Figura mobile – di Ruggero Savinio
[Pubblichiamo in anteprima un articolo di Ruggero Savinio che uscirà prossimamente nella rubrica di arti visive del n. 2 di “Altraparola”]
Ruggero Savinio
Una delle cose che il nostro tempo ha reso sempre più rare e difficili è la contemplazione calma delle opere d’arte. Anche le opere del passato, quelle raccolte nei musei, e che possiedono un accreditato infrangibile valore, anche queste opere, ormai, presuppongono una visione rapida, addirittura concitata, pressata dalla fretta e dal premere dei visitatori.
Ho parlato di calma contemplazione, ma devo correggermi. Credo, infatti, che un’opera, se è davvero un’opera d’arte, calma non sia. L’opera ha un’inquietudine che traspare anche attraverso la risoluzione più armonica delle forme, come un sottile fremito, talvolta impercettibile, che la scompiglia, la agita, e la inquieta.
Proviamo a farne la prova. Prendiamo un’opera che appartiene alla categoria di quelle più perfette. Se la guardiamo davvero, cioè con l’attenzione che un’opera richiede, con uno sguardo capace di riunire in sé altri sensi e sentimenti, uno sguardo uditivo – l’ascolto, tattile – la prova corporea delle superfici, e anche memoriale, vediamo che l’opera, apparentemente chiusa nella sua perfezione, lascia trasparire un’inquietudine e la sua forma sembra sul punto di scompigliarsi, di disfarsi e di affondare nel non ancora o non più formato.
Che cosa succede? Che abbiamo fatto l’esperienza della temporalità dell’opera. Ci accorgiamo, sentiamo che l’opera ha un suo tempo, o meglio, che è presa nel tempo, come anche noi lo siamo, e, fra l’altro, questo ci affratella con un sentimento patetico.
Che l’opera, anzi l’immagine, o quello che preferirei chiamare Figura, abbia una sua temporalità, sia presa nel tempo, non vuole alludere al fatto che ogni corpo fisico lo è, e che un’opera, pur votata a volte a una vita lunghissima, è, come noi, sottoposta all’azione del tempo. No, si vuole alludere piuttosto al fatto che la figura, oltre che portata dal tempo, lo porta, anzi l’incorpora. Potremmo dire addirittura che l’immagine è tempo, nell’accezione di Aristotele, immagine mobile dell’eternità, trovandoci, quindi, a rovesciare la credenza tradizionale che l’opera sia un’immagine eterna della mobilità.
La pittura futurista voleva rappresentare la temporalità, era uno dei suoi scopi. Ma i futuristi la temporalità la rappresentavano traducendola in spazialità – Boccioni: Forme uniche nella continuità dello spazio –, davano al tempo una forma plastica, e con ciò lo negavano mirando ancora una volta all’eternità dell’opera e alla sua immobilità. Il tempo dell’immagine non è un tempo rappresentato, ma un tempo vissuto, agito: è il tempo che l’immagine si trova a compiere per passare dall’oscurità alla presenza. E anche questa presenza è instabile, è la questione di un attimo nel quale l’immagine si mostra, emersa dall’oscurità, dal caos, dal continuum d’immagini possibili, ed è pronta a riaffondarvi.
La consapevolezza della temporalità dell’immagine artistica appartiene agli artisti. Gli artisti sanno e sentono che le loro immagini sono prese nel tempo, non solo il tempo storico, al quale loro stessi appartengono, ma un tempo più intimo, inappariscente. Questa consapevolezza comporta due scelte fondamentali: la lotta contro il tempo e l’assecondarne il corso. La lotta contro il tempo si manifesta nel cancellarne le tracce. Si vuole un’immagine perfetta, cioè mondata di ogni traccia del percorso compiuto dal caos alla presenza. Si ricerca la finitezza, che non lasci scorie e nella quale si riconosce la perfezione dell’immagine.
Il problema della finitezza ha sempre tormentato gli artisti. A volte si applicano a ricercare la finitezza con un lavoro assiduo, levigano e poliscono le forme inseguendo un sogno di perfezione che spesso appare mobile e irraggiungibile. Possiamo trovare gli esempi nei massimi campioni dell’arte di tutti i tempi, Leonardo o Michelangelo. L’insoddisfazione di Leonardo è addirittura leggendaria: essa traspare anche dall’incompletezza di certe sue opere, come L’adorazione dei Magi. Michelangelo passa dalla levigatezza delle opere giovanili al non finito della vecchiaia. Molto è stato detto del non finito. Il non finito è un problema che rimanda a quello della finitezza. Il non finito può essere una scelta espressiva, come appunto in Michelangelo, perché non dobbiamo pensare che i piani sommari e spezzati della Pietà Rondanini siano dovuti solo alle dita anchilosate del vecchio scultore o agli accidenti del marmo. Del resto, il non finito – e proprio il non finito michelangiolesco – ha orientato l’opera di altri scultori, come Rodin, che lo ha perseguito con un valore espressivo. Le opere di Rodin affidate al sommario, al non detto o soltanto accennato, sono contemporanee di quelle di altri artisti che tendevano, invece, alla massima completezza. Sono i cosiddetti pompiers, la zavorra di un secolo sperimentale e innovativo come l’Ottocento, che di tanto in tanto qualcuno ripropone all’apprezzamento del nostro tempo immobile e confuso. Un campione dei pittori pompiers, Auguste Meissonier, portava la meticolosità fino a riprodurre il riflesso del paesaggio nei lucidi bottoni delle uniformi napoleoniche. Si riproduce qui il dissidio, sommariamente indicato come quello tra forma chiusa e forma aperta, o tra disegno e colore.
