Quelli che ancora – di Stefania Consigliere

Quelli che ancora – di Stefania Consigliere

25 Febbraio 2020 Off di Francesco Biagi

[La redazione di Altraparola anticipa la pubblicazione dell’articolo di Stefania Consigliere che è in uscita per il n. 3/2020 della rivista dedicato al tema dell’inconscio sociale] 

 

Spinaci. Sono la scopa dello stomaco. Non dimenticare mai la famosa frase di Prudhomme: «Non mi piacciono, e ne sono contento, perché se mi piacessero li mangerei, e non li posso proprio sopportare». (Alcuni troveranno tutto ciò perfettamente logico e non rideranno).

Flaubert, Dictionnaire des idées reçues

 

1. Fascism reloaded. Il signore senegalese che staziona all’ingresso del supermercato mi saluta con un gran sorriso. Oggi però sono di umore tetro e per giunta non ho monete. Intrappolata fra la solidarietà spicciola che posso stabilire con lui e il fastidio di avvertirla come un obbligo da boy scout, quando gli passo davanti mi scuso in modo brusco, occhi a terra, tiro dritto. Eccolo, lo sento, il demone si agita dentro di me: se do spazio al fastidio, rotolo nell’imbuto emotivo fascista. È facile, basta abbandonarsi alla gravità. Per non scivolare devo fare uno sforzo di testa, di mani, di gambe. Un altro.

Non ho dubbi sul fatto che gli anni in cui viviamo siano fascisti: che siano, cioè, anni di adesione viscerale a un sistema di dominio totalizzante e suprematista, in grado di determinare la materialità della vita e di colonizzare l’immaginario e che usa come propellente un mix di risentimento, arroganza e prevaricazione. Ai fenomeni descritti da Pezzella[1] se ne possono aggiungere altri, in base alla propria geografia di pelle scorticata: il fatto che si possa scambiare l’estensione della coppia normata per una lotta di liberazione; l’attribuzione delle colpe del patriarcato agli uomini, come se non fossimo tutti soggetti a una violenza che ci plasma nei ruoli prescritti; il cinismo con cui facciamo il conto dei morti (in mare, nei lager libici, sotto le bombe); la sterilizzazione di cinema e letteratura; l’abbandono dei più giovani a se stessi, e cioè alle ubbie del mercato; l’egemonia incontrastata della governance neoliberista, guerra di tutti contro tutti in una prigione di regole al contempo mutevole, coattivo e incomprensibile; l’accettazione diffusa di uno spettacolo del potere sempre più muscolare e pornografico. Tutti fenomeni che, in senso molto letterale, mi angosciano e che impongono di scegliere, giorno per giorno e quasi ora per ora, la propria parte.

Nonostante ciò, una riflessione antifascista che si accontenti di guardare fuori – ai fascisti sensu strictu, per così dire – mi sembra insufficiente e perfino, a tratti, consolatoria. Da un lato, la ritrovata comunanza antifascista di quel che resta di sinistra e pensiero critico è, per definizione, succube dell’avversario a partire dal quale si definisce e ci impantana in una politica talmente di retrovia da non osare neppure dire il suo nome. Dall’altro, ho l’impressione che prendersela con i fascisti anziché con la propensione fascista dell’intera modernità significhi mirare troppo in basso (nonché agire, una volta di più, il meccanismo del capro espiatorio: bollare qualcuno come radicalmente “altro” rispetto a un progetto intrinsecamente buono e procedere all’epurazione). Chi apra davvero i conti con il fascismo è costretto ad aprirli con la modernità intera e con la parte di sé che con essa collude.

 

2. Fra trionfo e spleen. C’è una relazione fra la Stimmung di un particolare momento storico, quella dell’epoca e quella di un’età intera, un’aria di famiglia: ci sono inflessioni e sensazioni che attraversano i secoli e accomunano intere generazioni esposte in modo uniforme alle medesime esperienze di base. Raymond Williams le ha chiamate strutture di sentimento: l’effetto sui singoli della storia collettiva, l’imprinting sulle coscienze di modi di sentire che solo apparentemente sono intimi e privati, ma che derivano di fatto dalla strutturazione generale di un mondo[2].

Fascismo e nazismo (e, per completare la triade totalitaria, stalinismo) sono apparsi in un momento storico preciso e devono quindi essere analizzati nel paesaggio politico, sociologico e psicologico a loro proprio. Quel paesaggio, però, è in continuità con quello che lo precede e con ciò che lo segue; non è un’inspiegabile parentesi di barbarie entro la marcia trionfale della Civiltà, ma l’esito estremo della modernità[3].

