Notturno italiano (con lucciole). Didi-Huberman, Pasolini, Agamben – di Luca Lenzini

Notturno italiano (con lucciole). Didi-Huberman, Pasolini, Agamben – di Luca Lenzini

17 Aprile 2020 Off di Francesco Biagi

di Luca Lenzini

 

Negli ultimi anni sono stati via via proposti ai lettori italiani gran parte dei libri di Georges Didi-Huberman, oltre una decina nel nuovo millennio. I temi variano dalla storia dell’arte all’archeologia, dalla fotografia alla psichiatria, dalla letteratura alla storia del Novecento; gli autori trattati nei saggi sono, tra gli altri, Beato Angelico, Charcot, Warburg, Brecht, Giacometti. Compagnia eterogenea, che potrebbe far pensare ad una inclinazione eclettica dello studioso francese, ma che invece, proprio per la diversità dei protagonisti e dei soggetti, finisce per mostrare la sostanziale coerenza del suo metodo d’indagine, centrato sul concetto d’immagine e ispirato a due maestri irregolari (per eccellenza) come Walter Benjamin e Aby Warburg. Dieci anni fa, in Come le lucciole[1] (titolo originale Survivance des lucioles), Didi-Huberman, che ha vissuto a lungo nel nostro paese, affrontava una tematica – quella della “modernizzazione” e delle sue conseguenze – strettamente (e forse fin troppo) associata al nome di Pier Paolo Pasolini, alla sua vicenda intellettuale e biografica: è arcinota, infatti, la denuncia dello scrittore sulla “scomparsa delle lucciole[2]”, che data al febbraio 1975 – cioè a pochi mesi prima della morte -, e che ha assunto valore paradigmatico per identificare un passaggio “epocale” nella storia italiana: «Nei primi anni Sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a sparire le lucciole…». Tornare a quel luogo e farlo a partire da un orizzonte interpretativo molto distante, per categorie e impostazione, dalle vischiose paludi nostrane dei revisionismi e delle nostalgie[3], è un’operazione che merita di essere sottratta al consumo culturale o alla giurisdizione dei “pasolinologi”, tanto più se essa intenzionalmente si ripromette di parlarci dell’oggi e di una assai attuale «politica delle sopravvivenze» (così recita il sottotitolo del libro, nell’edizione italiana).

Tale è stata la fortuna della “parabola” delle lucciole, che sembra persino superfluo rammentarne i termini e le implicazioni. Ma poiché, come avviene in questi casi, non di rado si fa riferimento ad una vulgata o a versioni di seconda mano che ne semplificano il senso e l’articolazione, è utile riportare per esteso la sintesi di Didi-Huberman:

 

La tesi è questa: si crede a torto che il fascismo degli anni trenta e quaranta sia stato sconfitto. Certo, Mussolini fu giustiziato e appeso per i piedi a piazzale Loreto, in una messinscena “infamante” tipica delle più antiche consuetudini politiche italiane. Tuttavia, sulle rovine di quel fascismo è rinato il fascismo stesso, un nuovo terrore che, agli occhi di Pasolini, è ancora più profondo, ancora più devastante. Da un lato, “il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista”; dall’altro, alla metà degli anni Sessanta, accadde “qualcosa” che diede luogo a un “fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo”. La prima fase del processo fu contraddistinta dalla “violenza poliziesca” e dal “disprezzo per la Costituzione”, il tutto impregnato da un “atroce, stupido, repressivo conformismo di stato”, contro il quale “allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze” di capovolgimento politico.

 

La seconda fase di questo processo è iniziata, secondo Pasolini, nel momento in cui “gli intellettuali, anche i più avanzati e critici, non si sono accorti che “le lucciole stavano scomparendo”. Nelle parole scritte all’epoca da Pasolini c’è tutta la violenza del polemista – ossia del provocatore, come viene abitualmente definito – associata, montata con tutta la dolcezza del poeta. Il polemista non esita a parlare di “genocidio”, avvalendosi per l’occasione di una citazione di Karl Marx sull’annientamento del proletariato a opera del capitalismo. Il poeta, invece, utilizza l’immagine antica, lirica e delicata – perfino autobiografica – delle lucciole[4].

 

Si noti, nell’ultimo inciso, il richiamo alla dimensione autobiografica dell’immagine delle lucciole. Poco prima, infatti, Didi-Huberman aveva ricordato una lettera del ’41 di Pasolini, allora diciannovenne, all’amico Farolfi, in cui le lucciole comparivano nel racconto di una notte trascorsa all’aperto con un gruppo di amici[5]: ed è una genealogia estremamente significativa, quella così individuata per l’immagine del ’75, proprio perché rimanda ad un contesto in qualche modo fondativo, una sorta di “mito personale” che intreccia amicizia ed eros, arte e etica. Il trapasso da un’esperienza inaugurale, immersa nei conflitti e nelle speranze di un tempo incerto e drammatico ma ancora aperto a rivelazioni ed esiti incogniti, alla constatazione del “genocidio” e della fine di ogni speranza, traccia un itinerario esemplare che, a posteriori, ci appare tragicamente sigillato dalla morte, la notte dell’idroscalo, di Pasolini stesso.

