i sopravvissuti la possibilità di lanciare in qualche modo verso il futuro un’ipoteca contro la storia che li ha condannati? Contro il proprio stesso presente? Angelo, a differenza di Domenico, non ha più in mente un “Paese”, tantomeno un Paese diverso rispetto a quello della sua lingua. L’ideale romantico garibaldino, che ritrovava una “patria” a partire dalla lotta pubblica che si conduceva, in lui si è rotto: la sua sfida sembra vivere solo del risentimento di chi ha perduto la battaglia decisiva nella quale era in gioco la stessa possibilità di messa in forma fantasmatica dei propri furori. L’ultimo esito dell’azione politica di Angelo non è altro dunque che un combattimento all’ultimo sangue tra due tirannidi: una estetica della violenza che non aspira più a rovesciare rapporti di potere, quanto a produrre terrore. Sarà una violenza altrettanto cieca e sorda, quella dello Stato francese, a condurre Angelo sulla ghigliottina. Nell’ultima sequenza la stanchezza non permette al “sopravvissuto” Domenico di colpire il vecchio Crispi: egli rimane come disarmato di fronte al vuoto delle parole e davanti alla bieca ipocrisia del trasformismo di palazzo, espressione di quella logica del “potere per il potere” che innerva da subito le istituzioni del nuovo Stato unitario. Sigismondo di Castromediano (Andrea Renzi), vecchio compagno di carcere di Domenico, e così lo stesso Crispi, hanno assunto, una volta seduti sugli scranni parlamentari, la semplice funzione di maschere. L’aula è vuota, eppure, nel momento stesso in cui lo realizziamo, si levano gli applausi e i “Bravo!” dei sostenitori: nient’altro testimonia, questo vuoto, se non la definitiva sottomissione del fondamento pubblico della politica al dominio fantasmatico di una retorica che impone di per sé, a qualunque discorso, il segno della conservazione. Anonimi, risucchiati nell’oscurità, sembrano i possessori dei cappelli a cilindro accanto ai quali scorre la macchina da presa seguendo i movimenti di Domenico: gran finale di uno spettacolo di illusionisti che hanno finito con lo scomparire essi stessi. Nulla rimane, dietro la messinscena di uno spettacolo del privilegio, delle lotte reali e delle sofferenze che pure hanno animato le vicende risorgimentali. Per questo, rivolgendosi al suo antico compagno di prigionia, ora onorevole, Domenico non può che marcare una distanza rispetto a quella stagione, ma anche – come fa il vecchio protagonista del romanzo di Anna Banti, che nulla rivendica della sua storia se non la verità di quanto racconta – rispetto all’impossibile comunità che la lotta, ma soprattutto, le comuni sconfitte, avevano reso possibile: “…eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava” – dice Domenico, per poi proseguire: “la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo”. La stessa espressione da parte di Domenico della propria solitudine di fronte all’impossibile riscatto immediato mette a nudo l’opera retorica con cui una intera generazione – ed ogni generazione italiana dopo quella – ha ammantato la propria sconfitta storica sino a farne ulteriore strumento di dominio e di conservazione dell’esistente. Ma Domenico non smette di pensare al plurale la propria biografia. Ed è questo plurale che alla fine appare, anche con la triste tenerezza della nostalgia: “Noi, dolce parola. Noi credevamo…”. Due sono i Paesi che continuamente si confrontano nella storia risorgimentale e che permangono dopo l’Unità. Non si tratta di territori, né di lingue. Come reagisce – come ha reagito – al drammatico esito storico dell’unificazione, il Paese che non si è riconosciuto nella retorica del nuovo Stato, anticipatrice del fascismo e delle guerre mondiali? Eventi e biografie vengono assunte, da questa retorica, come maschere in fondo sempre ridicole, mentre è nel loro spazio che si continua a riproporre un dramma. “Non siamo noi stessi che una volta sola, nella vita, e per lo spazio di un attimo” scrive nelle sue memorie il vecchio Domenico della Banti. La verità che il vecchio patriota racconta a se stesso, superstite e testimone di una lotta interrotta – e che persiste nel suo sfiduciato “racconto” – è la verità che richiama a distanza, e da vicino, nel romanzo della Banti datato 1967, quella della generazione che ha vissuto la Resistenza: anche lì, un racconto della verità sembra potersi praticare solo a partire da esperienze singolari. Non è un’altra verità quella che Martone raccoglie e dichiara al suo pubblico, che a 150 anni di distanza vive la stessa retorica ufficiale del sacrificio mitologico in occasione dei funerali di Stato di soldati o di magistrati uccisi, così come nella gretta glorificazione delle piccole patrie. Dov’è il Paese di Domenico, quello che il patriota porta con sé sottovoce, insieme al disgusto per la resa monumentale, e l’ammutolimento forzoso, della propria “virtù civile”? Dov’è il Paese che iscrive nell’orizzonte collettivo immanente a qualunque “patria” una persistente pratica della sovversione della violenza retorica? Passando, quasi senza accorgersene, sotto i pilastri in cemento armato di un ecomostro della costa calabrese, Domenico non smette di pensare a Garibaldi, cui solo da innocuo deputato, o da cadavere, verrà riservato un trattamento da eroe. Non serve, a Domenico, scagliarsi contro Crispi, quanto rivendicare, contro tutti i Crispi, il luogo di un’altra pubblica verità: ripresentare quella che potremmo chiamare “storia di verità” contro ogni particolare discorso storico prodotto dalla retorica. Non è un caso che sia proprio questo, oggi, il problema ineludibile del cinema italiano: Martone dimostra come sia possibile far affiorare, nelle contraddizioni, delle “storie di verità” che mantengono efficacia nel presente, a patto però che le narrazioni tocchino il cuore delle antiche insorgenze e ne rivelino le linee tangenti con le “presenti e vive”. Riappropriarsi della storia del Risorgimento fuori dal vincolo della retorica significa oggi riaprire le occlusioni del processo risorgimentale ad una “storia di verità” del Paese che colga, a distanza, e oltre le schermature che hanno trasformato uno scacco storico nel territorio di sclerosi nazionalistiche, il silenzio sempre presente degli oppressi.