Scene di strada

Scene di strada

5 Agosto 2019 Off di Francesco Biagi

5 agosto 2019

di Luca Lenzini

 

 

«Negri di merda!» grida scendendo dalla Suv. Guarda verso il punto in cui ogni mattina un nigeriano con il berretto in mano augura buona giornata ai clienti del supermercato, raccattando un po’ di spiccioli e offrendosi di portare le borse della spesa agli anziani; ma è una domenica di gennaio in cui il supermercato è chiuso e di «negri» in giro non ce ne sono. L’invettiva è priva di bersaglio, ma non del tutto sprecata: nessuno dei passanti che stanno andando dal giornalaio o a messa dice nulla. Nessuna reazione. Una opinione come un’altra, e poi chi ha voglia di discutere, di domenica mattina, nella tranquilla città di provincia dove non succede mai niente? O forse, un certo timore inibisce la risposta: qualcosa, nel modo di fare del tizio, suggerisce che è un portavoce; che il suo non è un grido solitario, a veder bene, bensì collettivo. Sostenuto da un invisibile consenso, proprio per questo ha preso la parola, con un bel piglio aggressivo verso eventuali benpensanti o “buonisti”. Lo scopo è sollecitare una soluzione, che finalmente replichi all’invasione dei migranti, al loro sfacciato infiltrarsi e turbare la vita di ogni giorno. Non se ne può più, è il sottinteso del tono rabbioso; e non importa, se oggi il nigeriano non c’è, il messaggio è comunque chiaro ed efficace.

«Cosa mi dici di quella puttana tedesca?», e si siede nella poltrona del parrucchiere. Così, per fare quattro chiacchiere per il tempo di un taglio di capelli. Sono i giorni della “Sea Watch 3”, nave di una Ong che ha raccolto dei migranti dispersi in mare e la cui comandante il Ministro degli Interni italiano bolla come «viziata comunista», ma anche, più sinteticamente, «zecca». Sui social sono circolati tweet e post in sintonia con l’appellativo «puttana» usato dal Ministro: la giovane donna, in alcune foto, non porta il reggiseno sotto la t-shirt. Ma la domanda è già una dichiarazione: non c’è molto da dire. Cade un silenzio stracco. Sul pavimento i capelli formano piccole matasse instabili, volatili. Fra poco se ne andrà, è già tardi: viene una volta al mese, è un impiegato in pensione, con la liquidazione ha appena comprato la casa per i figli. Una brava persona, uno che le tasse – è solito ripetere – le ha pagate tutta la vita, che rispetta la legge.

Scene di strada s’intitolano gli intermezzi che Heinrich Mann inserì tra i saggi che compongono L’odio[1] (Der Hass), il libro che pubblicò nel 1933, l’anno dell’avvento del regime nazista e dell’inizio del suo esilio. Sono sketches in forma di dialogo, brevi “atti unici” o frammenti che evocano da vicino l’arte di Grosz, autore di celebri Strassenszenen fin dagli anni Venti. Tratti di peso dalle cronache del momento, non c’era bisogno di sovraccaricarne i toni: violenze esercitate su cittadini qualunque, pubbliche intimidazioni, processi su due piedi da parte delle SA (Sturmabteilung), esecuzioni di testimoni non obbedienti al regime, tutto ciò è registrato nella serie di flash di Mann, come una denuncia che di fronte alla protervia dei fatti si scontra con un diffuso, tacito acconsentimento, con l’indifferenza o la passività dei più. La brevità quasi brusca delle “scene” si alterna all’ampio argomentare dei saggi, animati da una forte tensione etica e saturi di sarcasmo verso i personaggi-chiave della dirigenza nazista; la commistione dei registri (ironico-narrativo-aforistico e retorico-saggistico) riflette la Storia in atto, ne scopre le menzogne e le contraddizioni senza rassegnarsi all’abiezione dell’umano. Ma il vero motivo unificante è appunto l’odio, «Der Hass», che circola in ogni pagina, fotografato dal basso e indagato nello sfondo storico-sociale: l’odio come incarnazione-strumento dello Spirito del Tempo – “rivoluzione”, riscatto e resa dei conti.