Quanto al tema del “genocidio” in chiave storico-antropologica, non è meno chiara, per quanto rapida, l’esposizione dello studioso francese. Egli ne rintraccia il percorso sia nei vari scritti “corsari” sia, in controluce, nella produzione del cineasta, dalle prime opere alla Trilogia della vita, a Salò; e risulta illuminante, in tale ambito, il ricorso ad alcune interviste, come quella del ’58 di Arturo Gismondi (Neocapitalismo televisivo), in cui Pasolini già osservava che la televisione «non solo non concorre ad elevare il livello culturale degli strati inferiori, ma determina in loro un senso d’inferiorità, quasi angosciosa[6]», o quella di Furio Colombo, l’ultima (Siamo tutti in pericolo, 8 novembre 1975), in cui alla domanda se rimpiangesse i tempi della letteratura cosiddetta “impegnata”, lo scrittore rispondeva: «No! Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone» (ibidem). All’altezza del ’75 il processo che annulla la prospettiva dell’emancipazione attraverso l’omologazione è giunto infatti ad un punto di non-ritorno, e la scrittura stessa di Pasolini ne addita, con le tonalità dell’invettiva, la pervasiva violenza, l’offesa non risarcibile. Bisogna di nuovo citare dall’Articolo delle lucciole (p. 25):

 

Il trauma italiano del contatto tra l’“arcaicità” pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell’industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancora moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.

 

Il parallelo imperniato sul trauma della massificazione (Germania anni trenta – Italia anni settanta) è di per sé eloquente e senza ambiguità; eppure pochi – rimozione significativa – ne hanno sottolineato il pregnante rilievo. L’Articolo delle lucciole svolge i suoi argomenti in una direzione precisa: Pasolini non punta il suo discorso, semplicemente, sul consumismo o sul conformismo (come vorrebbe l’opinione corrente e incoraggia a credere la pubblicistica), né si limita a esecrare la classe dirigente del paese. Egli chiama in causa fenomeni di degenerazione e, più precisamente, di criminalizzazione diffusa propri della società italiana, fragile organismo che a quel trauma non sa opporre alcuna difesa o argine. Osserva dunque Pasolini, di seguito:

 

In Italia sta succedendo qualcosa di simile e con ancora maggiore violenza, perché l’industrializzazione degli anni settanta costituisce una “mutazione” decisiva rispetto anche a quella tedesca di cinquant’anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana: di quella storia umana le cui cadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale.

 

Che questo paesaggio sociale, moralmente devastato, costituisca lo sfondo di un’opera come Salò (1975) è del tutto evidente, e Didi-Huberman ne coglie con esattezza l’elemento infernale ed il carattere totalizzante:

 

Pasolini, nei suoi testi politici, e fino all’ultimo film, Salò, ha voluto presentarci, o ripresentarci, quella nuova realtà della cerchia dei “frodatori” o della bolgia dei “consiglieri fraudolenti”, senza contare i “lussuriosi”, i “violenti” e gli altri “falsari”. Ciò che egli descrive come regno fascista è dunque un inferno realizzato al quale nulla sfugge più, al quale tutti siamo ormai condannati. Colpevoli o innocenti, poco importa: in ogni caso dannati. Dio è morto, i “frodatori” e i “consiglieri fraudolenti” ne hanno approfittato per usurpare il trono di supremo Giudice. Sono loro, ormai, a decidere della fine dei tempi. (p. 26)

 

Per quanto si possa dissentire dalle iperboli dell’ultimo Pasolini o diffidare del suo tono apocalittico, aggiunge Didi-Huberman, è d’altra parte difficile negare che egli abbia toccato un punto cruciale, che ci riguarda da vicino e non può pertanto essere archiviato: «… come non provare la sua lancinante inquietudine, mentre tutto, nell’Italia di oggi – per parlare solo dell’Italia – sembra corrispondere sempre più all’infernale descrizione proposta dal cineasta ribelle? Come non vedere all’opera quel neofascismo televisivo di cui parla, un neofascismo che esita sempre meno, tra l’altro, a riassumere su di sé tutte le rappresentazioni del fascismo storico che lo ha preceduto?» (ibidem).  Tuttavia – e nonostante le convergenze con le ricerche di Foucault (la “bio-politica”) o di Debord (la “società dello spettacolo”) -, è proprio il tratto totalizzante del discorso di Pasolini, la distopia inverata che azzera ogni alternativa, a non convincere lo studioso: se la scomparsa delle lucciole e il successivo avvento di un nuovo fascismo vengono assunti in chiave apocalittica tout court, negando ogni speranza di un futuro diverso, e senza lasciare scampo alla cultura, anzi facendo anche di essa uno strumento della barbarie, non si finirà così, domanda Didi-Huberman, per dar ragione ai “consiglieri fraudolenti” ed ai loro compari al potere, e magari spianar loro la strada? Come le lucciole ha il merito, di fronte a questa domanda, di non cedere ai facili esorcismi del pensiero volgar-progressista, liquidando la denuncia di Pasolini come mero rimpianto di un passato mitico, figurazione fantastica di un poeta disperato, oppure arrendendosi al ricatto del così è, secondo il diktat del “pensiero unico”. Didi-Huberman, invece, che pure individua lucidamente la parabola biografica che sta dietro all’itinerario delle lucciole in Pasolini, tenta di opporre alla disperazione una risposta dialettica, che ribadisce il carattere affermativo della cultura (e della memoria), senza per questo rifiutare alle intuizioni del poeta un contenuto di verità.

