«Dunque sono l’ultimo». Said e lo “stile tardo” – di Luca Lenzini

«Dunque sono l’ultimo». Said e lo “stile tardo” – di Luca Lenzini

11 Giugno 2020 Off di Francesco Biagi

di Luca Lenzini

 

1.

On Late Style. Music and Literature against the Grain è apparso nel 2006, tre anni dopo la scomparsa di Edward Said[1]. Per quanto si tratti di un progetto incompiuto, che come tale denuncia i limiti propri di un’opera assemblata con gli spezzoni di un work in progress, il libro ricostruito dal curatore (di fatto, anche se non figura come tale), Michael Wood, possiede tuttavia una sua solida e patente consistenza, e si legge come opera d’autore a pieno titolo. Sia per quanto riguarda il back-ground teorico-filosofico, il cui principale ed esplicito riferimento è Adorno (com’è subito annunciato dal primo capitolo, Timeliness and Lateness), sia per quanto riguarda l’analisi delle opere e degli autori trattati (da Mozart a Genet, Tomasi di Lampedusa, Glenn Gould, Kavafis, Britten, Richard Strauss), On Late Style è una raccolta coerente e ricchissima di spunti, che conferma tutte le doti di un critico con pochi uguali, a suo agio tanto con i capolavori della musica occidentale che con la poesia e la narrativa di ogni epoca, e altrettanto insofferente verso il conformismo intellettuale; il che lo rende ancora oggi attualissimo.

Dei sette saggi che compongono il libro postumo tre erano stati composti per un ciclo di conferenze e gli altri erano apparsi in rivista, in versioni appena diverse, durante gli anni Novanta (il corso alla Columbia University di New York intitolato “Last works/Late Style” è del 1995); ma l’interesse per lo “stile tardo”, come precisa Mariam Said nella premessa al libro, risale alla fine degli anni Ottanta, ed infatti un richiamo ad Adorno ed al suo saggio su Beethoven e lo Spätstil[2], nucleo germinale dell’intero progetto, è già presente in una conferenza del 1989 poi compresa in Musical Elaborations[3]. Se dunque l’orizzonte cronologico entro cui s’iscrive il progetto ha potuto suggerire a più di un recensore un collegamento diretto tra la malattia mortale – diagnosticata nel ’91 – con cui Said lottò per oltre un decennio, e l’argomento del libro, la sua genesi va considerata a partire da una prospettiva più ampia, in stretto rapporto con l’evoluzione del pensiero di Said, che mentre lavorava al progetto sullo Stile Tardo andava componendo altre opere non meno importanti[4], nel segno di una sostanziale (e vitalissima) continuità con la produzione precedente. Certo: sin dall’apertura il lettore di On Late Style è posto di fronte alla questione del rapporto tra «bodily condition» e «aesthetic style[5]», e non c’è motivo di negare una relazione tra gli studi sullo Stile Tardo, con l’insistenza che la categoria porta con sé sul motivo della finitezza e dell’interruzione, del frammento e della catastrofe, e la vicenda biografica di Said; ma non per questo l’enfasi portata sulla coincidenza tra la tragica circostanza della malattia e l’attenzione al tema della fine va accettata senza riserve, quasi fosse il movente esclusivo e centrale del progetto. Un’aggiunta di pathos facilmente investe, a posteriori, le “opere ultime”: è più che comprensibile e c’è poco da obbiettare a quanto Wood argomenta nella sua appassionata e competente Introduzione al libro, scritta sull’onda della perdita dell’amico e maestro; nondimeno vi sono più che buoni motivi per tener conto, nella valutazione complessiva del contributo di Said, di altri fatti e di altre prospettive.

