Nella crisi, oltre il virus. Karl Marx avrà avuto (futuro passato) qualche buona ragione se oggi…
di Renato Tomba
A inizio febbraio, a tavola Giorgio Griziotti, nel suo discorso (di cui qui[1] una sintesi conviviale) sulla crisi della società nell’attuale fase del capitalismo, poneva una questione radicale: siamo di fronte a una biforcazione della storia – o la rivoluzione globale o la catastrofe planetaria, e se non la catastrofe, una gestione totalitaria del potere (un nuovo fascismo). Non era una profezia, ma l’esito di un’analisi dell’attuale instabilità dell’economia, a dominio finanziario, del sistema-mondo capitalistico, e riferita anche alla circostanza di un eventuale disastro, come una pandemia, cui si fece cenno – in quel momento la diffusione del virus SARS-CoV-2 sembrava ancora solo una realtà relegata in Cina.
Di lì a poco, l’evento apocalittico è diventato cronaca, e il senso di una rottura nel tempo della storia è diventata l’insistente espressione di un immaginario collettivo: nulla sarà, o potrà essere, più come prima, espressione che non ne esclude una declinazione fatalista, o, al contrario, in uno slancio più pragmatico, se ne reclama l’opportunità, l’occasione per “cambiare il mondo”, per un altro possibile, migliore. Un mondo, l’attuale, che un minuscolo patogeno ha smascherato nella sua interna fragilità, non tanto per la virulenza di un agente infettivo, quanto per la macroscopica tossicità di un modo, il nostro, di abitare al mondo. Una rottura quindi necessaria, ma forse non sufficiente, per il nostro “apprendistato” a vivere e a morire, per imparare a riflettere, come ci obbliga l’origine e la propagazione di un contagio virale, sull’intreccio di rete della vita che è la condizione stessa della vita tutta, e del nostro stare al mondo.
Di certo, il futuro non verrà avanti da sé. Ma quale sarà l’esito – rivoluzione o catastrofe, in una qualche forma – è cosa difficile da immaginare, che non può che scontare la nostra costitutiva incapacità di fare previsioni. Al momento, siamo in grado di dire che nell’incontro con un patogeno mortale – negli spasmi della malattia, e del dolore – il rischio del “contagio” ci obbliga a riflettere sull’espressione politica dell’arte di vivere (βίος-τέχνη), su una pratica di cura cui ci richiama la fragilità della vita corporea come a una necessità comune. Un’arte del vivere, quindi, e, con più esattezza, un’arte del vivere insieme, della nostra con-vivenza, che forse richiede una riflessione più critica, perché in effetti c’è da dubitare della comprensione che abbiamo del nostro stare nel mondo, se appunto il nostro modo di vivere – nel processo vitale della riproduzione capitalistica della società – non solo mette a rischio la nostra sopravvivenza di specie, ma registra un impatto crescente, a livello di tutto il sistema vivente, sulla già in corso sesta estinzione di massa.
Un’emergenza sanitaria – in forza di misure di prevenzione del rischio, le misure emergenziali del “confinamento” e del “distanziamento” – ha trasformato in modo improvviso e drastico la nostra vita sociale. La sospensione di fondamentali libertà personali, che lo shock dell’evento ha comportato, è stata diagnosticata, e forse non senza ragione, come l’introduzione di un genere di autoritarismo, per il quale il dominio dell’economia di mercato capitalistica, proprio nel radicarsi a livello biologico della vita individuale, trova un nuovo regime di controllo politico, di regolazione della vita sociale.
La nostra vita quotidiana si è rarefatta, e non senza un certo sconcerto, perché tutto, o quasi tutto, delle condizioni sociali della nostra esistenza, pur nel rispetto precauzionale della distanza corporea, ha continuato a funzionare. Così la gestione della nostra individualità ha assunto una piega paradossale, un carattere oppositivo, non privo di conflitto: la nostra esistenza, nel suo isolamento corporeo, si è affidata per l’espressione multilaterale (economica, lavorativa, culturale, affettiva, comunicativa) delle sue potenzialità vitali all’apparato tecnologico infrastrutturale del capitalismo, e ai suoi assetti proprietari (piattaforme digitali di e-commerce, di social network, di informazione e comunicazione); si è cioè dislocata in un’esistenza virtuale, mediata dai dispositivi della tecnologia digitale, veri e propri spazi materiali della produzione di socialità. Anzi, c’è stata una vera e propria esplosione di momenti di condivisione intelligente, di mobilitazione di competenze cognitive, comunicative e sociali, basate proprio su un libero coinvolgimento soggettivo delle nostre vite. E, tuttavia, nel suo complesso, il mantenimento della nostra esistenza è dipesa, per una sorta di delega sociale forzata, dall’apertura dei luoghi della produzione materiale, una permanente apertura a garanzia delle necessità riproduttive e di cura della vita sociale. Tutto, o quasi tutto, è andato avanti come prima. E niente della socialità degli individui, per la riproduzione sociale complessiva della loro vita, in prevalenza nella sua multiforme esposizione digitale, è rimasto estrano alla messa a valore, al processo di valorizzazione dell’economia capitalista.