Prima, però, di render conto di come le lucciole – invisibili per l’ultimo Pasolini, ma sopravvissute «malgrado tutto» – possano guidare o cooperare ad una «politica delle sopravvivenze», va notato che un’ampia parte del libro in questione è dedicata ad un pensatore che sembra, a tutta prima, assai lontano da Pasolini, ovvero Giorgio Agamben. Che cos’hanno in comune – si dirà – due intellettuali così diversi tra loro[7], sia per formazione che per genere di scrittura? Qual è, poi, il nesso che lega le lucciole e Salò all’autore di Homo sacer e di altri densi lavori che hanno meritato tanta attenzione ben oltre i confini nazionali?

 

A leggere il capitolo intitolato Apocalissi?, si potrebbe sospettare nell’accostamento una certa dose di generica approssimazione: le «due virtù» necessarie per leggere il presente che Pasolini e Agamben condividerebbero, secondo Didi-Huberman, ovvero il «coraggio – virtù politica, e poesia, che è l’arte di fratturare il linguaggio, di infrangere le apparenze, di smontare l’unità del tempo» (p. 43) non possono bastare a caratterizzare i due autori, distinguendoli dai numerosi altri ai quali queste ampie definizioni si potrebbero estendere (mentre restano fuori campo, nelle pagine di Come le lucciole, altri auctores novecenteschi, da Contini a Longhi, di peso per entrambe). Analogo sospetto può valere nei confronti dell’altro connotato condiviso da Pasolini e Agamben secondo Didi-Huberman, ovvero il concorde affermare che «fra l’arcaico e il moderno c’è un appuntamento segreto» (p.44): questa variazione su un tema di Benjamin, in realtà, è anch’essa riferibile ad una vasta zona dell’arte novecentesca, tanto da poter esser iscritta nel canone della Modernità stessa come una sua cifra elettiva. Dove invece il saggio di Didi-Huberman torna a farci riflettere, è quando ravvisa una «logica comune» nella denuncia di Pasolini del ‘75 e nelle considerazioni di Agamben sulla «distruzione dell’esperienza» come caratteristica del nostro tempo, quali venivano svolte in uno dei suoi libri più belli, Infanzia e storia (gli anni, si noti, sono gli stessi); e qui siamo su un terreno dai contorni riconoscibili, che consente l’approfondimento di temi specifici.

Il fondamento della prospettiva di Agamben in Infanzia e storia, ricorda Didi-Huberman, è il saggio del 1936 di Walter Benjamin su Leskov,  Il narratore[8], in cui il momento decisivo per l’affermarsi del carattere distruttivo della Modernità, nel senso dello svuotamento dell’esperienza (e quindi della sua trasmissibilità), è visto nell’inedito scatenamento insieme tecnologico e ideologico avvenuto con la prima guerra mondiale: «una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il minuto e fragile corpo dell’uomo» [p. 46]): pagine giustamente celebri e che è sempre bene rammentare, ma che qui assumono un rilievo particolare nel generare la «matrice filosofica» (p. 47) del pensiero di Agamben sulla crisi dell’esperienza, il quale secondo Didi-Huberman ne allarga e attualizza l’orizzonte alla vita quotidiana nelle sue varie forme[9]. Ebbene, è proprio in questo nesso che si rivela per lo studioso la logica comune di Agamben e Pasolini (il Pasolini ultimo, beninteso, che chiama in causa la Germania anni Trenta): per tutti e due si tratta, infine,  di «evocare il tempo presente come una situazione di apocalisse latente, in cui nulla sembra più in conflitto ma la distruzione opera ugualmente le sue devastazioni nei corpi e negli spiriti di ciascuno» (p.46).

Al di là delle filiazioni dirette e indirette, degli incroci e delle implicanze che in Come le lucciole forniscono un quadro frastagliato e suggestivo per intendere (e discutere) i lavori di Agamben, fino alle sue opere più recenti, è dunque ad uno scenario storico preciso che va riportato lo «stile» apocalittico proprio sia del poeta sia del filosofo. Il che non appare per nulla casuale o innocente: si tratta, anzi, di un riferimento che, come paradigma per avvicinare l’oggi, risulta scandaloso per la coscienza progressista, in quanto presuppone la continuità tra passato e presente a partire da uno dei punti di più feroce affermazione del dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (è alle pagine di Modernità e olocausto di Bauman[10] che dobbiamo l’esplorazione più lucida di questo passaggio). Ma per vie traverse, sia l’autore di Petrolio e di Salò – quasi una parodia nera, a distanza, del Decameron -, sia quello di Infanzia e storia, non è appunto quel paradigma che adottano per misurare la crisi contemporanea? C’è in questo – vien naturale chiedersi al lettore di Come le lucciole – una oltranza provocatoria sganciata dalla realtà del nostro tempo, o la coincidenza tra i due autori ci parla di una genealogia incancellabile e condivisa del Moderno? Ma altre domande, non meno degne di attenzione, sono sollecitate da questo punto. La radicalità di tali istanze – e si includa in questa “costellazione” il Primo Levi de I sommersi e i salvati – non è fatta per storicismi pacificanti: per esempio (altra domanda) avrà ancora senso parlare di democrazia[11] nel contesto di un discorso che contenga questi riferimenti, queste coordinate di fondo? E sarà soltanto un caso, poi, che Pasolini e Agamben siano tutt’e due italiani, o nella loro percezione del presente, in quanto tali, c’è qualcosa che rimanda ad una comune origine e ad una specifica forma o esperienza (esperimento) della modernità?