Questa può essere definita, in modo sbrigativo, come il mondo umano formatosi in Europa fra Cinquecento e Seicento, all’intersezione fra colonialismo, capitalismo e scienza, e che si è espanso sottoponendo umani, terre e relazioni al rullo compressore dell’esproprio e della messa a valore; e squalificando in modo sistematico e inappellabile ogni forma di molteplicità. Nel cercare di comprendere l’inconscio sociale nuovamente fascista della nostra epoca, così come quello dell’epoca propriamente fascista, essi andranno proiettati sullo sfondo di questo panorama emotivo fondamentale e di lunghissima durata.

Un insieme affascinante e spaventevole di strutture di sentimento attraversa la modernità, prodotto da una batteria di dispositivi ai quali, progressivamente, tutti i moderni sono stati sottoposti: mercato, lavoro salariato, scuola, medicina scientifica, tribunali, esercito, fabbrica, coppia, doping. Semplificando, potremmo definire due grandi categorie. Nella misura in cui siamo coerenti con la modernità trionfante e con il suo mito centrale, quello del progresso, allora siamo tenuti a essere egoisti; dipendenti dal mercato e quanto più indipendenti possibile da ogni altra relazione; dediti alla massimizzazione del nostro utile; in legami solo esteriori e utilitaristici con gli altri umani; competitivi; altamente prestazionali; e assolutamente certi che, per quanto riguarda le faccende fondamentali, la ragione è tutta e solo dalla nostra parte[4]. Nella misura in cui, invece, qualcosa in noi resiste al trionfo moderno, esso si manifesta come spleen, malinconia, nostalgia senza oggetto; come il muto sospetto di chi, sotto i canti di vittoria, sente i lamenti dei fantasmi e lo scricchiolare di ossa spezzate; e può imboccare la via della più trista reazione così come quella dell’utopia rivoluzionaria.

Frenesia del trionfo e umori saturnini vanno osservati insieme, perché unica è la loro origine. Come hanno chiarito Löwy e Sayre in un testo magistrale, il romanticismo non appare dopo l’illuminismo, ma nello stesso momento, come rivolta e resistenza[5]. Si può risalire ancora più indietro: all’epoca delle enclosures gli inglesi cadono in massa in uno stato d’animo lugubre che chiamano melancholia e che definiscono come lutto interminabile per qualcosa che non è più come prima. Non sanno esattamente di cosa si tratti (glielo spiegherà Marx un paio di secoli dopo), ma ne avvertono l’assenza: il mondo si è svuotato. Di lì in avanti, ogni intelligenza e sensibilità, ogni presa sulla propria epoca dovranno passare per la tristezza, ogni presagio di liberazione per quella che Benjamin chiamava “organizzazione del pessimismo”.

Di questo secondo tipo di strutture di sentimento non parleremo più, perché è chiaro che chiunque s’impegni in un’analisi dell’inconscio sociale non può che esserne attraversato e toccato fin nel profondo. Più rilevante, qui, è il primo dei due insiemi, meno pensato perché meno analizzato in noi stessi.

 

3. Deciso in anticipo. La modernità ha un carattere singolarmente duplice: sul piano utopico si presenta come la sola via possibile di liberazione e sviluppo nel momento stesso in cui, sul piano fattuale, produce devastazione; ed è talmente efficace nella sua schizofrenia da riuscire a persuaderci che la devastazione che va producendo coincide con la liberazione che cerchiamo.

Da un certo punto di vista, niente di nuovo: l’elaborazione di ideologie grandiose per occultare la violenza e naturalizzare le gerarchie è, da sempre, il trucco fondamentale con cui i sistemi di dominio si garantiscono legittimità e stabilità. La modernità, tuttavia, migliora la presa con un mito capace di trasformare in modo istantaneo i perdenti in nuovi vincenti, le vittime della sua espansione in zelanti collaboratori. Il nocciolo di questo trionfo è già stato identificato: «Poiché l’Illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo»[6].

Deciso in anticipo significa che possiamo non avere ancora messo a punto la formula del tutto, il farmaco perfetto o la più giusta organizzazione del mondo, ma non c’è dubbio che a trovarli saremo noi. Tutti gli altri sbagliano per definizione, dacché solo noi moderni abbiamo capito davvero come funziona il mondo. Per questo, per quanto possano resistere e mostrarsi attaccati ai loro spiriti, ai loro antenati e alle loro vecchie superstizioni, alla fine gli altri dovranno arrendersi all’evidenza e diventare come noi.

