Fenomenologia di una rivolta. Note sul film “il profeta” di Jacques Audiard
(19 agosto 2011 – democraziakmzero.org)
di MARIO PEZZELLA
1. Incarcerato per un reato minore, il giovane Malik si trova dinanzi a un’alternativa etica radicale: o ucciderà Reyeb, un altro arabo, per ordine del capo della mala corsa César, o sarà lui ad essere ucciso. Nell’immanenza claustrofobica e tragica del carcere non c’è orizzonte aperto, né spazio per compromessi o mediazioni: il tentativo di Malik di denunciare i Corsi fallisce, perché le guardie sono colluse con César e obbediscono ai suoi ordini. Malik deciderà di uccidere e di sopravvivere. La sua scelta è in certo senso “brechtiana”, come ricorda la musica dell’Opera da tre soldi, che accompagna la sequenza conclusiva del film: in un mondo compiutamente criminale, occorre accettarne le regole, fino a tempi migliori. Per altro, l’omicidio commesso da Malik non è che il primo tempo di un processo lungo e articolato di sottomissione personale. Come il servo hegeliano nella “Fenomenologia dello Spirito”, Malik ha avuto paura di morire e deve perciò accettare la reificazione e la schiavitù radicale nei confronti di Cèsar. D’altra parte, proprio la paura ha sgretolato in lui ogni rigidità, ogni narcisismo, ogni morale: questo sradicamento è un estremo di debolezza ma è anche potenzialità di forza futura, perché Malik inizierà a muoversi con una disperata duttilità, muovendosi ubiquo tra i vari gruppi in conflitto, staccandosi progressivamente da ogni vincolo di fedeltà. Il film racconta il modo in cui, giunto ad essere meno che una cosa, il “servo” Malik riesce a invertire e rovesciare il rapporto col padrone, fino a umiliare a sua volta e a sostituire Cèsar. La situazione del carcere non deve essere presa in senso troppo realistico. “Il Profeta” non è un film inchiesta o di denuncia della condizione delle prigioni in Francia: segue piuttosto la struttura del genere carcerario, che ha una storia abbastanza lunga, soprattutto nel cinema americano, e culmina spesso in un tentativo di fuga o di riscatto. La prigione ha un ruolo simbolico, è lo stato di natura, del tutto immanente, privo di ogni possibile trascendimento, in cui ogni regola del diritto è sospesa e vige la legge del taglione e della violenza immediata. La forza e l’astuzia dominano incontrastate nella lotta a morte di tutti contro tutti: Homo homini lupus, in un contesto che non lascia spazio alla misericordia o alla compassione. L’umiliazione e l’asservimento anche fisico di Malik sono sottolineati dalle perquisizioni corporali che scandiscono la sua presenza in prigione, dalle aggressioni con cui gli viene tolta ogni voglia di resistere, dalla lametta che deve imparare a portare in bocca, per aggredire di sorpresa la sua vittima, trasformandosi in una sorta di bestia rabbiosa; egli è un puro strumento, come un coltello a serramanico nelle mani di Cèsar. Prima e dopo l’omicidio, alcune inquadrature ci mostrano Malik ridotto a nuda vita, corpo agitato da un tremito, senza il diritto di possedere un immaginario, un mondo simbolico, una volontà propria. Siamo al grado zero della reificazione. “Quando César gli parla, lui non deve guardarlo in faccia. Deve solo ascoltare, senza diritto alla reciprocità di sguardo”. La prima reazione di Malik alla radicale spoliazione di sé è puramente fantasmatica, è una compensazione delirante e immaginaria: l’arabo ucciso (Reyeb) diventa lo spirito-guida di Malik, e gli appare come un’allucinazione, a ricordo e integrazione della sua identità asservita. Ben visibile è il taglio sulla gola con cui Malik lo ha ucciso, da cui vediamo uscire in una inquadratura il fumo di una sigaretta; Reyeb è divenuto un démone, eppure è benevolo, gli indica una strada, che Malik comprenderà lentamente. Seguendo un consiglio dell’ucciso, quasi a riportare in vita e reincarnare un frammento della sua anima, frequenta i corsi della scuola del carcere, imparando a leggere e scrivere. E’ il primo segno di riscatto dalla condizione di schiavo e di cosa; Malik apprende un linguaggio, acquista un sapere simbolico, che accresce progressivamente la sua forza, gli conferisce una superiorità latente sui suoi oppressori. Nel linguaggio hegeliano, egli ha già in sé una potenza, che non tarderà a divenire per sé, passando dall’interiorità alla realizzazione. Malik apprende anche la lingua corsa, e così – quasi a ricordo di un celebre episodio delle Confessioni di Rousseau – mentre serve a tavola i suoi padroni egli può intenderne il gergo e le comunicazioni riservate: loro, invece, non possono capirlo quando lui parla arabo con i rivali dei Corsi all’interno della prigione.