 

Ma intanto, vale la pena aprire una parentesi – o meglio, un intermezzo pro memoria – sulla triangolazione appena intravista, che è insieme di ordine storico e filosofico. Si può notare che a partire da quel medesimo scenario in cui prese forma e impose la sua efferata violenza il Nazismo, non solo Walter Benjamin ha messo alla prova la più alta tradizione filosofica, sino a concepire la sfida estrema delle Tesi di filosofia della storia, ma si è mosso anche – in buona parte nel suo solco, o da lui influenzato – un filone preciso del pensiero filosofico e sociologico novecentesco, da Arendt e Marcuse a Horkheimer e Adorno, fino all’Anders di L’uomo è antiquato (per non parlare qui, su un altro versante, della “questione della tecnica” in Heidegger, autore ben presente ad Agamben). Gli studi sulla “personalità autoritaria”, sulla “dialettica dell’illuminismo”, sulle “origini del totalitarismo” e sull’“uomo ad una dimensione” interpretano le dinamiche di massa della contemporaneità intendendo quel momento storico come “apocalisse” anche e precisamente nel senso di una rivelazione o affioramento di alcunché di costitutivo e distintivo del capitalismo, un nucleo inumano che perciò occorre guardare in faccia, senza occultare le continuità dell’oggi con il passato più tragico, per quei pensatori qualcosa di assai concreto, per nulla astratto. Che un autore come Agamben conosca a fondo questo filone di pensiero (Benjamin in primo luogo), è scontato; meno scontato è che Pasolini vi facesse implicito riferimento all’altezza del ’75. È nota, infatti, l’estraneità di fondo del poeta rispetto alla cultura filosofica e politica; e chi scorre l’indice dei nomi del volume che raccoglie i suoi Saggi sulla politica e la società non vi trova né Arendt, né Anders, né Benjamin o Horkheimer (ma neanche Bloch o Fromm). Diverse citazioni rinviano, invece, a Marcuse: tutte intorno al ’68, e si spiega con l’ampia diffusione che ebbe il suo pensiero negli anni della “contestazione”; ma è significativo, d’altro canto, l’accenno di una intervista di Camon, in cui parlando della «rivolta degli studenti» Pasolini afferma di aver letto Marcuse «per merito di Fortini […] prima che diventasse di moda[12]». Qui il «prima» rimanda all’epoca in cui, nella prima metà degli anni Sessanta (ma anche, veramente, in precedenza[13]), intellettuali come lo stesso Fortini, Renato Solmi, Cesare Cases e numerosi altri, discutevano e introducevano i temi della “scuola di Francoforte” nella cultura italiana (soprattutto grazie alla casa editrice Einaudi e a riviste come «Ragionamenti», prima, e poi «Quaderni piacentini»). A questo proposito si può riportare quanto, nel 1979, osservava proprio Fortini in una conferenza su Pasolini politico:

 

Le vie con le quali la gioventù italiana, tra la fine degli anni Cinquanta e il primo quinquennio degli anni Sessanta, si preparò a comprendere quel che stava accadendo furono assai diverse da quelle tedesche e francesi. Poi che la ideologia dominante era quella marxista e in qualche modo riferita alla ipotesi comunista, la trasformazione fu vissuta in modo traumatico proprio perché la cultura europea aveva già predisposto gli strumenti concettuali con i quali interpretare l’avvento del neocapitalismo. Pasolini non conobbe o non usò quegli strumenti […]. Nella prima metà degli anni Sessanta, ossia quindici anni fa, avevamo già letto Minima moralia di Adorno e Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, Angelus Novus di Benjamin, Eros e civiltà di Marcuse, mentre (seguendo una sua vocazione prevalentemente letteraria) egli si era rivolto piuttosto alla sfera dello strutturalismo, della linguistica e della psicanalisi[14].

 

«Non conobbe o non usò», dice Fortini (il “noi” della citazione sottintende, in controluce, il gruppo citato sopra e la zona della “nuova sinistra”): ma è proprio a lui, invece, che Pasolini riconosce l’impulso a leggere Marcuse; ed in generale è facilmente documentabile l’influsso fortiniano, quanto ai temi politico-sociali, persino nella produzione cinematografica dell’artista (Uccellacci e uccellini, 1966[15]). Forse questa contraddizione si può spiegare con la vicenda di avvicinamenti, solidarietà e duri conflitti che hanno contrassegnato il rapporto tra i due (si veda per questo l’appena citato Attraverso Pasolini), e con il carattere fondamentalmente mediato della cultura di Pasolini in questo ambito; in ogni caso resta vero che nel corso degli anni Sessanta l’orizzonte ideologico qui tratteggiato risulta fondamentalmente divergente dall’evoluzione artistica e politica pasoliniana. Ma è ora di tornare alle lucciole:  chi dunque sarebbero «gli intellettuali, anche i «più avanzati e critici», che non si accorsero che «le lucciole stavano scomparendo»?

