Passione e martirio dell’artista. Sull’Andrej Rublëv di Tarkovskij – di Andrea Luigi Mazzola
Ciò che colpisce dell’Andrej Rublëv di Tarkovskij è il suo dipanarsi in una dimensione temporale che tuttavia sembra non appartenere a nessun tempo. La Russia del Quattrocento, attraversata delle scorribande dei Tartari, sembra quasi configurarsi come uno spazio metafisico che si sottrae alle leggi del tempo storico. Il regista aveva ben in mente i rischi in cui è possibile incorrere nel caso di un film di ambientazione storica. Scrive Tarkovskij in Scolpire il tempo che se egli avesse intrapreso la «strada della ricostruzione della tradizione pittorica, del mondo pittorico di quei tempi, ne sarebbe scaturita una realtà della Russia antica stilizzata e convenzionale»[1], e quella sarebbe stata «una strada sbagliata per il cinema»[2]; di conseguenza era necessario rappresentare il tempo storico «in modo tale che lo spettatore non avvertisse alcun esotismo da museo o da “monumento”, né nei costumi, né nel modo di parlare, negli aspetti della vita quotidiana, né nell’architettura»[3]. Per raggiungere questo scopo il regista dilata gli spazi e li spoglia delle sue connotazioni storiche. Le architetture della chiesa di Vladimir, il fiume su cui traghetta Andrej dopo la notte del rito pagano, la passione del Cristo, la bellissima sequenza della fusione della campana (una laica e potente liturgia del lavoro), sembrano muoversi in uno spazio orizzontale in cui, anche grazie all’uso del bianco e nero, non è possibile immaginare qualcosa al di là di esso, come se il regista facesse muovere i suoi personaggi (e le sue allegorie) su di un piano all’interno di una dimensione a-temporale. E dunque anche la scelta di suddividere il film in episodi (otto più un prologo e un epilogo) risponde all’esigenza, che è di tutto il cinema tarkovskijano, di rispondere alle regole della logica poetica piuttosto che della logica temporale e sequenziale dell’intreccio[4]. Le immagini del film infatti, pur seguendo eventi della vita del pittore, non assumono i contorni di una biografia, né di un film storico: quello che interessa al regista è mostrare il fatto umano che si cela dietro la figura di Andrej Rublëv, il significato della sua vita e della sua opera.
Molto poco si sa della vita di Andrej Rublëv, ma proprio questa carenza di fonti biografiche certe ha permesso al regista di scegliere di mostrare il fatto per ciò che è, ovvero la tensione tra l’uomo, l’arte e il suo tempo; tra la mutevolezza effimera del corso delle cose e l’aspirazione all’eterno dell’arte o, per usare le parole di Tarkovskij, «l’analisi del carattere del dono poetico del grande pittore russo»[5]. In altre parole al regista importa mostrare lo spirito della vita e dell’opera di Rublëv. Il regista decide dunque di ricercare la massima sincerità del mezzo cinematografico, che deve mostrare il dato estetico senza sovrapposizioni formali, senza ricerche esteriori al dato stesso, rifuggendo da ogni naturalismo storico e “museale”; tenta dunque di fare un film in cui «una sedia doveva essere vista come un oggetto sul quale ci si siede e non come una rarità da museo»[6]. Senza queste premesse il prologo del film sarebbe assolutamente incomprensibile. Un uomo di nome Yefim si schianta al suolo dopo aver costruito una sorta di rudimentale pallone aerostatico. Nella sceneggiatura originale l’episodio descriveva un contadino che si costruisce due ali, sale sul tetto di una chiesa e si lancia nel vuoto sfracellandosi al suolo. Per usare le parole del regista, in questa versione «il pathos del volo, il simbolismo del volo erano stati annullati, perché il significato fu più immediato, primario rispetto alle associazioni di idee alle quali siamo ormai assuefatti. Sullo schermo doveva apparire semplicemente un contadino sudicio, poi la sua caduta e l’urto contro il terreno e la morte»[7]. Ma quest’immagine era ancora troppo carica di significato simbolico – il volo di Icaro, l’aspirazione a ciò che va oltre l’umano – era necessario liberarsi di ogni sovrastruttura per mostrare l’avvenimento «e non il proprio atteggiamento nei suoi confronti»[8]; per questo motivo il regista ha dunque deciso di eliminare le ali e con esse il pathos simbolico che poteva celarsi in quell’immagine, per mostrare l’accadimento di un uomo che si schianta al suolo dopo aver provato a spiccare il volo. Quest’episodio, che non verrà più ripreso per tutto il film, costituisce la cifra stilistica e simbolica della pellicola e assurge a dichiarazione dell’intera poetica del lavoro.