Mai così prima d’ora, e in maniera così plastica, si è potuto fare esperienza di quel paradosso che è l’individualità moderna, e proprio in forza di quel periodo di reclusione corporea sperimentato durante l’emergenza sanitaria più cogente. Un senso di straniante consistenza ha pervaso, nella vita del singolo individuo, l’esperienza di stare al mondo: la vita individuale, richiusa in sé stessa, denudatasi della vita sociale, resasi estranea alla sua frequentazione, si è ridotta a misura dell’interesse privato della vita singola; e, tuttavia, la sua espressione sociale non è venuta meno, ma, come attraverso uno specchio, si è liberata solo in immagine, nel simulacro del suo doppio, nell’elaborazione tecnologica dei media digitali.
Quella stranezza non ha nulla di nuovo, è la situazione di esistenza dell’individuo come invenzione della modernità. E per averne un’intelligenza critica basta risalire a Karl Marx, che per primo ha formulato il problema che l’immagine dell’individuo comporta, che ne va cioè della nostra comprensione della società.
Infatti, il protocollo di emergenza dell’«isolamento», un esperimento sociale inedito per la sua dimensione globale, non è stato fallimentare, non tanto per l’efficacia nel contenere la diffusione del virus, quanto per l’ipotesi di fondo cui ha dato corpo: la diffusa immaginazione collettiva con cui si fa riferimento all’individualità di un essere umano. È appunto così che si considera la condizione di esistenza dell’individuo, come un’entità a sé stante, come qualcosa che può esistere indipendentemente dal suo contesto relazionale, dalla tessitura continua di una rete sociale. Se però si parte da questa immagine dell’individualità – dell’individuo isolato – che persegue l’obiettivo di massimizzare la soddisfazione del suo «interesse privato», diventa difficilmente comprensibile quale significato rivesta una società configurata come «società degli individui», quale sia cioè il senso dell’intreccio che tiene insieme individuo e società. A tal punto che, al limite, ne può risultare, a seconda delle posizioni, una «generale negazione» dell’esistenza di uno dei due termini.
Questa difficoltà in Karl Marx viene risolta in una duplice mossa. «Il punto vero e proprio – scrive – sta piuttosto in questo, che l’interesse privato stesso è già un determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto all’interno delle condizioni che la società pone e con i mezzi che essa offre; quindi è legato alla riproduzione di queste condizioni e di questi mezzi» (Karl Marx, 1970, vol. I, p. 97)[2]. Non solo Marx riconduce l’esistenza dell’individuo – «il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione» – alla formazione della società cui appartiene; ma esplicita come l’illusione per l’individuo di esistere come sciolto da un destino relazionale dipenda dal fatto che «lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, la connessione che unisce l’un l’altro si manifesta a loro stessi estraneo, indipendente, come una cosa» (ibid. p. 98). Si tratta di ciò che Marx definisce come processo di «reificazione (o cosificazione) del contesto sociale» – e la «cosa» cui si riferisce, anche un bambino lo sa, è il denaro, il denaro come connettivo generale della società. E, al riguardo, è tutt’altro che tenero nel qualificare la socialità integrale dell’individuo, che si afferma con l’economia capitalistica della società borghese, con «l’universale scambiabilità di ogni cosa»: è un destino relazionale che «si identifica con la venalità e corruzione generali», con «la prostituzione generale […] come una fase necessaria del carattere sociale delle disposizioni, capacità, abilità e attività personali. In termini più compiti si dice: l’universale rapporto di utilità e di utilizzabilità» (ibid., vol. I pp. 105-106). È una banalità, per quanto scandalosa, ma è questa banalità che fa girare il mondo.
