La nuova scienza della terra – di Pierluigi Sullo
Pierluigi Sullo
Un mio amico, docente esperto di questioni ambientali, sta prendendo accordi con l’università di Wuhan, città ormai celebre, per una indagine multidisciplinare sull’inquinamento urbano che confronti il caso della città cinese con quello di Milano. L’ipotesi è che lì si potrebbe trovare una spiegazione del divampare del contagio in Cina e in Italia, a Wuhan appunto, metropoli industriale, e a Milano, grande città immersa letteralmente in una regione fitta di industria, di traffici di ogni genere, di gente. Il mio amico mi ha chiesto di dare una impressione, su questa idea. Non sono uno scienziato, beninteso, solo un giornalista che da decenni si agita intorno a questioni ambientali, da Chernobyl, per dire, all’ingresso nel mondo di quel che ora si chiama “antropocene”. E poi, forse, un punto di vista esterno all’accademia, può risultare utile, mi ha detto.
Così, gli ho subito fatto notare che in quei giorni il Corriere della Sera citava un rapporto del WWF in cui si spiegava come l’antropizzazione estrema, la distruzione della biodiversità, sia la causa, insieme all’inquinamento e alla crisi climatica e così via, della trasformazione di virus aggrappati agli animali in virus che attaccano l’uomo. Tutto giusto. Però questo modo di affrontare la cosa non è, secondo me, soddisfacente. Per due motivi.
Il primo è che una tale lettura ostinatamente continua a mettere l'”uomo” da una parte e la “natura”, animali e piante, da un’altra, e sebbene capisca che questa barriera sia in un certo senso la radice fondamentale della civiltà umana (per lo meno di quella giudaico-cristiana, che mette l’uomo al vertice del creato), data la situazione fuori controllo si dovrebbe per lo meno ipotizzare un altro modo di guardare alle cose, quello per cui l’umanità è parte integrante, lo desideri o no, del mondo naturale, diciamo una variabile, come il virus attuale è una variante di altri virus. L’intervento dell’umanità sulla natura è cioè devastante e ha cambiato una serie di parametri naturali fondamentali, perciò si parla di “antropocene”, ma questa attività umana provoca reazioni e si ritorce contro se stessa in modi imprevedibili. Che la scienza occidentale della natura non sa prevedere né spiegare.
La seconda ragione per cui l’approccio usuale alla questione naturale non funziona più, con tutta evidenza, è che, nonostante tutto, la cultura umana non riesce a fare il passo in più che, secondo la mia sensazione, sarebbe urgente, ovvero non limitarsi ad elencare una dopo l’altra le discipline in cui è organizzata la scienza, e qui gli studiosi del clima, lì gli zoologi, altrove i chimici, e così via all’infinito. Bisognerebbe piuttosto cercare di intravedere una via d’uscita: una nuova scienza che oltre a individuare i fenomeni che stanno distruggendo la vita sul pianeta, li metta in correlazione tra di loro. Chi può dire che la causa di quel che accade a Wuhan e a Milano sia una sola, per esempio l’inquinamento urbano? E certo c’è questo fattore, ma si tratta di due metropoli in cui la vita in generale è stata ridotta a una essenzialità, o semplificazione tutta umana, in cui si mescolano l’immensa quantità di chimica di sintesi gettata a profusione nella vita corrente (si calcola che le sostanze chimiche artificiali disperse nell’ambiente siano oltre centomila), l’onnipresenza della plastica (che non si “scioglie” né sparisce ma si disperde in micro-frammenti che entrano in tutti i cicli vitali), l’inquinamento delle acque (i cui effetti a lungo termine sono sconosciuti), la distruzione della biodiversità e in generale dell’ambiente naturale, la super-produzione di rifiuti di ogni tipo, i gas e i liquami prodotti in quantità incredibili dagli allevamenti industriali (in Emilia ci sono più maiali che umani), naturalmente i combustibili fossili e i loro gas-serra, e moltissimi eccetera.