In primo luogo, va rammentato che è lo stesso Said, nel saggio collocato a primo capitolo di On Late Style, a spiegare come sin dall’inizio (Beginnings, Basic Books, 1975) al centro dell’interesse del suo lavoro fosse «il processo della costruzione del sé[6]», nelle sue varie fasi: in questo senso il libro postumo appare più come il compimento di un ciclo che non il frutto di una cesura, di quello iato che secondo alcuni pone le opere tarde sotto il segno distintivo della discontinuità[7]. Inoltre, per quanto riguarda un punto essenziale e specifico del libro in questione, proprio il saggio di Adorno sull’ultimo Beethoven, da cui Said deriva, come detto, le basi del suo discorso sullo Stile Tardo, prende nettamente le distanze dalle interpretazioni biografiche e psicologistiche dell’opera beethoveniana nella sua ultima fase: tali interpretazioni, infatti, non sono soltanto riduttive, per Adorno, ma tradiscono l’intenzione profonda delle opere “tarde”, banalizzando l’elemento soggettivo la cui critica è inerente alla protesta dell’artista[8], e depotenziandone le valenze allegoriche. Perché, allora, dovremmo leggere il Said di On Late Style – per l’appunto lui, che ebbe a definirsi l’ultimo seguace di Adorno[9] – rischiando a nostra volta di fraintenderne la portata, mettendo in primo piano un motivo di ordine biografico-esistenziale?

 

2.

Adorno: di lì, da dove muove Said, è bene iniziare ogni commento a On Late Style. A chi pensi allo scenario degli anni Novanta nell’ambito della critica letteraria, e più in generale allo stato della riflessione teorica, diciamo al mainstream allora (e tuttora) dominante non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, non sfuggirà la singolarità e il carattere spiazzante, da outcast e pensatore ribelle, della scelta di Said. Ponendosi nella scia del “francofortese”, con un gesto di aperta rivendicazione dell’eredità del suo pensiero che sfida, di per sé, le mode accademiche e gli esorcismi dei seguaci del Post-moderno[10], il «professor of terror», – com’ebbero a definirlo gli araldi della reazione per le sue battaglie per la Palestina e gli studi sull’Orientalismo – si riallacciava ad un momento fondante della stessa Modernità, in tutti i suoi risvolti essenziali. C’è qui un volontario e radicale, persino orgoglioso anacronismo. Non si dimentichi che il saggio su Beethoven, nel suo spunto iniziale, data 1934: riportarsi a quello snodo cruciale della storia europea e mondiale, al periodo dell’affermazione del Nazismo, con quel che esso comporta, ha un significato che non può essere messo tra parentesi, come volentieri fa chi considera il riferimento ad Adorno niente più che una opzione a favore di una data “teoria estetica”, una citazione obbligata. Hic Rhodus… : la catastrofe europea è il volto di Medusa per ogni pensiero che sia all’altezza del nostro tempo, propriamente il luogo in cui l’intera tradizione fu sul punto di consegnarsi alla distruzione, al disumano. Come lucidamente vide Said, l’interpretazione dell’ultimo Beethoven da parte di Adorno stabilisce le coordinate del suo discorso sull’arte proprio in quanto quest’ultimo è inscindibile dal discorso sulla società: la critica della società di massa e dell’arte convenzionale, l’accento posto sulla dialettica di razionale e irrazionale che costituisce il punto di crisi dei progetti di modernizzazione, fanno qui tutt’uno con il tema dell’emancipazione; e di questo l’esilio – tema ogni volta ricorrente, leitmotiv dell’opera di Said – è l’amaro e inesorabile controcanto. Il carattere utopico dell’arte moderna, appello e sogno di una umanità liberata dall’oppressione e dallo sfruttamento, si sviluppa in questa cornice; irriducibile alle istanze del Nichilismo, l’eredità che si condensa nel nome di Adorno vale quindi come memento dell’orrore e dell’istanza che vi si oppone. Nulla di più lontano dalle istanze normative, apologetiche, del “Pensiero Unico”, i cui trionfi si andavano festeggiando a livello planetario al tempo in cui Said lavorava sullo Stile Tardo. E se tale è lo sfondo, va aggiunto che in quanto Said osserva a proposito di Adorno, con la sottolineatura della sua appartenenza al «mondo di Weimar, dell’alto modernismo, dei gusti lussuosi, di un dilettantismo ispirato e appena appagato[11]» e sul fatto che egli, nonostante svolgesse il proprio lavoro «accanto ai grandi istituti della società occidentale», fosse poi «rimasto sempre in disparte», senza farsi assimilare[12], affiora chiaramente un tratto d’identificazione, rinsaldato dalla comune passione per la musica. Così è anche per il rifiuto dello specialismo, e più in generale per la visione “contrappuntistica” e asistematica del pensiero adorniano; e sotto questo profilo (che include una genealogia socio-familiare), si osserverà che al fondo della poco occulta identificazione Said/Adorno c’è un’ascendenza condivisa, a sua volta riassumibile, a farla breve, nel nome di Proust, come ben testimonia la citazione del frammento inaugurale di Minima Moralia che campeggia in Adorno as Lateness Itself[13]. Anzi, l’elemento aggregante tra l’esperienza musicale e quella letteraria, e tra critica e filosofia, poggia direttamente su quel sostrato, e non è l’ultima tra le ragioni del fascino dello stile da “conversazione” di Said, saggista e modernista di una tradizione che – per liquidare una buona volta chi, fastidiosamente, pretende di “dire la verità” – si è voluta decretare estinta per sempre, come un retaggio arcaico ed un orpello residuale.