Ne segue, come Horkheimer e Adorno non esitano a concludere, che la modernità ha una vocazione totalitaria. Fin dalle sue origini essa opera infatti una feroce reductio ad unum dei regimi ontologici (esiste un solo essere: quello di ciò che chiamiamo “natura”), epistemologici (esiste una sola verità: quella relativa alla natura e descritta dalla scienza), etici (esiste un solo bene: quello dal progresso che si basa sulle verità di natura).

La tendenza alla totalizzazione comincia dunque ben prima dei totalitarismi. Figlio legittimo della modernità, il fascismo non fa che portare a termine l’impresa unificante con il primo tentativo consapevole di totalizzazione dei regimi immaginari, esperimento estremo in cui «è in gioco la natura umana in quanto tale[7]». Mai davvero superata perché relegata nell’impensabile del Male Assoluto, l’impresa totalitaria non è affatto rovinata insieme ai regimi che l’hanno sperimentata; semmai, è stata portata a un nuovo grado di realizzazione con la trasformazione antropologica indotta dal sistema dei consumi e dello spettacolo[8].

Nella presunzione totalizzante del deciso in anticipo, tuttavia, è rimasta impigliata anche larga parte del pensiero critico e rivoluzionario. Se questa proposizione suona troppo drastica, si provi a cercare dentro di sé buone ragioni per opporsi alla scolarizzazione dei bambini ugandesi; alla costruzione di ospedali nella foresta amazzonica; o alla realizzazione di infrastrutture stradali in cima alle Ande. La paralisi mentale che ci coglie, l’assenza di rispetto che mostriamo per le forme di vita altrui, non indicano affatto (come ci piace credere) che il nostro sistema è fra tutti il migliore. Indicano solo che continuiamo a essere posseduti dalla fantasia stregata del progresso.

 

4. Rimozioni. La modernità non si pensa come una tribù fra le altre, ma come il definitivo superamento delle limitazioni etniche, e proprio la (presunta) universalità dei suoi valori ci fa credere che progresso, verità, giustizia e libertà siano tutti, e solo, dalla nostra parte. Questo senso di superiorità è talmente radicato nel nostro impianto pulsionale da non poter essere mai davvero messo in discussione. Non perché non ve ne sarebbe causa, ma per via delle difese psicologiche che subito s’innalzano a fronte della possibilità che, dopo tutto, il nostro mondo non sia superiore a tutti gli altri. Neanche la profonda infelicità dei nostri anni e le tracce ormai ben visibili del disastro ambientale riescono a liberarci dalla cattura[9].

Viviamo di rimozioni talmente profonde da rasentare la schizofrenia. Per cominciare, ricucito il disvelamento marxiano, abbiamo nuovamente dimenticato la quantità di violenza che fu necessaria per imporre il capitalismo all’interno dei nostri confini e conformare la popolazione alle sue esigenze (le torme di miserabili in giro per l’Inghilterra, i roghi delle streghe, la plasmazione dei corpi maschili in macchine da produzione e di quelli femminili in macchine da riproduzione, la diffusione di un raffinato sistema di doping a basso costo[10] ecc.).

Poi rimuoviamo in continuazione il sospetto angosciante che il progresso, lungi dall’essere la soluzione dei problemi, sia il problema. In termini più formali: per poter funzionare, lo sviluppo basato sul plusvalore richiede la creazione di un differenziale, di uno slivellamento che metta in tensione due poli. La miseria della classe operaia era (ed è) necessaria all’accumulo di ricchezza della classe borghese; l’“arretratezza” del meridione italiano è stata funzionale all’industrializzazione del settentrione; la miseria del terzo mondo era (ed è) necessaria alla ricchezza del primo. Gli slums di Manchester, le favelas brasiliane, le operaie uccise in Messico e il traffico dei migranti nel mercato della prostituzione non sono residui di un’epoca barbarica che lo sviluppo permetterà infine di superare, ma il necessario contraltare dello sviluppo stesso. L’idea che il progresso risolverà disparità e ingiustizie è la più crudele delle illusioni: il progresso è ciò che le crea secondo una dinamica vampiresca che ha continuamente bisogno di nuove terre, nuovi umani e nuove forme di vita da mettere a valore[11].