Ma qual è il motore di questo disordinato avvelenamento (e auto-avvelenamento) di proporzioni sempre crescenti? Si può sostenere che la civilizzazione umana, cioè quella dominante occidentale, sia riassumibile negli ultimi due secoli in una sola parola: capitalismo. Il cui scopo non è solo la crescita infinita della produzione, e quindi dei profitti, ragione stessa di esistenza del capitale, ma la frantumazione dei saperi in “campi” separati, secondo la logica dell’industria meccanica, dove specialismi diversi concorrono al risultato finale, ma ciascuno per sé, senza che nessuno senta il bisogno di intrecciare quel che si sa, esempio grossolano per capirsi, del modo in cui l’uranio può produrre energia per mezzo di una reazione controllata, con il tempo che le radiazioni ci mettono a non produrre più effetti nocivi sull’ambiente. O, per altro verso, i medici fanno molta fatica a mettere in relazione un infarto con il diabete e con mille altri fattori di cui è fatta la vita di ciascuno, si comportano in generale come “meccanici”: ripariamo questa parte del corpo, il resto non sappiamo.
In sostanza: l’interazione tra i moltissimi fattori di cui si compone la vita urbana, per restare alle metropoli, quale effetto generale provoca? Non lo sappiamo, nessuno lo sa. Si dovrebbe ricorrere alle teorie del caos, cosa che già i meteorologi cercano di fare per capire come il sovrapporsi di tanti disordini (rispetto alla “norma” che abbiamo conosciuto in passato) provochi qualcosa di completamente nuovo, che non conosciamo. E tanto meno controlliamo, e quindi assistiamo impotenti allo sciogliersi dei ghiacci artici, che procede a un ritmo incredibilmente veloce, che non è stato previsto né compreso. Perciò occorrerebbe, chi lo sa fare, elaborare la nuova scienza, che non è biologia più zoologia più medicina ecc., ma qualcosa di completamente nuovo, che assume in sé l’insieme della vita sulla terra, di qualunque tipo, animale e vegetale e minerale, una scienza che con la nostra lingua non sappiamo nemmeno nominare, e probabilmente si dovrebbe prendere ispirazione dalle culture indigene, ad esempio quelle latino-americane, che quella specializzazione e quell’atteggiamento strumentale nei confronti della natura non hanno conosciuto, e che resistono da mezzo millennio allo sterminio culturale da parte degli europei.
Nel frattempo, parrebbe che la sola strada possibile, se vogliamo salvare la pelle, sia il restauro, il ripristino: di un ambiente più naturale, di boschi e foreste, di acque sane. Insomma, una civiltà che convive con la natura, invece di divorarla. Difficile, certo, se si pensa che la Lombardia, epicentro del contagio, è la regione europea più ricoperta di asfalto e cemento, più inquinata, più popolata, più avvelenata in agricoltura e nelle emissioni del milione di fabbriche.
Al mio amico docente, per convincerlo con un tratto di esperienza, ho detto: ho vissuto fino a 23 anni in un posto, la bassa bergamasca, dove adesso la gente muore come le mosche, ma dove da decenni l’acqua è avvelenata dall’atrazina sparsa senza risparmio sui campi e da fabbriche chimiche talmente pericolose che altri paesi europei le avevano rifiutate, già allora. Poi sono andato a vivere a Roma, per molti anni, e ho molto frequentato la Toscana e l’Alto Lazio, perciò quando prendevo un aereo o un treno per Milano, arrivato in Lombardia mi rattristavo, guardando quella campagna così diversa da quella toscana: piatta, disciplinata come una fabbrica, rivoltata zolla a zolla per secoli e trasformata in una fabbrica di prodotti agricoli, e poi le autostrade ovunque, le file di capannoni, le migliaia di camion e furgoni. E’ questa, la ricchezza?, mi chiedevo.