Il terreno dell’appropriazione, su questa linea, è così trasparente e cordiale da rendere persino superflua l’insistenza sui singoli punti di debito di Said nei confronti di Adorno. Su almeno uno, però, vale la pena insistere. Riferendosi all’Ibsen di Quando noi morti ci destiamo, al momento autodistruttivo che nelle opere tarde investe e contesta lo stile e le opere precedenti di uno stesso autore, egli osserva: «Trovo profondamente interessante questo […] tipo di tardività come un elemento dello stile. Mi piacerebbe indagare l’esperienza dello stile tardo che implica una tensione non armonica e non serena, e soprattutto una produttività deliberatamente improduttiva, che va contro[14]…». L’accento posto sul momento distruttivo, «improduttivo» e autocritico dello Stile Tardo, e non solo su quanto si sottrae nell’arte al vangelo del Mercato e della Produzione a ogni costo, ma anche, e di pari passo, sul carattere inconciliato delle opere estreme, insofferenti di ogni irrigidimento in formula o canonizzazione, di ogni codificazione conformistica, è essenziale per capire l’atteggiamento di Said in questa fase del suo lavoro. Si trattava di rivendicare alla “tardività” una istanza radicale. Ed in effetti, nel programma abbozzato in Timeliness and Lateness è annunciato il tratto tipizzante poi via via ravvisato da Said come unificante di esperienze diversissime tra loro, come quelle di Strauss, Tomasi di Lampedusa, Visconti, Glenn Gould, Jean Genet: da una parte, lo scacco portato ai codici ricevuti, ai canoni ed alle convenzioni della cultura occidentale veicolate dalla cultura di massa; dall’altra, il rifiuto esercitato – anzi vissuto nella pratica artistica – nei confronti di una nozione della vecchiaia come porto di quiete e di serenità, come finale acquisizione di una maturità soddisfatta e sapiente, infine reificata (qui è evidente l’eco di Nietzsche, già presente in Adorno). Di nuovo, in questo essere e definirsi “contro” ci sarà un riflesso autobiografico, la proiezione del proprio permanente dissidio con il conformismo; ma dir questo, è ancora dir troppo poco, se si omette di confrontarsi con quel che in Said oltrepassa Adorno, nel momento stesso in cui egli ribadisce la fedeltà al suo stile di pensiero.