Eliminata ogni differenza interna con il gigantesco divenire-middle class degli ultimi trent’anni e patologizzata ogni dissidenza, la Stimmung moderna si manifesta oggi con particolare chiarezza nelle “relazioni estere”, nel modo in cui reagiamo agli altri mondi umani ancora presenti sul pianeta. Nel rapporto con i loro rappresentanti soffriamo di una particolare forma di rimozione. Da un lato, ciò che non è conforme al nostro mondo e al nostro modo di essere umani continua a essere squalificato senza mezze misure come etnicismo, arretratezza, credenza. Dall’altro, tutto ciò che offusca o incrina la gloriosa autonarrazione del progresso viene ignorato o giustificato come danno collaterale. Poco importano i numeri, il sangue, la violenza, il dolore, la distruzione: il bene superiore dello sviluppo ancora giustifica tutto.

È una strategia vecchia e blasonata. Di fatto, è la prima scissione che abbiamo dovuto produrre in noi per poter perpetrare, senza impazzire, quattro secoli di orrore coloniale, di devastazione delle comunità, di asservimento del non-umano (piante, animali, terre, cieli), di assoggettamento dei non-conformi (matti, visionari, donne, renitenti al salario o alla leva, devianti), di oblio di tutto ciò che non rientra nelle forme previste di esperienza (sogni, intuizioni, aperture mistiche, innamoramento, ekstasis). It’s a wild world, baby: per essere moderni bisogna essere disincantati, affrontare da uomini dure verità e compiti ingrati. L’universo ci ignora, compassione e sensibilità sono roba da femmine, la solidarietà sarebbe bella ma non è realistica, la natura va domata, la biologia è destino, ciò che non rientra nella razionalità calcolante è insensato[12]. Per sopravvivere e prosperare bisogna smettere di sentire.

Largamente impiegata lungo tutta la modernità, questa strategia di desensibilizzazione è arrivata al suo limite più avanzato con gli orrori nazisti. Quando la disumanizzazione, il terrore e lo sterminio tipici dei regimi coloniali fanno capolino sul suolo europeo, si fa difficile dismetterli: subentra allora il trauma (“com’è stato possibile arrivare a tanto?”), seguito da una nuova rimozione (l’interpretazione del nazismo come parentesi di barbarie). Pochi furono in grado, negli anni immediatamente seguenti, di tracciare la genealogia dei campi legandoli all’impresa coloniale.

Le cose non vanno meglio ai giorni nostri. Una banale riflessione sui numeri è sufficiente: la più parte di noi ha un’idea di massima del numero di morti prodotti dai campi di sterminio nazisti, una cifra che si aggira intorno ai 6 milioni; pochissimi invece, per non dire quasi nessuno, hanno un’idea, neanche di massima, del numero di vittime prodotte dal colonialismo. Ora, a seconda dei computi, i morti dell’impresa coloniale sono compresi fra i 200 e i 350 milioni: la stessa unità di grandezza dei campi, prolungata per quattro secoli. E la cosa più straordinaria è che, anche quando veniamo a conoscenza della cifra, le morti computabili come “danni collaterali” del progresso ci sembrano comunque meno atroci.

Un’enorme rimozione è in opera, che rende ignote le cifre e fa sparire nel cappello del prestigiatore l’orrore della tratta atlantica, delle piantagioni, dei regimi di sterminio a media intensità del Congo e dell’Amazzonia; e ci tiene lontani dagli eccellenti resoconti, di cui pure disponiamo, sulle devastazioni portate dallo sviluppo[13]. Se, come diceva Aimé Cesaire, il nazismo è il colonialismo dell’uomo bianco sull’uomo bianco, la continuità fra i due fenomeni continua a sfuggirci. E non basta ritirare le mani dalle terre altrui (cosa che, per inciso, non abbiamo mai fatto, se non sulla carta) per strapparsi di dosso le sedimentazioni, gli automatismi e le strutture di sentimento che cinque secoli di egemonia coloniale hanno impresso su di noi e che continuano ad alimentare la piega totalitaria[14].

 

5. Sintomatologia. Nella misura in cui restiamo aderenti al mito del progresso, restiamo collusi con la modernità, intrappolati nell’illusione che la rivoluzione coincida con il rovesciamento dell’egemonia economica borghese anziché con il superamento del regime antropologico moderno e capitalista.