2. Come ha affermato J. Rancière, quando i senza parte dominano il linguaggio dei padroni e riconoscono simbolicamente la propria condizione, sono già sulla strada di rovesciare i rapporti di forza e rivendicare la propria identità. D’altra parte, César stesso, dandogli ordini sempre più personali e complessi, eleva implicitamente Malik a una condizione di eguaglianza con sé e di insostituibilità. Il fantasma di Reyeb trova inoltre un alter ego umano e reale in Ryad, un arabo che diviene amico di Malik e lo sostiene nel ritrovamento di sé e della propria identità culturale. La situazione in cui si trova Malik ricorda quella del colonizzato rispetto al colono, descritta da F. Fanon. In molti film di genere degli ultimi anni, in particolare nel noir, il conflitto razziale è il motore dei conflitti e delle relazioni di potere e si innesta sulle vecchie tipologie della narrazione. L’arabo Malik di fronte al corso Cèsar, suo dominatore, è spossessato non solo della sua identità personale, ma anche di quella culturale. L’uccisione di Reyeb all’inizio è anche metafora della distruzione della sua appartenenza culturale. Il rovesciamento dei rapporti di forza tra Malik e Cèsar coincide con quello che avviene tra arabi e corsi all’interno della prigione. Punto di cesura del film è la sequenza in cui Cèsar, già vacillante nel suo potere, cerca di riaffermarlo, con disperazione, un’ultima volta, e ricorda a Malik quale annientamento egli abbia subito: “Quando ti vedono, vedono me”, gli grida con rabbia, rendendosi conto dei primi tentativi da parte del giovane di acquistare una propria autonoma sfera d’azione. Sembra che Malik debba subire ancora una volta questo ribadito asservimento: pure, proprio in questo momento di soggezione estrema, si consuma dentro di lui il distacco definitivo da César e la comprensione piena della sua condizione. Malik subisce, per l’ultima volta, la violenza fisica di César, che minaccia di accecarlo con un cucchiaio. Lo vediamo riverso sul letto della cella, distrutto dall’umiliazione subita. César furente gli ricorda che tutto, in lui, porta iscritto il suo nome e il suo dominio; Malik non è che un segno e uno strumento del suo potere: perfino i suoi pensieri e i suoi sogni gli appartengono. Così dice César. Sarà proprio un sogno a determinare il decisivo distacco interno di Malik dall’autorità del padre-padrone. Da un’inquadratura interamente nera, la macchina da presa scorre in un carrello velocissimo per i corridoi e le inferriate del carcere, fino a pervenire improvvisamente in una strada e in un paesaggio aperto; corrono velocemente animali (forse caprioli) e poi si intravvedono parti di corpo frammentato, pezzi di bocca, di volto, quasi a indicare come Malik stia vivendo una regressione, che lo decompone al di qua del livello dell’Io, verso uno stadio in cui il suo stesso corpo rischia di frantumarsi in parzialità insensate; da questo sogno, Malik riemerge alla visione di Reyeb, che ha le spalle brucianti di fiamme; è il suo doppio demonico, la sua identità possibile, che ancora non gli appartiene, ancora proietta all’esterno di sé, ma pure gli ricorda nel delirio la propria esistenza e gli indica, ancora una volta, la via della sopravvivenza, in questo caso di quella psichica. Nel seguito del film, il sogno anticipatore si tradurrà lentamente in realtà. Effettivamente Malik si troverà su una strada e la macchina su cui sta viaggiando investirà un animale. La sua preveggenza sull’incidente gli varrà il nome di “profeta”. L’arabo con cui dovrebbe trattare per conto di César, diviene invece il sostegno iniziale del suo riscatto e del suo ritorno alla propria identità personale e culturale (egli era un amico di Reyeb; confessandogli l’omicidio, Malik supera il trauma iniziale che ha segnato l’inizio della sua schiavitù e riceve una sorta di assoluzione simbolica). Il sogno anticipa la soluzione del conflitto e l’uscita reale da una situazione intollerabile. Mentre Malik mette in atto la sua rivolta, lo spirito-guida Reyeb diviene invisibile, rientra nel mondo dei fantasmi: l’identità che Malik proiettava in lui estraniata, ora gli appartiene dall’interno. Il fantasma immaginario ha cessato la sua funzione ed è stato riassorbito all’interno dell’anima. La rivolta reale permette la riappropriazione del sogno e dell’immagine onirica dell’identità.