Mettere insieme Genet e Visconti, Gould e Strauss, Tomasi di Lampedusa e Kavafis, sembra in effetti alcunché di estemporaneo, di provocatorio o addirittura approssimativo, se abbiamo presente – in particolare per i casi di Visconti o Gould, ma anche Strauss – la critica adorniana all’industria culturale, ai suoi “miti” e alla sua ideologia di fondo, conservatrice anche quando si atteggia a sovversiva della tradizione. A questo proposito va letto con attenzione il passaggio in cui Said riprende la critica di Adorno al mito di Toscanini[15] e allo Star System: invece di accreditare il luogo comune che vede in Gould il “virtuoso” per eccellenza e quasi un equivalente dei divi della musica leggera o del cinema, egli indica nel pianista un intellettuale che nello specifico del suo lavoro, nelle esecuzioni come nello sforzo didattico, e nello stesso esilio dalla scena musicale, propone strategie alternative a quelle imposte dall’industria culturale[16] (ed anche la rivalutazione di Strauss passa appunto per Gould). Dunque a Said non interessa applicare un modello interpretativo in modo meccanico, o comportarsi da seguace “alla lettera” di Adorno, ripetendone ogni volta la lezione. Piuttosto egli usa i motivi evidenziati da Adorno nel saggio sullo Spätstil per rilevare quel che, anche in artisti e opere consegnati al canone più collaudato, e per nulla omogenei all’universo adorniano, si muove in controtendenza, o più semplicemente in una dimensione che, come nel caso di Tomasi di Lampedusa e di Visconti, si colloca nella prospettiva di una indocile, insofferente estraneità rispetto al proprio tempo, là dove quel che siamo soliti definire “decadenza” (e che spesso corrisponde ad un punto di vista “conservatore”) consente di vedere, in filigrana, quanto di fasullo e di vecchio – nel senso di sempre-uguale – appartiene al Nuovo che si proclama unico esecutore della sorti magnifiche e progressive. Ne viene un deciso allargamento del campo d’indagine, in cui possiamo però scorgere un’intima e non scolastica lealtà verso la lezione di Adorno: questa si manifesta esemplarmente nel motivo dell’erosione dell’apparenza, che sin da Goethe (ripreso da Adorno, ma anche da Simmel[17]) è il punto dirimente per interpretare l’arte dei “grandi vecchi” e si configura come solvente della ideologia, cioè come critica del carattere apologetico di quanto è venuto a patti con l’esistente.

 

3.

«Oggettivo è il paesaggio in sfacelo, soggettiva la luce nella quale soltanto esso si accende. Tale contraddizione non produce la loro sintesi armonica; li separa nel tempo l’uno dall’altra, come forza della dissociazione, forse per conservarli per l’eternità. Nella storia dell’arte le opere tarde sono catastrofi[18].» Così Adorno in un passaggio fondamentale sull’ultimo Beethoven, in cui è sottolineata e spiegata, con una sorta di pregnante allegoria, la compresenza di oggettivo e soggettivo all’interno delle opere tarde. Questa conclusione apodittica, centrata sull’idea di catastrofe, citata e ampiamente commentata da Said in Timeliness and Lateness, in Adorno è preceduta e preparata da una serie di osservazioni puntuali riguardanti la struttura delle opere beethoveniane dell’ultimo periodo, in particolare le straordinarie sonate per pianoforte. La conclusione s’intende meglio a partire dal ragionamento iniziale: «Egli [Beethoven] non compone più il paesaggio, ora abbandonato e alienato, in un’immagine, ma lo irradia con il fuoco acceso della soggettività mentre esplodendo urta contro le pareti dell’opera, fedele all’idea della sua dinamica. La sua opera tarda resta ancora un processo, ma non inteso come sviluppo, bensì come accensione tra estremi che non sopportano più nessun centro sicuro e armonia derivante dalla spontaneità.[19]»