Conviene dunque allenarci a riconoscere in noi i segni della cattura. C’è una sintomatologia avverbiale tipica che dovrebbe mettere subito in allerta. Il suo segno più chiaro è dato dal ricorrere, nei ragionamenti sull’umano, dell’avverbio ancora: «popoli che ancora credono agli spiriti», «che non hanno ancora l’elettricità», «che ancora praticano la magia», «che sono ancora tradizionali». E via dicendo. Nella sua banalità, l’avverbio segnala la permanenza della struttura di sentimento che continua a farci credere superiori a qualsiasi altra forma umana e quindi in diritto di imporre la nostra norma come unica, vera e giusta. Può manifestarsi secondo una spettrometria che va dall’aperto disprezzo, tipico del razzismo fascista, al bonario paternalismo diffuso a sinistra, i cui buoni auspici tradiscono a ogni passo l’intento uniformante.

Non si tratta tanto di scovare quest’inflessione nei discorsi altrui, quanto di imparare a sentirla in azione nei discorsi nostri, nei nostri tic mentali, nella piega del nostro sguardo. È sorprendente, e spesso disperante, scoprire quanto spesso fa capolino. Impossibile liberarsene con un semplice atto di volontà: serve un allenamento continuo, una sorta di yoga della vita-non-colonialista (propedeutica alla vita-non-fascista).

Le palestre per questo yoga esistenziale non mancano ma, com’è anche per l’esercizio fisico, praticarlo regolarmente richiede molta forza di volontà. C’è l’antropologia e in particolare quella più recente, gli autori raccolti sotto l’etichetta posticcia di ontological turn; c’è la possibilità di avvicinarsi con delicatezza e curiosità ai mondi altrui; ci sono la riflessione etnopsichiatrica e quelle sviluppate nell’antropologia medica; a ben vedere, ci sono anche gli esiti delle scienze hard, che da diversi decenni invitano a dismettere ogni ipotesi monista sulla materia e sull’universo. Se tutto questo ancora non basta, presto o tardi saranno i danni dell’antropocene e il crollo della presenza fra i nostri concittadini a costringerci a cambiare rapidamente prospettiva[15].

 

6. Guida dei perplessi. Le obiezioni – grossomodo sempre le stesse – non escono dalla presunta assolutezza dei nostri valori. Quelle in negativo chiamano in causa ciò che, degli altri, non ci piace: l’infibulazione, la lapidazione delle mogli infedeli, le caste indiane, il cannibalismo, i sacrifici umani rituali. Tutte cose che ci stanno antipatiche e che, così supponiamo, dovrebbero stare antipatiche a tutti[16]. Ma, anche, tutti fenomeni che hanno una storia: una storia interna, etnografica, in quanto pratiche specifiche di taluni gruppi umani; e una storia esterna che intreccia gli eventi storici con i fantasmi del nostro rapporto con l’alterità.

Una messe di testi eccellenti mostra come l’interpretazione moderna delle pratiche altrui sia quasi sempre funzionale all’estensione della nostra egemonia e come queste stesse pratiche abbiano una storia legata, nella maggior parte dei casi, proprio all’espandersi del regime coloniale. Non c’è modo qui di approfondire questa pista, ma vale la pena riportare almeno qualche dato storico-antropologico. Negli anni Settanta le donne anziane di diverse regioni dell’Africa ancora ricordavano di quando, a inizio Novecento, le modificazioni genitali si sono diffuse, in risposta al dominio coloniale, come metodo per segnare l’appartenenza dei corpi a gruppi intenzionati a restare uniti anche sotto la violenza del dominio europeo[17]. Fra i Temne della Sierra Leone la pratica che noi chiamiamo “stregoneria” prende forma lungo il Seicento in diretta connessione con la tratta atlantica come modo per selezionare coloro che verranno mandati schiavi[18]. Più in generale, contro le aspettative della storiografia classica, la stregoneria non sembra affatto destinata a svanire davanti ai lumi della modernità; al contrario, pare diffondersi in parallelo alla modernità stessa, come pista di adattamento ai nuovi valori che essa impone, tanto nell’Europa moderna quanto delle terre colonizzate[19]. Il cosiddetto “cannibalismo” amazzonico è risultato essere, all’analisi antropologica, una lunga procedura per onorare il nemico ucciso e incorporarne la forza vitale, talmente poco vampiresca che il vincitore è tenuto, fra l’altro, a prendersi cura delle mogli e dei figli del nemico vinto[20]. Perfino la rigidità delle caste indiane, lungi dall’essere una tradizione immemore, è interpretata dalla recente ricerca storico-antropologica come complemento dell’ordine sociale coloniale britannico[21].