3. César non è solo il padrone cattivo e tiranno; è anche, occasionalmente, il padre e il detentore della legge, e Malik diviene in certo senso il suo figlio prediletto, indistinguibile da lui. Questa dipendenza affettiva raddoppia quella immediata dei rapporti di forza; ma l’utimo e più radicale atto di violenza porta Malik alla conclusione di dover uccidere il suo padre simbolico e prenderne il posto. Come diceva Fanon, inevitabilmente, il primo desiderio del colonizzato non può essere altro che invidiare l’identità del padrone, e desiderare di acquisirla per sé. Non c’è spazio, almeno inizialmente, per una identità alternativa. La logica mimetica del risentimento spinge a desiderare l’essere dell’altro, che si è affermato come l’unico valido e concepibile. In certo senso, nel rovescio del suo desiderio immaginario, il colonizzato sogna di essere come il colono e la dipendenza simbolica può sopravvivere alla distruzione di quella reale. In questo senso, Malik non può neppure concepire un mondo, in cui la relazione servo-padrone sia sospesa o superata: al massimo, il servo può impadronirsi dell’identità del padrone e sostituirlo nel ruolo. Nella sequenza finale del film, Malik esce dal carcere, accolto dalla moglie e dalla figlia di Ryad. Una fila di auto, dove sono gli arabi che lo accettano ormai come un capo, lo segue con deferenza. Questo finale non è privo di una sua ambiguità tragica. La relazione di dominio di cui è stato vittima Malik non è scomparsa; se al suo interno sono cambiati i ruoli, non è però mutata la sua sostanza. Nella situazione di ferrea necessità descritta dal film, Malik diventa a sua volta il padrone, e possiamo supporre che non si comporterà in fondo molto diversamente da Cèsar, da cui ha appreso le arti del potere. L’ambiguità di questa liberazione è quella che colpisce ogni rivolta, in cui la struttura del dominio e il modo di mantenerlo restano immutati, o in cui –per riprendere ancora i temi di Fanon- il colonizzato inizia a comportarsi come prima faceva il suo padrone europeo. In una sequenza di poco precedente è César a subire l’aggressione fisica, nel cortile del carcere, per ordine di Malik; César, ormai solo, vede Malik prendere il suo posto di capo nel gruppo degli arabi e gli fa cenno di avvicinarsi, un gesto fisiognomico più espressivo di pietà che di comando; poiché Malik non si muove, è lui per la prima volta ad alzarsi e a incamminarsi verso di lui, rivelando nello spazio, nell’andatura, nella direzione del movimento, la sua debolezza e l’inversione dei rapporti di forza. Malik ordina a due dei suoi di colpirlo e non farlo avvicinare; la stessa aggressione fisica da lui subita all’ingresso nel carcere, è ora lui a infliggerla all’altro, in cui –tuttavia- non può fare a meno di rivedere se stesso; vediamo César umiliato, steso per terra, che poi si rialza e si allontana verso la sua panca di sconfitto. il volto di Malik, inquadrato in primo piano, non esprime gioia, ma una sofferenza che egli deve contenere. Il Sé divenuto padrone non può concedersi sentimenti di compassione o di perdono, deve sostenere e controllare in primo luogo le proprie emozioni e dissimularle. Il rovesciamento identitario si è compiuto, ma non è cambiata la logica di affermazione del potere, che ha solo mutato la sua provvisoria incarnazione: “In questo [Malik] è certo degno allievo di César. Costretto da lui a non esser nulla, da lui impara come si riduce a nulla un essere umano. D’ altra parte, finché César ha potere, Malik non potrà essere come lui. Meglio ancora, non potrà essere lui. E lui che dovrà annullare, dunque”. Il film narra di un riscatto solo parziale; nel suo universo non c’è lo spazio per un gesto di apertura e di liberazione, oltre la logica mimetica della violenza. Metafora, probabilmente, della frattura etnica e sociale che minaccia –secondo Audiard- la Francia contemporanea e non trova riscatto in nessuna forma di solidarietà di classe e in nessun universalismo etico. I “senza parte” rischiano di essere costretti a una rivolta inevitabile: è decisivo che essi trovino il linguaggio del proprio diritto, sfuggendo alla logica mimetica dell’asservimento.