Sono parole, queste ultime, che fanno pensare immediatamente all’ultimo Cézanne, e non a caso lo stesso concetto di Spätstil  proviene dalla storia dell’arte[20]. Ma né Adorno né Said si sono occupati della specifica ed esemplare tradizione artistica in quel campo: al centro del loro interesse è e resta la musica, che sembra quasi accaparrarsi il nucleo utopico dell’arte e decidere anche, nella sua sfida al pensiero convenzionale e ad ogni facile assioma sul rapporto forma/contenuto, i paradigmi per l’interpretazione della letteratura; del che la critica non pare aver reso conto a sufficienza. Entrambi, Adorno e Said (si rammenti invece) non furono semplici ascoltatori o esegeti delle opere musicali, ma interpreti sul piano più letterale, che implica l’esecuzione diretta, la prova reiterata, l’analisi dei passaggi e dell’insieme strutturale delle composizioni[21]; e senza questo lavoro è difficile capire una qualità intrinseca del loro saggismo, che non si ferma mai alla superficie o alla trama dei giudizi offerta dagli specialisti e dalla “doxa” delle corporazioni, con quel tanto di astratto, scolastico ed inerte che la caratterizza. Il saggio, mobile per natura e indocile alle categorie predefinite, aderisce ad una modalità conoscitiva che si pone sul piano dell’esecuzione, dell’attuazione mediata, mai irriflessa, in quanto frutto d’invenzione e memoria, dialettica in atto. Non è facile trovare due intellettuali più diversi, quanto a stile espressivo, di Adorno e Said; ma su questo punto – e i passaggi più belli di On Late Style sono proprio quelli sulla musica – c’è una consonanza palpabile, che coinvolge la genesi dell’atto critico, il movimento del pensiero, ma anche un elemento affermativo, una familiarità con la gioia della ricreazione, del riconoscimento e dell’apparizione che la grande arte da sempre custodisce.

 

4.

Quanto agli elementi propri dello Stile Tardo messi in rilievo da Adorno e ripresi da Said – rifiuto della sintesi, dell’armonia e della decorazione, prevalenza della negazione e critica dello sviluppo lineare, trionfo del frammento, lacerazione tra estremi, dissociazione – se è vero che si possono ritrovare nelle opere maggiori della modernità, da Kafka a Beckett, da Schönberg a Rothko, nemmeno è possibile prescindere dal loro indice storico, a cui accennavo prima. Su questa prospettiva, come da un crinale da cui è possibile traguardare altri crinali, altri paesaggi, è bene insistere, concludendo. Si rivela qui il nesso tra il tema della catastrofe, com’è assunto in Adorno e Said, e le vicende novecentesche della Shoah, da una parte, e della Nakba dall’altra (“al-Nakba” significa in arabo appunto catastrofe), in Europa e in Palestina. La radicalità del pensiero che si specchia nello Spätstil presuppone la visita a quei luoghi estremi ed una solidarietà di fondo con i sommersi e gli espulsi dalla Storia, con il lunghissimo esilio di cui è l’eco lancinante in Celan. In Dal silenzio al suono e… ritorno (1993[22]) Said fa coincidere la vocazione degli intellettuali (i soli che meritano questo nome) a dire la verità[23], contro i media che sequestrano il linguaggio e l’esperienza, con «la testimonianza silente di un’esperienza soffocata e di una sofferenza vissuta sulla pelle.[24]»: dire la verità perciò significa schierarsi, assumere la voce di chi è ridotto al silenzio o manipolato ed emarginato. Si capisce meglio, allora, la nota affermazione contenuta nell’intervista del 2000 a «Ha’aretz Magazine»: «Dunque sono l’ultimo. L’unico vero continuatore di Adorno», che è immediatamente seguita dall’altrettanto paradossale e coerente conclusione: «Mettiamola così: sono un ebreo-palestinese[25]». Lo scandalo di questa affermazione intende denunciare e ribadire una verità che riguarda tutti noi, se non vogliamo arrenderci alle manipolazioni degli ideologi, alla dimenticanza procurata nei rituali della memoria reificata, alla retorica dei predicatori del “non c’è alternativa” ed al loro lessico neoliberista. Nel momento in cui rivisitava le proprie origini (Out of place, del ’99, ne è il referto[26]), Said ritrovava non una dimora mitica, una identità stabile e rassicurante o un’eredità tramandata, bensì la non-appartenenza, l’esilio[27], la necessità della scelta e dell’invenzione del sé, le «sabbie mobili» del presente come unico fondamento. Sempre nell’intervista del 2000 si legge: «Desidero un tessuto sociale talmente ricco che nessuno possa interamente comprendere e nessuno possa del tutto possedere.[28]» È una versione dell’Utopia tanto esigente quanto anacronistica, limpidamente intempestiva nel senso di Said. Per questo il paesaggio abbandonato, senza un centro, alienato e in sfacelo, proprio dello Stile Tardo, è – in crudo controcanto con quella visione – il paesaggio che presiede al suo lavoro degli ultimi anni; e questo è vero anche per gli scritti politici[29]. Ognuno di quei saggi evoca una costellazione di pensatori tra i quali spetta un posto di primo piano al Benjamin delle tesi Sul concetto di storia, scritte sull’orlo del massacro, nel solco della «tradizione degli oppressi[30]». E un desiderio così estremo e ragionevole, come quello dell’esule, può infine essere rimosso, bandito dal discorso teorico, cancellato con feroce determinazione dall’ordine del giorno; ma non può essere estinto. Tra l’irrealizzato ed il futuro ha luogo un mandato, una consegna. Intellettuali come Said ci hanno affidato questo preciso compito, nientemeno che questa tradizione, «forse per conservarli per l’eternità».