Poi ci sono le obiezioni in positivo, che chiamano in causa l’oggettività del nostro progresso: l’aumento della vita media, la diminuzione della mortalità infantile, i vantaggi della scolarizzazione. Anche in questo caso, diamo per scontato che quello che piace a noi debba piacere a tutti, dimenticando ogni nozione in arrivo dall’antropologia, dalla storia delle religioni, dalla comparativistica. Vediamo un paio di controesempi. L’aumento della vita media è parametro fondamentale per chi, come noi, presuppone che il tempo sia lineare, che la morte annienti gli individui e che la nuda vita sia, di per sé, un bene; ma è di interesse assai minore per chi presuppone la circolarità del tempo; per chi, come i buddhisti, ipotizza la metempsicosi; e per chi trova che il valore massimo non sia il semplice essere in vita, ma una forma di vita qualificata (ad esempio dall’onore, da un ruolo sociale riconoscibile, dal rapporto con il numinoso ecc.). Allo stesso modo, riteniamo che la scolarizzazione sia indispensabile per tutti, sotto ogni cielo e in qualsiasi condizione, perché solo la conoscenza rende liberi. Lasciando perdere la sfumatura gnostica, il presupposto alla base di quest’idea è che la sola conoscenza degna del nome sia quella che viene trasmessa con la scolarizzazione – ossia la nostra. Dimentichiamo così che, se a noi per produrre un medico servono circa una trentina d’anni, per produrre un guaritore amazzonico ne servono circa quaranta, fatti di permanenza in selva, relazione prolungata con le piante maestro, iniziazione formale da parte di un terapeuta anziano, conoscenza raffinata della nosologia e dell’eziologia locali. La scolarizzazione che produce un medico è incompatibile con questo processo altro di apprendimento; se continuiamo a imporla, è perché in fondo continuiamo a pensare che un medico occidentale sia una forma umana più alta e desiderabile di un guaritore amazzonico.

Per quanto possa sembrarci incredibile, e finanche inaccettabile, non tutti la pensano come noi o fanno come noi e non c’è motivo di supporre che la ragione (o dio, o la storia) sia dalla nostra parte. O facciamo i conti con questo fatto, oppure onestà vuole che torniamo senza remore a dichiararci colonialisti e a esaltare la violenza del processo storico che fa alcuni schiavi e altri padroni. E cioè, a fare outing e dichiararci fascisti.

 

7. La rivoluzione e il molteplice. Resta da esplorare il terreno più scivoloso: la possibilità di liberazione, per noi, per altri. Accettare la molteplicità dei mondi non significa lasciare che tutti vadano al diavolo come meglio credono, ma “solo” dismettere la presunzione di superiorità che c’infesta. Non siamo messi bene. Il magistero femminista degli anni Settanta e Ottanta, ad esempio, sembra oggi polverizzato, padroni e padrone del primo mondo (la cui ricchezza viene dalle vene aperte di donne e uomini dei mondi altri) si ostinano a decidere l’agenda politica degli sfruttati sulle base delle loro ossessioni e dei loro fantasmi[22]. Dapprima abbiamo imposto agli altri il nostro dio unico, il battesimo, i vestiti che coprono le pudenda, la salvezza dell’anima; poi il nostro progresso, le strade, le industrie, l’inquinamento, i vaccini; il nostro modo di essere umani, fatto di scolarizzazione, salario, monogamia; la nostra democrazia e tutto ciò che essa richiede: le rappresentanze, l’individuo, i diritti. Vorremmo infine anche imporre a tutti la rivoluzione al singolare, ovvero la nostra liberazione dai nostri ceppi?

Se una rivoluzione è ancora pensabile e desiderabile, è quella che la farà finita con il dio unico, geloso ed espansivo della modernità; con la presunzione di averlo sempre al nostro fianco a garantire il nostro mondo, la nostra ragione e la bontà del nostro progetto. Quella, in breve, che taglierà i garretti alla tentazione totalitaria che ha attraversato tutta la modernità e, con essa, anche una parte cospicua del pensiero rivoluzionario, creando un’inquietante simmetria fra contendenti[23].

Una rivoluzione siffatta ci costringerà allo spavento, quello che tutti provano di fronte alla finitudine del proprio mondo, la vertigine che prende quando il reale si rivela molto più complesso, difficile e pericoloso di quel che credevamo[24]. Ci costringerà, in breve, a fare i conti con la possibilità della fine del mondo – che è sempre, per chi la vive, la fine del mondo tout court e che, vista da fuori, è invece la fine di un mondo, di un modo di fare umanità e di portare in essere un’ontologia. Questa catastrofe che tanto ci spaventa, e che abbiamo battezzato antropocene, è la stessa che abbiamo imposto per quattro secoli agli altri. Alcuni, in qualche modo, hanno resistito: hanno organizzato il pessimismo e non sono diventati come noi. È forse da loro, e non dall’ennesima versione del sogno tecnocratico, che dovremmo imparare le virtù che servono nel presente.