Va ricordato e precisato, su questo tema, che Pasolini distingueva nel ’75 due diversi soggetti egualmente sordi rispetto al tema (tragico) della «mutazione» in corso: da una parte, la «massa operaia e contadina organizzata dal Pci», dall’altra gli intellettuali «critici». Questi ultimi sono coloro, per l’appunto, a cui Fortini si riferisce dicendo «noi». Proviamo a sintetizzare: nella prospettiva di Pasolini la mutazione iniziata negli anni Sessanta e giunta a compimento nel decennio successivo non fu percepita, nelle sue conseguenze profonde, da chi, tanto nel quadro di una ortodossia marxista (meglio si dovrebbe dire gramsciana), quanto nelle file della dissidenza da cui ebbe origine la “nuova sinistra” (nei confronti della quale egli nutrì sempre netta ostilità), stava dentro a un orizzonte industrialista ed economicista, accecato quindi o influenzato (anche quando la criticava) da una nozione di progresso incentrata sulle forze produttive e sull’azione di avanguardie. In realtà, il tema del dominio sulla natura e la critica della “civiltà industriale” è parte integrante e non secondaria della tradizione di pensiero di cui si è ora discorso; per cui si potrebbe concludere, alla breve, che tutta l’impostazione di Pasolini in materia è segnata da una scarsa o mancata conoscenza di quel filone, rispetto alla cui chiaroveggenza egli era in ritardo di molti anni. Eppure dir questo non basta, perché all’anacronismo di Pasolini ne corrisponde un altro, di segno opposto. All’altezza degli anni Sessanta, in effetti, la situazione sociale ed economica del paese non era paragonabile a quella che avevano avuto di fronte i “francofortesi” e gli altri rifugiati negli Stati Uniti, venti anni prima, dopo aver “sperimentato” il Nazismo: lo sviluppo italiano all’epoca del “Boom”, per quanto impetuoso, era stato fortemente disomogeneo e contraddittorio, con evidenti discontinuità tra Sud e Nord (ma anche all’interno di quest’ultimo); né a quel tempo erano paragonabili, ancora, struttura e impatto dei media, a livello nazionale, con l’assetto prodotto in quel campo dal capitalismo davvero avanzato (là dove non esistevano, poi, forze d’opposizione del peso del Pci e del sindacato italiano). In questo senso il “pensiero critico”, i cui esponenti erano inseriti nel tessuto produttivo del Triangolo Industriale, il più progredito del paese in senso capitalistico[16], conteneva insieme un nucleo profetico ed un elemento di astrattezza che un intellettuale come Pasolini, proprio perché legato a vecchi modelli e ad aree del paese più arretrate[17], avvertiva con più chiarezza e sensibilità; e non è un caso che anche l’Articolo delle lucciole – che prende spunto, guarda caso, da una annotazione di Fortini relativa al fascismo[18] –  evidenziasse, a quel tempo, i fenomeni degenerativi della mutazione con particolare riferimento al «centro-sud». Ma proprio quel che poteva sembrare un residuo del passato annunciava, nei suoi aspetti più infernali, l’avvenire, la lunga notte italiana, con la compresenza e contemporaneità strutturale di fenomeni in sé contraddittori ma non percepiti come tali. Saltata infine la dialettica di classe operaia e borghesia, “popolo” e avanguardie, ecco che l’appuntamento tra il «non più antico» e il «non ancora moderno» genera un popolo «mostruoso». Frodatori e falsari occupano la scena, piazzisti e magnaccia dirigono le giornate della nazione. «L’inferno sta salendo anche da voi», dice Pasolini nell’ultima intervista, rivolto all’intellighenzia progressista; e poi senza mezzi termini: «Per voi una cosa accade quando è cronaca, bella, fatta, impaginata, tagliata e intitolata. Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fattarello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente[19]

 

Non c’è modo peggiore per affrontare i nodi della discussione intellettuale intorno a questi temi (ed a questi autori), di quello che ne traduce i termini in chiave di nuda antitesi tra pessimismo e ottimismo, o riduce la questione, interessatamente, all’opposizione tra “apocalittici” e “integrati”, uno dei tanti modi per liberarsi delle verità scomode per il conformismo, opportunista o ponderato che sia. Per questa via (scorciatoia tanto ampiamente condivisa, quanto funesta), si finisce inesorabilmente con il togliere al pensiero il suo spazio d’azione, umiliandone il carattere di ricerca e di scommessa; ma forse, quel che si vuol rimuovere da ogni dibattito è proprio il piano dell’etica, il solo su cui dovremmo impegnare – non solo a parole ma con i fatti, i comportamenti – il discorso sul futuro. Negli anni infernali della Germania nazista, nella prospettiva di una morte quasi certa, Dietrich Bonhoeffer sapeva scrivere parole come queste: «Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo il lavoro per un futuro migliore[20]

A suo onore, Come le lucciole non cade nei trabocchetti del conformismo, né imbocca scorciatoie di comodo. L’obiezione che Didi-Huberman avanza nei confronti del nichilismo adialettico (dirò così, troppo sommariamente) di Pasolini e Agamben è riassunta in un passaggio del capitolo intitolato Popoli: «Per parte mia, non riesco proprio a immaginare un pensiero politico che lasci al proprio nemico la definizione e il controllo dei suoi concetti fondamentali» (p.64) – ma è proprio  quel che paradossalmente ha fatto, non senza una certa euforia, la sinistra di fine Novecento e inizio del nuovo Millennio[21] – ; mentre altrove egli aveva rimproverato all’ultimo Pasolini uno sguardo che vede «solo il tutto» e non lo «spazio […] delle aperture, dei possibili, dei bagliori, dei malgrado tutto» (p.28). Non per questo, aggiunge significativamente, si deve rifiutare la sollecitazione che simili autori ci portano in dote: al contrario, «abbiamo bisogno di loro», in quanto «guardano al mondo contemporaneo con una violenza che è sempre sorretta da immense ricerche nello spessore del tempo»: «anche per questo suscitano scandalo: perché sollevano degli impensati, perché spesso ci mettono di fronte ai ritorni del rimosso storico» (p.65). Nella parte finale di Come le lucciole, poi, Didi-Huberman contesta l’interpretazione che Agamben, in Infanzia e storia, offriva del Narratore di Benjamin; più precisamente, egli insiste a negare che la «distruzione dell’esperienza» sia un dato oggettivo, ineluttabile: contestazione che tanto più c’interroga, in quanto è allo stesso Benjamin che si richiama, nel tentativo di sottrarne il pensiero ad una visione apocalittica assoluta e totalizzante. Scrive Didi-Huberman, in un passaggio che tocca il vissuto di Benjamin e il suo itinerario di ebreo tedesco in fuga dalla morsa del Nazismo:

 

[…] Benjamin seppe “organizzare il suo pessimismo” con la grazia delle lucciole, cercando, ad esempio, tra il teatro epico di Bertolt Brecht e la deriva urbana dei poeti surrealisti, tra la Bibliothèque Nationale e il Passage des panoramas, quello “spazio delle immagini” capace di opporsi alla polizia – alle terribili coercizioni – della sua vita. Le quotazioni dell’esperienza erano crollate, ma Benjamin rispondeva a tutto ciò con immagini di pensiero ed esperienze di immagine di cui i testi sull’hascisc, tra gli altri, offrono ancora alcuni esempi sorprendenti per le loro risorse di “aura autentica” o di infanzia dello sguardo su ogni cosa. (p.77)

 

“Organizzare il pessimismo”: l’espressione o meglio l’ordine del giorno ripreso da Benjamin risale a Pierre Naville (La rivoluzione degli intellettuali, 1928[22]) e compare in un saggio scritto nell’ultimo scorcio di vita che ha per tema la storia e la politica ed i loro intrecci esposti e nascosti; il che ci riguarda, perché può additare una via di superamento dell’antitesi volgare prima accennata, una strada da esplorare con attenzione e senza wishful thinking. Riporto la citazione com’è data in Come le lucciole: «Organizzare il pessimismo vuol dire […] scoprire nello spazio dell’agire politico […] lo spazio delle immagini [Bildraum]. Questo spazio però non si può assolutamente misurare in termini contemplativi […] Questo spazio cercato è il mondo di attualità universale e integrale [die Welt allseitiger und integraler Aktualität]» (p.71). Si capisce, allora, che per Didi-Huberman il concetto di “immagine” si carichi di significati che vanno ben oltre l’ambito artistico o filosofico; o meglio, in quel concetto tanto l’elemento estetico che quello metafisico cooperano ad una politica della sopravvivenza capace di attivare il rapporto, altrimenti inerte, di passato e futuro; nella storia, qui e ora. In questo senso l’immagine e la “lucciola” sono la stessa cosa: si sottraggono al flusso ordinato e lineare del tempo per apparire come il «fulmine sferico» – dirompente, saturo di futuro – che in Benjamin attraversa «l’intero orizzonte del passato» per illuminare, in un attimo, il presente. L’immagine è perciò una risorsa politica; ed alla luce di questo presupposto risultano coerenti e significanti gli esempi di sopravvivenza-resistenza alla catastrofe europea del Novecento – dagli studi di Victor Klemperer alla testimonianza di Charlotte Beradt, dalle note di Bataille su Nietzsche alle poesie di Char – a cui Come le lucciole dedica acuti commenti, su cui sarebbe da soffermarsi a lungo. La conclusione del ragionamento di Didi-Huberman sul tema dell’esperienza è molto netta:

 

Non dovremmo dire […] che l’esperienza, a un certo punto della storia, è stata “distrutta”. Al contrario – e poco importa la potenza del regno e della sua gloria, poco importa l’efficacia universale della “società dello spettacolo” -, dovremmo affermare che l’esperienza è indistruttibile, anche quando si trova ridotta alle sopravvivenze e alle clandestinità di semplici bagliori nella notte. (p.89)

 

L’ultimo esempio di sopravvivenza, ovvero di resistenza alla notte, evocato nel libro di Didi-Huberman è l’opera di Laura Waddington[23] Border 55, un video del 2004 girato nei dintorni del campo della Croce Rossa di Sangatte, luogo di “soggiorno temporaneo” per immigrati clandestini nei pressi del tunnel sottomarino che collega la Francia all’Inghilterra. Vi scorrono «immagini sull’orlo della scomparsa, sempre mosse dall’urgenza di fuga, sempre vicine a coloro che, per portare a termine il loro progetto, si nascondevano nella notte e tentavano l’impossibile a rischio della vita» (p.93). Vale la pena citare ancora Didi-Huberman:

 