Di recente è diventato pressoché un luogo comune il rinvio ai tempi di Weimar e al collasso della democrazia in Germania come parallelo storico per l’attuale situazione sociopolitica italiana ed europea[2] (si vedano Ungheria e Polonia, ma anche Francia e Inghilterra), persino americana (Trump e i suoi profeti) e russa (Putin): crisi della democrazia rappresentativa, dissoluzione dei partiti tradizionali, populismo, sovranismo, culto del leader, crisi delle istituzioni, crisi economica: non mancano certo gli ingredienti per chi intenda trovare spunti per ribadire il parallelismo. E se è vero che la violenza diretta ed esplicita allora esercitata dai nazisti su ebrei, comunisti e dissenzienti non trova plausibili riscontri ai nostri giorni, non per questo la violenza è assente dallo scenario di questi anni, non solo nelle strade. Hanno voglia i seguaci di CasaPound di sbandierare croci uncinate e ritratti dell’imbianchino: le loro imitazioni, maldestramente esibite nella modalità Déja Vu, manifestamente non sono all’altezza dei propri modelli. Ma c’è, eccome, per esempio, una violenza di straordinaria forza esemplare nel rifiuto di accogliere nei porti le navi con i migranti scampati al naufragio. Nel reiterato diniego affidato ai media dal Ministro-Vice-Premier-Segretario Leghista si fa leggere senza sforzo il gesto del direttore che detta tempi e tono alla sua orchestra, da lungo tempo allenata: all’odio, per l’appunto. Non a caso la figura dell’hater ha tanto spazio nel discorso pubblico: anch’esso è l’esito di un lavoro protratto nel tempo ed un fenomeno collettivo. La lezione di cinismo e l’ostentato disprezzo dell’umano esposti urbi et orbi sono ogni volta un test della coscienza morale della nazione, che ogni volta arretra e si corrompe, e presuppongono una base consolidata, una vasta complicità che non si costruisce alla svelta per una tornata elettorale.

Era il 2007 quando in uno dei consueti “Rapporti sulla situazione sociale del Paese” Giuseppe De Rita, il Presidente del Censis, usò il termine «mucillagine» per definire la società italiana, ridotta a «poltiglia» ovvero uno stato di atomizzazione confusa e senza ideali connettivi, disintegrata e senza più speranza di progresso. «Il vaffanculo scritto dappertutto, la violenza, la volgarità, lo sballo, questa dimensione sempre più disadorna della cultura collettiva, la scuola dileggiata dai ragazzi che filmano gli insegnanti con il cellulare o provocano incendi»: questo il paesaggio allora evocato da De Rita come premessa del «peggio». Era il 41° Rapporto; nel 52° invece – siamo nel 2018 – il Direttore del Censis (Massimiliano Valerii) annotava: «l’atteso cambiamento miracoloso promesso dalla politica non c’è stato, oltre la metà degli italiani afferma che non è vero che le cose siano cambiate sul serio. E adesso è scattata la caccia al capro espiatorio: dopo il rancore, è la cattiveria che diventa la leva cinica di un presunto riscatto». Un decennio non è passato invano, con il morso della crisi economica ad acuire il «risentimento» (questa la nuova parola-chiave[3]); ma ciò non bastava perché la poltiglia si compattasse: ci voleva un bel po’ di paura, l’altro ingrediente storicamente essenziale per instaurare nuovi regimi. E in fatto di paura i media la sanno lunga e da sempre, da sempre e senza sosta amplificano e rimuovono, rimuovono e amplificano in diretta, sicché agli addetti ai lavori che distinguono tra percezione e realtà dei fatti in tema di criminalità o di invasioni nessuno presta attenzione più di tanto, dovendo il cittadino prima di tutto difendersi: non solo dalla miseria, ma dai delinquenti, dai migranti, dai banchieri, dai terroristi, dai rom, dagli insegnanti, dai vaccini, e chi più ne ha più ne metta.

Del resto, la categoria del Risentimento non è sembrata restare invischiata, essa stessa, in ambigui giochi semiotici interni al Potere, come voce di un vocabolario manipolato per l’ennesima fregatura all’ordine del giorno? Senza tante perifrasi, in effetti, si dette per inteso che tale sentimento da sfigati altro non fosse che la frustrazione dei losers, i quali avevano creduto alle promesse del Liberismo proprio mentre la Globalizzazione toglieva loro il terreno sotto i piedi. Una forma d’invidia sociale tutta interna alla logica del Mercato: niente a che vedere con il «Ressentiment» di Nietszche. Più attendibile si dimostrava la diagnosi dell’industrioso ed eclettico Sloterdijk, che in Ira e tempo[4] definiva i fascismi (prototipico quello nostrale) come «banche popolari [Volksbanken] dell’ira», ed aggiungeva: «La banca popolare nazionale della raccolta d’ira gode del vantaggio psico-politico di poter lavorare direttamente con i moti del thymós patriottico, senza dover percorrere le vie traverse delle idee universalistiche o di altre finzioni che gli sottraggono forza[5].» Il concetto di thymós, prelevato da Platone (e Omero) e già in Fukuyama[6] applicato alla politica ed alla storia novecentesca, sta per “stato affettivo”, “emozionale”: un luogo mentale e corporale dove individuale e collettivo coagulano senza residui, generando quello “stato d’animo fascista” la cui genesi ha di recente analizzato Mario Pezzella[7] a partire da Mario il Mago, dell’altro e più noto Mann, Thomas. Lì si gioca la partita: uno “stato d’animo” collettore dell’«inconscio sociale», vettore di un epos infernale di cui nelle Strassenszenen si ha per così dire il precipitato o “cronotopo” (direbbe Bachtin) narrativo e figurativo, ovvero il malmostoso, infetto e invasivo correlativo pubblico e collettivo. La caccia al “capro espiatorio” ne è lo sbocco naturale ed è in onda full time.