L’abbandono del monismo totalitario e il passaggio al molteplice è la prima rivoluzione richiesta a noi, figli della modernità e ancora egemoni sul pianeta, per uscire dalla paralisi esistenziale e immaginativa nella quale versiamo e cessare la violenza del progresso. Questo comporta anche, per i figli della tradizione rivoluzionaria, ripensare il disincanto e il ruolo chiave che esso ha giocato nella modernità, dacché la totalizzazione dell’esistente ha come prerequisito la sparizione dal mondo di qualsiasi forma di intenzionalità non umana: alberi, fiumi, animali e monti devono smettere di parlare; le ninfe devono fuggire dai boschi, lari e penati abbandonare gli abitati; sogni, sincronicità e modi altri della coscienza devono spogliarsi di ogni significato.

Alcuni, che hanno attraversato mondi altri, stanno cominciando a parlare pubblicamente, e in veste di accademici, di enti, modi della soggettività, insiemi di relazioni che, da noi, sono stati squalificati a superstizioni nello stesso periodo in cui le enclosures cominciavano a distruggere le comunità rurali.

Gli ambientalisti affermano che l’aumento dell’estrazione distrugge la natura; gli investitori affermano che sviluppa le regioni arretrate. Noi sosteniamo che quanto viene oggi distrutto sono anche persone alter-umane, perché ciò che le pratiche degli estrattivisti e degli ambientalisti costruiscono come “natura” potrebbe anche essere altro. Questa è una delle cose che abbiamo imparato (noi due curatori) da una montagna delle Ande peruviane, che è anche una persona, e dagli animali della foresta paraguaiana, che sono anche gli spiriti-proprietari del loro mondo. E abbiamo anche imparato che la loro distruzione – a differenza, forse, della distruzione della natura – è difficile da comprendere da parte degli analisti. Allo stesso modo, rendere pubblici questi tipi di alter-umani è difficile per coloro che ci convivono; tradurre la loro distruzione in una questione politica è spesso impossibile e perfino svantaggioso. Dopo tutto, l’opinione egemone afferma che la natura è, pubblicamente, solo natura; pensarla diversamente, pensare che le montagne o gli animali sono alter-umani, è solo una credenza culturale.[25]

Non è una scelta semplice e si rischia a ogni passo la squalificazione ma, per chi voglia fare il passaggio, non mancano intercessori[26].

«Non credo alle persone alter-umane, e ne sono contento: perché se ci credessi le rispetterei, e questo non lo posso proprio sopportare.» (Alcuni troveranno tutto ciò perfettamente logico e non rideranno).

 

Note:

 

[1] M. Pezzella (2019), Il fascismo come “stato d’animo”: Mario e il mago di Thomas Mann, https://www.altraparolarivista.it/2019/06/29/il-fascismo-come-stato-danimo-mario-e-il-mago-di-thomas-mann/

[2] R. Williams, Marxism and Literature, Oxford University Press, Oxford 1977; A. Gordon, Ghostly matters. Haunting and the sociological imagination, University of Minnesota Press, Minneapolis & London 1997.

[3] Z. Bauman (1989), Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 1992.

[4] P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2010; M. Singleton, L’uomo che (non) verrà, Forum, Udine 2012.

[5] M. Löwy, R. Sayre, Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-courant de la modernité, Payot, Paris 1992

[6] M. Horkheimer, T.W. Adorno (1944), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 32.

[7] H. Arendt (1966), Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, p. 628.

[8] G. Debord (1967-1988), La società dello spettacolo. Commentari sulla società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997; P.P. Pasolini, (1976), Lettere luterane. Il progresso come falso progresso.               Einaudi, Torino 2003.

[9] P. Pignarre, I. Stengers (2004), Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, IPOC, Milano; «Lundi matin» 58 (30/11/2015), Digressions sur l’ennemi, le complot, l’argent et le peuple (https://lundi.am/Digressions-sur-l-ennemi-le-complot-l-argent-et-le-peuple).

[10] S.W. Mintz (1985), Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, Einaudi, Torino 1990; M. Rahnema, J. Robert (2008), La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano 2010.