Si badi bene, comunque, che non si tratta di immortalare un accadimento con lo sguardo positivistico che cerca l’obiettività del dato. Per Tarkovskij si tratta di imprimere in forma sensibile l’oggettività della dimensione del tempo. Il problema non è quello di conferire tale dimensione a immagini, parole e suoni, insomma, non si tratta di rendere temporale l’arte figurativa: si tratta al contrario del processo secondo cui «l’immagine temporale viene prima, in termini di condizioni di senso, delle sue componenti»[9]. Tornando all’Andrej Rublëv si tratta dunque di uno spazio a-storico in cui però si dipana un contenuto espressivamente temporale, una vicenda umana, estetica e spirituale che, proprio come l’icona ortodossa, diventa una “porta regale” che apre a una dimensione altra. L’icona tradizionale rivela il mistero dell’amore di Dio; l’immagine filmica in Tarkovskij, e l’arte in generale, rivela invece il senso poetico del sacrificio dell’arte, in una relazione quasi religiosa tra l’artista, l’opera e lo spettatore: «Nell’arte, […] come nella religione, l’intuizione è equivalente al convincimento, alla fede. […] L’arte non pensa in maniera logica, né formula una logica del comportamento. Essa esprime un certo proprio postulato di fede. Ed è per questo che l’immagine artistica può essere accettata soltanto per fede»[10]. Non sarebbe scorretto affermare che l’arte porta in sé il riflesso di una conoscenza che per modalità e fenomenologia ricorda da vicino quella religiosa e che, da un certo punto di vista, si avvicina alla concezione schopenhaueriana della contemplazione estetica.
Come in Schopenhauer «la contemplazione estetica ha due componenti inseparabili: la conoscenza dell’oggetto non come singola cosa, ma come idea platonica, ossia, come forma permanente di tutte le cose della stessa specie [e] l’autocoscienza di chi non conosce come individuo, ma come puro soggetto della conoscenza […]»; così anche per Tarkovskij l’opera e chi la contempla trovano unione in ciò che il regista stesso chiama “ideale”[11]. Ciò che tuttavia distingue la riflessione del regista russo e la rende sicuramente più interessante, è che si frappone un tertium tra l’opera d’arte e chi la guarda, ovvero chi la crea. E allora il rapporto sul piano spirituale si può configurare come un avvicinamento reciproco. Così come chi guarda l’opera d’arte condivide lo sforzo per carpirne l’essenza e, sostanzialmente, proclama un atto di fede nei suoi confronti, allo stesso modo il creatore si dona completamente all’opera. Gli artisti sono «martiri prescelti da Dio»[12] che si manifestano «nell’assoluta fedeltà»[13] (qualcosa di molto vicino alla fede) e che avvicina il percorso artistico alla lenta ma inevitabile ricerca della perfezione, una perfezione che non è mai raggiungibile se non per approssimazione.
A partire da questa chiave di lettura, forse, ci si può avvicinare all’Andrej Rublëv; la ricerca del pittore russo che non si acquieta, la ricerca dell’autentica arte, si avvicina alla ricerca quasi cristica dell’umanità del sacro. Il binomio sacro e umano attraversa l’intera pellicola, ed è esemplificata da due meravigliose passioni messe in scena dal regista russo: la passione del Cristo contadino e la forse ancor più straziante passione del giovane Boris, fonditore di campane. Nel primo caso il Cristo contadino irrompe a dissipare l’apparente contraddizione tra le visioni del divino di Andrej e di Teofane (per il secondo, infatti, “solo l’Uno è il vero”, mentre per Andrej la verità della divinità si può ritrovare anche nella sofferenza umana), ecco allora che il Cristo contadino si fa sintesi: l’uomo sofferente, ultimo tra gli ultimi, tra i miseri, gli uomini disgraziati (la cui malvagità dipende dalla loro ignoranza, che non è irredimibile, ammonisce Andrej) si erge a unico vero mistero divino, l’Uno che appare tra il molteplice imperfetto e corrotto. Nel secondo caso, invece, nel caso del piccolo Boris, il calvario è rappresentato dalla fonditura di un’immensa campana. Boris è figlio di un fonditore di campane morto da poco, e confida agli incaricati del principe di conoscere il segreto della fonditura delle campane. Gli verrà affidato il lavoro, ma se fallirà pagherà con la morte. Andrej lo segue da lontano, in silenzio. Alla fine Boris gli confiderà in lacrime di non conoscere quel segreto, allora Andrej, rompendo il silenzio, gli dirà che da quel momento lui fonderà campane mentre egli stesso dipingerà icone. Il mistero dell’arte si è dunque compiuto. Il processo di creazione artistica si è risolto nel sacrificio estremo (la rinuncia alla parola, lo sfidare la morte): ecco dunque perché l’artista è simile al martire prescelto da Dio, la creazione artistica è un rischio, un rischio che poggia su fondamenta insicure: solo la fede può risolvere l’azione creatrice, solo la fede può dare senso al sacrificio, ma è una fede che sfida la morte.