In questi corpi della fuga non appare altro che l’ostinazione di un progetto, il carattere indistruttibile di un desiderio. Appare anche la grazia, talvolta: grazia nascosta in ogni desiderio che prende forma. Bellezze gratuite e inattese, come quando un rifugiato curdo danza nella notte, nel vento, con la sua coperta come unico drappeggio: come se fosse l’ornamento della sua dignità e della gioia, che, in fondo, chissà dove, esiste malgrado tutto. […] Da un lato, vi sono quei bagliori nella notte: infinitamente preziosi, perché forieri di libertà, ma anche angoscianti, perché sempre sottoposti a un pericolo palpabile. Dall’alto […] vediamo i “feroci riflettori” del regno, o della gloria: i fasci delle torce della polizia nella campagna, un implacabile raggio di luce che, da un elicottero, spazza via le tenebre circostanti. Anche le semplici luci delle case, i lampioni o i fari delle automobili in transito ci serrano la gola, nel contrasto straziante – visivamente straziante – che si instaura con tutta questa umanità gettata nella notte, rigettata nella fuga. (p.94)

 

Non è difficile immaginare la reazione dei consiglieri fraudolenti di fronte ad una pagina come questa. Sembra di vederli, che sguinzagliano i loro dobermann di pronto intervento (gli opinionisti, per massimo esempio), i burattini dei talk-show permanenti: intellettuale, esteta, anima bella, l’autore di Come le lucciole da qualche cattedra transalpina pretende d’insegnarci la favola dell’accoglienza, di raddrizzare il mondo secondo i suoi bei principi astratti (con la “poesia”!…), rispolverare un’idea di libertà diversa dall’individualismo e addirittura liberare i «possibili», figuriamoci: quanto essi di più detestano… In realtà, quel che ci ricorda qui Didi-Huberman è qualcosa che i veri artisti hanno sempre saputo; qualcosa di cui si sono assunti l’onere e il privilegio, a nome di tutti. La grazia e la gioia, il desiderio e la dignità, la libertà e la gratuità, ma anche – e insieme – lo strazio, l’angoscia (qualcuno ha chiamato “promesse de bonheur” quel nucleo clandestino e in fuga che si oppone, ostinatamente, al negativo). E quel che importa sottolineare, per chiudere su Come le lucciole, è che il «malgrado tutto» sia qui ancorato ad un «progetto»: sia pure ridotto alla sopravvivenza, ma comunque rivolto al futuro, non confinato all’esistente. Il Pasolini di Accattone lo sapeva bene ed in questo preciso senso l’osservazione che Fortini dedicava a Pasolini politico va a mio avviso tuttora sottoscritta: «seguendo il consiglio di Adorno, la sua preziosa parcella di politica ossia la partecipazione alla vita collettiva, dobbiamo tornare a cercarla nelle trasfigurazioni e trasposizioni poetiche[24]». Non è davvero un esteta chi ha scritto queste parole. Per la stessa ragione, si è ancora una volta tentati di dire che è consegnata all’arte di alcuni scrittori la verità sul nostro paese, e che esiste un nesso tra la notte italiana, che non passa, ed una qualità della speranza a cui essi non sapevano, né volevano, rinunciare. Se vogliamo cercare delle luci, neanche noi possiamo rinunciare al loro scandalo.

 

Nella stessa pagina di Pasolini politico appena ricordata, Fortini ripeteva «la parola di Hegel»: «le mete umane vengono raggiunte mediante la somma infinita delle catastrofi individuali.» In una prospettiva non diversa, in fondo, egli correggeva l’osservazione di Adorno per cui «non si dà vita vera nella falsa» con il contro-aforisma «non si dà vita vera se non nella falsa.» Ma lo stesso Pasolini, rifiutando di ascrivere la propria visione apocalittica del presente ad una mera deriva di pessimismo, nel 1975 affermava che se insieme all’«angoscia», non fosse esistita in lui la possibilità di lottare «contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare» (p.34). Allora è bene ascoltarlo, poiché parte integrante, anzi elettiva del lascito di questi autori (e pochi altri) è quel che Didi-Huberman ribadisce verso la conclusione del suo saggio:

 

[…] sta a noi non vedere scomparire le lucciole. Ma per fare ciò dobbiamo acquisire la libertà di movimento, il ritirarsi [retrait] che non sia ripiegamento su noi stessi, la facoltà di fare apparire scintille di umanità, il desiderio indistruttibile. Noi stessi […] dobbiamo dunque trasformarci in lucciole e riformare, così, una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi.» (p.92)

 

Affinché questa affermazione non resti, suo malgrado, velleitaria e bloccata nei confini di un “desiderio” generico, priva di un contenuto specifico, non basterà tuttavia ribadire la fede nell’arte, o rinnovare appelli di cui gli impresari della paura e dell’odio si fanno beffe ogni giorno. «Una comunità di pensieri da trasmettere», appunto: mobilitare il pensiero e l’esperienza – anche del negativo, certo – e la memoria di quel che, del passato, è rimasto irrealizzato, le possibilità in esso sepolte, come Benjamin ha insegnato[25]. Mi pare che vada in questa direzione l’auspicio di Didi-Huberman di riprendere il discorso intrapreso da Hannah Arendt in L’umanità in tempi bui e Tra passato e futuro: uno spunto più accennato che sviluppato, ma tra quelli di maggiore interesse di Come le lucciole, che ne conta non pochi. Mi riferisco non solo al concetto di «pensiero diagonale» (rammemorante e, ad un tempo, volto al futuro), ma alle riflessioni della Arendt, nell’Introduzione a Tra passato e futuro, dedicate all’eredità della Resistenza europea e al «tesoro antichissimo, che appare all’improvviso nelle circostanze più diverse, e quindi scompare di nuovo celandosi sotto i più svariati e misteriosi travestimenti, come una fata morgana[26]». Tesoro, scrive Arendt, senza un nome definito, ogni volta tradotto diversamente (talora chiamato «felicità pubblica»), ed a sua volta strettamente connesso all’uso di una memoria considerata «una forza e non un fardello»; un tesoro antico, ogni volta da riscoprire e inventare.