[11] M. Sahlins (1972), L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980. Sulla dialettica di miseria e ricchezza, I. Illich (2005), I fiumi a nord del futuro, Quodlibet, Macerata 2009; M. Rahnema, J. Robert (2008), La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano 2010. Sulla struttura vampiresca del plusvalore e sulla dinamica savage/salvage che giustifica l’espansione, Z. Bauman, Capitalismo parassitario, Laterza, Roma-Bari 2009 e A.L. Tsing, Friction. An ethnography of global connection, Princeton University Press, Princeton 2005.

[12] M. Sahlins, The Sadness of Sweetness: The Native Anthropology of Western Cosmology, «Current Anthropology» 37 (3), 1996, pp. 395-428.

[13] Oltre al classico K. Polanyi (1944), La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, v. anche M. Taussig (1980), Il diavolo e il feticismo della merce. Antropologia dell’alienazione nel «patto col diavolo», DeriveApprodi, Roma 2017; Tsing, Friction, op. cit.

[14] F. Fanon (1952), Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea Editore, Milano 1996 e id., (1961), I dannati della terra. Einaudi, Torino 2000.

[15] D. Danowski, E. Viveiros De Castro (2014), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Roma 2017; B.-C. Han (2014), Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Roma 2016; Z. Steel et al., The global prevalence of common mental disorders: a systematic review and meta-analysis 1980–2013, in «Int. J. Epidemiol.» (2014); Yosuke T., Kodoku-shi, la morte solitaria, «DoppioZero» https://www.doppiozero.com/materiali/kodoku-shi-la-morte-solitaria (2019).

[16] Intendiamoci: tutte cose che stanno enormemente antipatiche anche a me, ma non più della nuova tratta coloniale, del fracking, delle maquilladoras messicane, della necropolitica o, per restare sull’ipertrofica questione femminile, della pornografia e dell’utero in affitto.

[17] T. Esho, S. Van Wolputte, P. Enlin, The socio-cultural-symbolic nexus in the perpetuation of female genital cutting: a critical review of existing discourses. «Afrika focus» 24 (2), pp. 53-70 (2011); W.N. Njambi, Dualisms and female bodies in representations of African female circumcision: A feminist critique, «Feminist theory» 5 (3), pp. 281-303 (2004).

[18] R. Shaw, The production of witchcraft/witchcraft as production: Memory, modernity, and the slave trade in Sierra Leone, «American Ethnologist» 24 (4), 1997.

[19] Per l’Europa, L. Parinetto, Streghe e potere. Il capitale e la persecuzione dei diversi, Rusconi, Milano 1998. Per le terre coloniali, nella ricca letteratura sviluppatasi alla fine del secolo scorso, almeno J. Comaroff & J. Comaroff, Modernity and its malcontents. Ritual and power in postcolonial Africa, The University of Chicago Press, Chicago 1993 e P. Geschiere (1995), The modernity of witchcraft. Politics and the occult in postcolonial Africa, University Press of Virginia, Charlottesville-London 1997.

[20] P. Descola, Les lances du crepuscule. Relations Jivaros, Haute-Amazonie, Plon, Paris 1993.

[21] N.B. Dirks, Castes of Mind, in «Representations», 37 (1992), Special Issue: Imperial Fantasies and Postcolonial Histories, pp. 56-78.

[22] F. Ruggiero, MGF Modificazioni Genitali Femminili. Una questione post-coloniale: il nostro sguardo sulla nostra “alterità”, Colibrì, Paderno Dugnano (MI) 2013.

[23] Per una magnifica panoramica su pensatori, posizioni e movimenti che non si sono lasciati catturare in questo stallo, v. la serie di volumi intitolata L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, curata da Pier Paolo Poggio e uscita fra il 2010 e il 2018 per i tipi di Jacabook.

[24] E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977.

[25] M. De La Cadena & M. Blaser, A world of many worlds, Duke University Press, Durham & London 2018, p. 2.

[26] Oltre ai testi già citati, v. anche I. Stengers, Au temps des catastrophes. Résister à la barbarie qui vient, Les Empêcheurs de penser en rond/La Découverte, Paris 2009; D.J. Haraway, Staying with the trouble: making kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham 2016; E.A. Povinelli, Geontologies. A requiem to late liberalism, Duke University Press, Durham & London 2016; A. Tsing, H. Swanson, E. Gan, N. Bubandt (a cura di), Arts of living on a damaged planet. Ghosts of the anthropocene, The University of Minnesota Press, Minneapolis 2017; A. Cunsolo, K. Landman (a cura di), Mourning nature. Hope at the heart of ecological loss and grief, McGill-Queen’s University Press, Montreal & Kingston 2017.