L’artista non può dire “ho visto, e ho creduto” perché il mistero è sottratto alla vista, e proprio questo rende la creazione dell’opera d’arte degna di esistere. Andrej è un pittore di icone, ma la sua ricerca dell’immagine divina avviene in un mondo dilaniato dalla malvagità umana, dove anche l’omicidio si rende necessario per la salvezza dell’innocente e dove non v’è redenzione nemmeno per gli stolti in Cristo (l’adulazione dei Tartari riuscirà a portar via anche Durochka, una folle vagabonda che Andrej aveva salvato dalla violenza di un soldato tartaro). Accettare di essere artisti significa dunque confrontarsi con la malvagità degli uomini e con le ingiustizie, e dunque la ricerca di Andrej Rublëv è quella di un uomo che si chiede come sia possibile raggiungere lo spirito in un mondo che sembra averlo perso[14]. La ricerca artistica si fa dunque ricerca religiosa, si rende necessario guardare al di là del mutevole per abbracciare ciò che invece è il bello, il buono e il giusto: «L’arte è essa stessa la forma dell’esistenza del bello assoluto e compiuto»[15]. Ma l’uno, per distinguersi dai molti, non deve essere nominato, non deve e non può essere una cosa tra le tante cose, ma deve bensì essere cosa assoluta nella sua singolarità: per questo Tarkovskij ha voluto rivolgersi ad un pittore medievale di icone.
Colui che “scrive” un’icona, l’iconografo, secondo la spiritualità ortodossa, non deve firmare la sua opera, in quanto egli altro non è che un servitore di Dio e la pittura è un servizio, un sacrificio. L’arte diventa quindi una preghiera, un tentativo di render manifesto Dio, la sua gloria, di render visibile per simboli la sua presenza (l’icona rifugge infatti la verosimiglianza naturalistica, che abbasserebbe la gloria divina piuttosto che innalzarla). È significativo che non vediamo quasi mai Andrej mentre dipinge, durante tutta la pellicola l’opera pittorica del maestro russo passa quasi in secondo piano rispetto alla sua ricerca interiore, alla sua vita (mostrata a episodi, come avviene in molte vite dei santi). Sarà solo dopo il pianto di Boris, la sua confessione, che il senso dell’intera vicenda di Andrej (e di ogni artista) sarà chiarito, e il bianco e nero della pellicola lascia spazio al colore e ci mostra diversi dettagli dell’opera pittorica di Rublëv[16]. Morto l’artista resta dunque l’opera e il calvario ha portato a compimento la rivelazione della gloria di Dio. Andrej Rublëv è il simbolo e l’allegoria del creatore dell’arte salvifica che manifesta all’uomo il suo lato spirituale, e che l’avvicina a Dio. La teologia dell’icona bizantina rivive nel film di Tarkovskij, in cui dopo i dolori della vita, dopo la mutevolezza degli avvenimenti, dopo la “passione secondo Andrej” (questo doveva essere il titolo originale del film) l’opera d’arte, nella sua cristica salvezza, può mostrare allo spettatore la verità al di là della mutevolezza delle cose terrene.
Note:
[1] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema, a cura di A. A. Tarkovskij, trad. di V. Nadai, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij 2015, p. 75
[2] Ivi.
[3] Ivi.
[4] «Ciò che mi affascina in maniera straordinaria nel cinema sono i collegamenti poetici, la logica della poesia. Essa, a mio avviso, corrisponde maggiormente alle possibilità del cinema, la più veritiera e la più poetica delle arti». Ibid., p. 20.
[5] Ibid., p. 34
[6] Ibid., p. 35
[7] Ibid., p. 76
[8] Ivi.
[9] A. Scarlato, La Zona del Sacro. L’estetica cinematografica di A. Tarkovskij, Aestetica Preprint, Palermo 2005, p. 19.
[10] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, ed. cit., pp. 41-42.
[11] Ovviamente non si vuole istituire un parallelismo testuale tra le due concezioni. È infatti significativo che il nome di Schopenhauer non appaia mai nel saggio Scolpire il tempo, e faccia la sua comparsa soltanto una volta in Martirologio in riferimento alla percezione condivisa del tempo in quanto sogno (cfr. A. Tarkovskij, Martirologio, a cura di A. A. Tarkovskij, trad. di N. Mozzato, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij 2014, nota del 23 aprile 1978). Si propone, invece, un paragone concettuale. Schopenhauer e Tarkovskij condividono il rimando dell’opera d’arte a qualcosa di altro, qualcosa che è nell’opera ma che rimanda inevitabilmente al di là di essa.
[12] A. Tarkovskij, Scolpire il tempo, ed. cit., p. 51
[13] Ibid., p. 53
[14] Non sembra peregrino accostare la Russia del Quattrocento al mondo contemporaneo di Tarkovskij, un tempo in cui l’uomo moderno viene definito «un impotente spirituale» (Cfr. Ibid., p. 43).
[15] Ibid., p. 46.
[16] «Col cinema è impossibile tradurre la pittura che ha le sue leggi dinamiche e statiche di composizione; abbiamo allora ingrandito alcuni dettagli facendo vedere allo spettatore, in brevi sequenze, quello che avrebbe visto restando delle ore intere a contemplare le icone di Andrej Rublëv. Non ci sono analogie ed è soltanto con la presentazione di dettagli che abbiamo cercato di creare un’impressione di insieme della sua pittura». (Cfr. M. Ciment, a cura di, L’artiste dans l’ancienne Russie et dans l’Urss moderne, “Positif”, 109, ottobre 1969)