 

[Una prima e diversa versione di questo saggio è apparsa su «Il Ponte», n. 67, 2011 ed è raccolta in L. Lenzini, Il gatto di Arnheim e altri scritti clandestini, Lavagna, Zona, 2015]

 

Note:

 

[1] Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2010.

[2] Originariamente Il vuoto di potere in Italia, «Corriere della Sera», 1 febbraio 1975, poi confluito in Scritti corsari (Milano, Garzanti, 1975) come L’articolo delle lucciole. I riferimenti di Didi-Huberman sono a P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e la società, a cura di W.Siti e S. De Laude, con un saggio di P. Bellocchio, Milano, Mondadori, 1999, volume a cui in seguito anche qui si rimanda.

[3] Per una indagine ricca di spunti in questo senso ricordo D. Balicco, Letteratura e mutazione. Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino, Franco Fortini, Roma, Artemide, 2018.

[4] G. Didi-Huberman, Come le lucciole cit., pp. 19-20.

[5] P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p.36; Didi-Huberman, Come le lucciole cit., pp. 15-16.

[6] G. Didi-Huberman, Come le lucciole cit., p.24. D’ora in poi i riferimenti a questo volume sono forniti nel testo.

[7] Sul tema si veda l’intervista di Valeria Montebello a Giorgio Agamben: https://www.cittapasolini.com/post/giorgio-agamben-pasolini. È noto che Agamben (allora ventiduenne) figura per una breve apparizione nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini (1964).

[8] Ora disponibile in edizione autonoma: W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolai Leskov, Torino, Einaudi, 2015.

[9] «Ogni discorso sull’esperienza deve oggi partire dalla constatazione che essa non è più qualcosa che ci sia ancora dato di fare. Poiché, così come è stato privato della sua biografia, l’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi, l’incapacità di fare e trasmettere esperienze è, forse, uno dei pochi dati certi di cui egli disponga su se stesso.»  Così Agamben in Infanzia e storia (Come le lucciole cit., p.45; e si veda l’ampia citazione alle pp. 46-7).

[10] Z. Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, Il mulino, 1992 (ed. orig. Modernity and the Holocaust, Oxford, Basil Blackwell, 1989.)

[11] In una conferenza del 1967 dedicata agli Aspetti del nuovo radicalismo di destra (ora pubblicata da Marsilio, trad. di S. Rodeschini, postfazione di V. Weiss) Adorno osservava che a democrazia fino a oggi «è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio concetto.»

[12] P.P. Pasolini, Intervista rilasciata a Ferdinando Camon [1969] in Saggi sulla politica e la società cit., p.1642.

[13] Già nel 1956 Fortini scriveva una lettera al «Contemporaneo» su Adorno (poi confluita nel postumo F.Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 168-170); e si veda il retrospettivo Quando arrivò Adorno, «Corriere della Sera», 6 febbraio 1977. La traduzione a opera di Renato Solmi di Minima moralia risale al 1954.

[14] F. Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, pp. 194-195.

[15] Rinvio in proposito al mio Attraverso Pasolini e Fortini, in «L’ospite ingrato», X, 2006, 1, p. 105 (poi modificato in L. Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini, Macerata, Quodlibet, 2013), in cui è messa in rilievo, in quest’ambito, l’importanza dell’antologia Profezie e realtà del nostro tempo. Testi e documenti per la storia di domani, curata da Fortini per Laterza nel 1965. Qui sono presenti ben due capitoli di Eros e civiltà (tra i quali l’ultimo e fondamentale).

[16] È sintomatico che il milieu culturale torino-milanese e quello Roma-centrico, a quell’altezza, fossero tra loro in un rapporto generalmente di distanza e indifferenza, più che di polemica.

[17] Su questi temi cfr. D. Balicco, Fortini, la mutazione e il surrealismo di massa in Per Romano Luperini, a cura di P. Cataldi, Palermo, Palumbo, 2010, pp. 467-487; anche Antonio Tricomi, Pasolini, un reazionario di sinistra, in La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 65-80.

[18] F.Fortini, È una polemica che risale al Politecnico, «L’europeo», 26 dicembre 1974.

[19] P.P.Pasolini, Siamo tutti in pericolo [1975] in Saggi sulla politica e la società cit., p.1729.

[20] Dietrich Bonhoeffer, Dieci anni dopo, in Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di E. Bethge, ed. it. a cura di A. Gallas, Milano, San Paolo, 1988, pp.72-73.

[21] Si veda T. Judt, Quando i fatti (ci) cambiano. Saggi 1995-2010, Bari-Roma, Laterza, 2020.

[22] Vedi l’importante saggio di M. Löwy, Romanticismo, messianismo e marxismo nella filosofia della storia di Walter Benjamin, «Discipline filosofiiche», X, 1 2000.

[23] Vedi http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=558

[24] F.Fortini, Attraverso Pasolini cit., p. 205.

[25] Si veda su questo tema uno dei saggi più belli dei nostri anni: Mario Pezzella, La memoria del possibile, Milano, Jaca Book, 2009.

[26] Cito ampliando il passo ripreso da Didi-Huberman (Come le lucciole cit., p.91), da Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1999, p. 27.