 

[Precedenti e diverse versioni di questo saggio sono apparse in Edward W. Said. Letteratura, umanesimo e critica del potere, a cura di M. Gatto, Massa, Transeuropa, 2014; e L. Lenzini, Il gatto di Arnheim e altri scritti clandestini, Lavagna, Zona, 2015.]

 

Note:

 

[1] Edward W. Said, On Late Style. Music and Literature Against the Grain, New York, Vintage Books, 2006. Trad. it. Sullo stile tardo, trad. di M. Arduini, Milano, Il Saggiatore, 2009. Tra i contributi più rilevanti su Said e lo “stile tardo” segnalo L. Rosenthal, Between Humanism and Late Style, «Cultural Critique», 67, fall 2007, pp. 107-140; S. Gourgouris, The Late Style of Edward Said, «Alif: Journal of Comparative Poetics», 25, 2005 , pp. 37-45.

[2] Le diverse versioni del saggio si leggono in Th. W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, a cura di R. Tiedemann, Torino, Einaudi, 200, p.179. Si veda al riguardo M. Spitzer, Music as Philosophy. Adorno and Beethoven’s Late Style, Bloomington, Indiana University Press, 2006; nonché Rose R. Subotnik, Diagnosis of Beethoveen’s Late Style: Early Sympton of a Fatal Condition, «Journal of the American Musicological society», vol. 29, 2 (Summer 1976), pp. 242-275. L’interpretazione adorniana dell’ultimo Beethoven venne ripresa da Thomas Mann nel Doctor Faustus: vedi Th. W. Adorno, Beethoven cit., p. 179 (n. 3); e Th. W. Adorno – Th. Mann, Il metodo del montaggio. Lettere 1943-1955, a cura di C. Gödde e T. Sprecher, Milano, Archinto, 2003.

[3] New York, Columbia U. P., 1991.

[4] Come Humanism and Democratic Criticism, Columbia U. P., 2007e From Oslo to Iraq and the Road Map. Essays, Random House, 2005; ed. it. E. W. Said, Umanesimo e critica democratica, introduzione di G. Baratta; trad. di M. Fiorini, Milano, Il Saggiatore, 2007.

[5] E.W.Said, On Late Style… cit., p.3 (nella trad. it. di Sullo stile tardo cit., p. 19: «La relazione tra condizione corporea e stile estetico»).

[6] E.W.Said, Sullo stile tardo cit., p. 19.