Ma vediamo meglio, cioè vediamo più da vicino, con l’occhio attento alle opere, anzi accostato a esse per esplorarne la superficie, la grana, lo spessore. Da una parte, Delacroix, considerato il campione ottocentesco del colore, della forma aperta, della mano guidata dalla passione del cuore e dalla frenesia dei nervi. Dall’altra Ingres, campione di forme definite da un disegno rigoroso – Ingres: il disegno è la probità dell’arte –, votato a Raffaello e a ogni classicismo. Dunque, se guardiamo con attenzione, le rispettive posizioni si scompigliano e si spostano. Cominciamo dal colore: il colore di Ingres è stato accusato spesso, specialmente dai suoi contemporanei, di essere un non colore, una monocromia fredda e grigiastra. Ma basta accostare l’occhio a un quadro di Ingres, per esempio La grande odalisca del Louvre, per accorgersi che il colore è uno sciame di tocchi colorati, chiusi sì nella griglia rigorosa del contorno, ma pronti a avventarcisi contro e a espandersi come in una pittura impressionista. Oppure, il suo colore sale a un’intensità di potenza e di contrasti assolutamente lontani dal bon ton ottocentesco, vicina solo a certe arditezze colorate dell’arte islamica che, non a caso, sembrano guidare Ingres, come più tardi un grande colorista: Matisse.
Se adesso guardiamo a Delacroix vediamo che la libera andatura delle sue forme colorate (l’arabesco di Baudelaire) è chiusa in una griglia altrettanto rigorosa di quella del suo rivale. In entrambi l’espansione del colore e la chiusura della forma lottano e trovano nell’opera una tregua e un punto d’equilibrio instabile e precario.
È proprio la lotta, la mobilità delle forme attivate dal colore che avvicina i due pittori rivali e considerati in tutto diversi. E mentre li avvicina, li allontana entrambi dai campioni della finitezza in pittura e dalla precisione lenticolare di un Meissonier. Quale la differenza? Che il vero pittore sente il mormorio del tempo che s’incorpora alle forme, e, se uno lo asseconda freneticamente e al tempo stesso vuole chiuderlo dentro l’assolutezza del disegno e della composizione, l’altro lo vuole contrastare con la chiusura dei contorni, ma lascia che lo sciame colorato eroda questi contorni e dia all’immagine uno strano tremito, una instabilità e una vertigine.
Ecco, forse l’instabilità e la vertigine sono il fatto della pittura.
L’instabilità, la vertigine, la precarietà sono, forse, il fatto dell’opera d’arte in genere. Se guardiamo all’arte considerata il vertice della chiusura formale, la scultura greca classica, sempre che il nostro sguardo sia carico di tutti gli altri nostri sensi e riesca a penetrare dietro e dentro la superficie, o forse a restare proprio sulla superficie, come nel luogo proprio dove l’opera si manifesta, ci accorgiamo che la stasi di quei corpi è apparente, e che la loro presenza è instabile e precaria. Viene meno la considerazione neoclassica della scultura antica che, anche ignorando che quelle superfici erano rivestite da un incarnato dipinto, le metteva in una zona di algida perfezione.
Del resto sappiamo, come ricorda Carchia, che lo stesso Winckelmann usava per la statuaria greca una metafora marina, il mare che lascia intravedere la profondità sotto il pelo della sua mobile superficie.
Oppure Canova. Anni fa, suscitato forse da qualche Argan o altro studioso emerito, è stato argomentato che Canova è davvero moderno, non nei suoi marmi dalle lisce superfici, ma nello scabro e sommario modellato dei bozzetti in terracotta raccolti nello studio-museo di Passariano. Canova diventava un precursore di Rodin o di Medardo Rosso. Così ne appariva la modernità in un’epoca in cui teneva il campo l’informale. Più interessante sarebbe stato, invece di scindere Canova in due aspetti della sua opera, vedere in che modo il Canova neoclassico fosse diverso da altri rappresentanti del neoclassicismo, Tenerani, Bartolini o Thorvaldsen. Credo che, anche nelle più levigate superfici di Canova, prema una forza temporale che tende a scompigliarle, la forza che altri scultori, pur ligi alle stesse forme, soffocano sotto il peso del loro magistero.
Ecco, abbiamo descritto a contrario il premere della forza temporale che scompiglia le forme anche nelle opere più classiche e chiuse. Ci sono altre opere – tutta una tradizione – dove la forza del tempo prorompe e deflagra, e mentre porta le forme alla presenza, le vota alla distruzione e all’assenza. Tutta una tradizione: l’ultimo Tiziano, Rembrandt, Turner, Monet…