L’ultimo capitolo di L’odio s’intitola L’intelligenza degradata e qui Heinrich Mann si rivolgeva direttamente agli intellettuali, perché non si sottraessero al compito di contrastare il nuovo regime di sopraffazione e di violenza. Codardi e conformisti, invece, assistono al rogo dei libri, al dispiegarsi del «terrore», in silenzio. Di qui il richiamo della splendida citazione da Tacito posta in epigrafe al capitolo:

 

Legimus, cum Aruleno Rustico Paetus Thrasea, Herennio Senecioni Priscus Helvidius laudati essent, capitale fuisse, neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saevitum, delegato triumviris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur. Scilicet illo igne vocem populi Romani et libertatem senatus et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus atque omni bona arte in exilium acta, ne quid usquam honestum occurreret. Dedimus profecto grande patientiae documentum; et sicut vetus aetas vidit quid ultimum in libertate esset, ita nos quid in servitute, adempto per inquisitiones etiam loquendi audiendique commercio. Memoriam quoque ipsam cum voce perdidissemus, si tam in nostra potestate esset oblivisci quam tacere.

[Vita di Agricola, II, 4]

[Abbiamo letto che Aruleno Rustico e Erennio Senecione, per aver lodato l’uno Trasea Peto e l’altro Elvidio Prisco, hanno subito la condanna alla pena capitale. Né si infierì solo sugli autori, ma perfino contro i loro libri: i triumviri ebbero infatti l’ordine di bruciare nel comizio e nel foro gli scritti esemplari di quei chiarissimi ingegni. Evidentemente con quel fuoco si pensava di cancellare la voce del popolo romano, la libertà del senato, la coscienza del genere umano, dopo aver cacciato in esilio i maestri di sapienza e bandito ogni forma onorevole di cultura, perché in nessun luogo si presentasse più davanti agli occhi qualche traccia di dignità morale. Abbiamo dato davvero grande prova di tolleranza e, come tempi ormai passati hanno espresso nelle forme più piene cos’è la libertà, così noi cos’è la servitù, dato che per mezzo dei delatori ci è stata tolta la possibilità di parlare e di ascoltare. La memoria stessa avremmo perso con la voce, se fosse in nostro potere dimenticare come tacere.]

 

Voce e memoria, silenzio e oblio. È di noi («Dedimus profecto grande patientiae documentum.») che parla la favola della strada. Quanto a lui, Heinrich Mann, alla fine di L’odio scrive: «mantengo la mia personale schiettezza e veglio su alcune scintille di verità che comunque non è soltanto tedesca poiché è patrimonio dell’umanità.[8]»

 

Note:

 

[1] Heinrich Mann, L’odio. Riflessioni e scene di vita nazista, a cura di Maria Teresa Mandalari, Milano, Il saggiatore, 1995.

[2] Vedi l’intelligente saggio di Siegmund Ginzberg, Sindrome 1933, Milano, Feltrinelli, 2019.

[3] Vedi Luigi Zoia, Benvenuti nell’età del risentimento, «L’Espresso», 7 ottobre 2018, pp. 76-77.

[4] Peter Sloterdijk, Ira e tempo. Saggio politico-psicologico, Milano, Meltemi, 2006 (n. ed. Marsilio, 2019). Si veda la recensione di Silvia Rodeschini, Governare la paura: https://governarelapaura.unibo.it/article/download/2489/1860

[5] Ivi, p. 181.

[6] Fukuyama, osserva Sloterdijk, «illustra come il thumos è collegato alla Storia, facendo l’esempio dell’anti-comunismo in Unione Sovietica, nell’Europa orientale e in Cina, dicendo: “Non possiamo comprendere la totalità dei fenomeni rivoluzionari se non ci rendiamo conto di come funzionano il furore timotico e la domanda di riconoscimento che accompagna la crisi economica del comunismo”»(Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, New York, 2006. Trad. it. La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, 2003).

[7] Mario Pezzella,  Il fascismo come «stato d’animo»: Mario e il mago di Thomas Mann, «Altraparola»:

https://www.altraparolarivista.it/2019/06/29/il-fascismo-come-stato-danimo-mario-e-il-mago-di-thomas-mann/

[8] H. Mann, L’odio… cit., p. 74.