[7] Di «conoscenza per hiatum» parla per esempio Manlio Sgalambro nel Trattato dell’età (Milano, Adelphi, 1990, p. 111), in chiave con la sua interpretazione della «potenza del vecchio» e della sua «energia metafisica» (ivi, p.38); ma non è che uno fra tanti. Si veda al riguardo il mio Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata, Quodlibet, 2008 (in particolare l’Introduzione, pp. 9-27).

[8] Il punto è ripreso dallo stesso Said a p. 24 di Tempestività e tardività (Sullo stile tardo cit.).

[9] Vedi Edward W. Said, Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit, Ha’retz Magazine, Tel Aviv 2000, trad. Maria Leonardi, Roma, Nottetempo, 2007, pp. 47-48.

[10] Va ricordata l’importante eccezione costituita dal lavoro di Fredric Jameson, che di Adorno si è occupato a più riprese (vedi Marco Gatto, Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008).

[11] E.W.Said, Sullo stile tardo cit., p. 32.

[12] Ivi, p. 34.

[13] «Il figlio di genitori benestanti che, non conta se per talento o debolezza, prende una professione, come si dice, intellettuale….»: è l’incipit di Th. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, nella traduzione di Renato Solmi (Torino, Einaudi, 1954): vedi E.W.Said, Adorno as Lateness Itself, in Apocalypse Theory and the Ends of the World, ed. By M. Bull, Oxford, Blackwell, 1995, pp. 277-8; confluito in On Late style… cit., p.20 (Sullo stile tardo cit., p. 33).

[14] E.W.Said, Sullo stile tardo cit., p. 22.

[15] Vedi Th.W. Adorno, La maestria del maestro, in Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-65, Torino, Einaudi, 2004, pp. 39-53; E.W. Said, On Late Style… cit., pp.121-2.

[16] Si veda per questo l’importante ed originale studio di M. Gatto, Glenn Gould: il suono materiale. Per un’estetica della resistenza, Ancona, Cattedrale, 2009, in particolare il capitolo L’umanista interprete: Edward W. Said legge Glenn Gould, pp.99-138; e più in generale Id., L’umanesimo radicale di Edward W. Said: critica letteraria e responsabilità politica, Milano-Udine, Mimesis, 2012.

[17] Rinvio per questi temi all’Introduzione del mio Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, cit., pp. 9-27.

[18] Th. W. Adorno, Beethoven cit., p.179.

[19] Ivi, p.178.

[20] Si fa risalire la categoria a A.E. Brinkmann, Spätwerke Grosser Meister, Frankfurt am Main, Frankfurter Verlag-Anstalt, 1925 (vedi K. Painter, On Creativity and Lateness, in Late thoughts. Reflections on Artists and Composers at Work, by K. Painter and Th. Crow, Los Angeles, Getty Research Institute, 2006, pp. 1-11). Gli esempi più rappresentativi sono Tiziano e Rembrandt.

[21] Adorno, com’è noto, fu anche compositore: vedi G. Danese, Theodor Wiesengrund Adorno il compositore dialettico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008.

[22] In E.W. Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 2008.

[23] Vedi E. W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, 2014

[24] In E.W. Said, Nel segno dell’esilio…. cit., p. 579.

[25] E.W. Said, Il mio diritto al ritorno… cit., p. 47-48.

[26] Id., Out of Place: A memoir, New York, Knopf, 1999; trad. it. (di A. Bottini) Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia, Milano, Feltrinelli, 2000.

[27] Sul tema vedi “Contented Homeland Peace”. The Motif of the Exile in Edward Said, in Edward Said: a Legacy of Emancipation and Representation, Los Angeles, University of California Press, 2010, pp. 389-413; vedi Tony Judt, The Rootless Cosmopolitan, «The Nation», July 19, 2004, http://www.thenation.com/doc.mhtml?i=20040719&s=judt (20/05/ 2001).

[28] Ivi, p. 47.

[29] Vedi E. W. Said, Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele, Milano, Feltrinelli, 1998; Id., La pace possibile, Milano, Il saggiatore, 2005; Id., La questione palestinese, ivi, 2011.

[30] W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 33.