Il paradosso dell’individualità è tutto qui: il «contesto di interdipendenza» dell’individuo non entra nella rappresentazione della propria soggettività, perché la sua espressione sociale, che di fatto è un esercizio di potere sulla attività degli altri o sulla ricchezza sociale, quindi «il suo potere sociale, cosi come la sua connessione con la società» – in un’immagine plastica – «egli lo porta con sé nella tasca»; è appunto un potere che si manifesta «come qualcosa di estraneo e di cosale di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. […] Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto forma di una cosa. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone» (ibid. vol. I p. 97-98) – un’operazione, quest’ultima, regressiva a forme di socialità precedenti la costruzione moderna dell’individuo, e il suo contrario non è un’operazione di magia. È il risultato del processo storico della formazione capitalistica della ricchezza della società – che, nella sua forma elementare, si manifesta, si riduce a merce – e la necessità riproduttiva, se riferita all’individuo, viene a dipendere da una modalità relazionale che non si realizza più sulla base di una diretta dipendenza personale (schiavitù o servitù), ma sulla dissoluzione storica di questa modalità; la generale dipendenza reciproca si esprime infatti nella necessità di una «dipendenza materiale» da un «mediatore universale», dal denaro appunto, una cosa su cui si fonda la relativa «indipendenza personale» degli individui. Tuttavia, occorre non dimenticare che «questi rapporti esterni, non che essere una rimozione dei “rapporti di dipendenza”, ne sono anzi soltanto la risoluzione in una forma generale; sono piuttosto l’elaborazione del fondamento generale dei rapporti di dipendenza personali» (ibid., vol. I p. 107). E appunto perciò oggi, semmai, per una crescente moltitudine di individui, è una tasca vuota o, meglio, svuotata il segno evidente della “soggettivazione” sociale dell’individuo, della sottomissione alla «cosa», del medium dominante per mezzo del quale si realizza l’individualità. In tempi di crisi, è un’eventualità non così improbabile, e drammatica sul piano personale. Anzi, da tempo l’estorsione – il togliere dalle tasche quel potere sociale, senza restituirlo sotto forma di bene comune – è eretta a metodo di governo della società, è diventata un processo sistematico di espropriazione funzionale ad accrescere il «potere estraneo» del denaro, al servizio di un’accumulazione capitalista che non sa più come perseguire altrimenti la sua crescita.
L’alienazione dell’individuo moderno non ha nulla quindi di esistenziale, non è riferibile a uno «svuotamento» di una presunta natura umana “al di fuori dalla storia”, anzi, è tutta la produzione della ricchezza stessa a manifestarsi «come alienazione dell’individuo stesso» (ibid., vol. II p. 184) che elabora le condizioni del processo vitale produttivo della società. Ed è qui che Karl Marx si azzarda a delineare un passaggio a una società futura, che comporta la possibilità di uno sviluppo «storico» dell’individuo, una genesi sociale dell’«universalità dell’individuo non come universalità pensata o immaginata, ma universalità delle sue relazioni reali e ideali», e quindi anche «comprensione della sua stessa storia come processo, e scienza della natura (che si risolve altresì in potere pratico su di essa) come suo corpo reale» (ivi). Un passaggio, dunque, che si risolve in un problema di emancipazione dell’individuo e che, al tempo stesso, circoscrive una temporalità del capitalismo, una dinamica interna alla formazione della ricchezza reale. Un problema, che ancor prima che pratico, è logico: è «insulso pensare quella connessione soltanto cosale come una connessione naturale, inscindibile dalla natura dell’individualità (in opposizione al sapere e volere riflessi) e a essa immanente. Essa ne è il prodotto. È un prodotto storico. Appartiene ad una determinata fase del suo sviluppo» (ibid., vol. I p. 104). È in questo suo procedere oppositivo che sta il limite (Schranke), per sua stessa natura, del «contesto di interdipendenza» dell’individuo – «la connessione del singolo individuo con tutti, ma al tempo stesso anche l’indipendenza di questa connessione dai singoli individui stessi». Una condizione che delinea la possibilità di un passaggio storico solo come «tendenza», e si potrebbe dire che è una condizione necessaria ma non sufficiente: «è necessario anzitutto che il pieno sviluppo delle forze produttive sia diventato una condizione della produzione; non che determinate condizioni di produzione siano poste come limite (Grenze) dello sviluppo delle forze produttive» (ibid., vol. II p. 185); e questo è un limite esterno che permane fino a che la partecipazione dell’individuo alla ricchezza generale è solo funzionale al processo di valorizzazione monetaria, in denaro, della produzione capitalistica. In altri termini, persiste fino a che non viene soppressa l’«estraneità» – effettivo limite interno – con cui l’individuo continua a riferirsi «alle condizioni da lui elaborate non come a quelle della propria ricchezza, bensì della ricchezza altrui e della propria povertà» (ibid., vol. II p. 184).
Perché allora la critica dell’individualità è importante? Perché non è possibile comprendere la società attuale senza osservare la «forma oppositiva» della processualità entro cui si costruisce l’individualità moderna – il «lato magnifico» del processo, per tornare al punto iniziale, «sta proprio in questo ricambio organico materiale e spirituale, in questa connessione che si sviluppa naturalmente, indipendente dal sapere e dal volere degli individui, e che presuppone proprio la loro indipendenza e indifferenza reciproche»; ma appunto, se è vero «che gli individui non possono subordinare a sé le proprie connessioni sociali prima di averle create» (ibid., vol. I p. 104), altrettanto non è possibile comprendere quella «forma oppositiva» come «transitoria», come «tendenza» verso una società futura, senza osservarne la conflittualità potenziale che appartiene all’effettiva realtà della vita sociale.
Nel corso della crisi pandemica, la restrizione del contatto sociale è stata criticata come una revoca della libertà individuale, dell’indipendenza personale, una deriva autoritaria iscritta nella gestione politica della vita sociale. In realtà, la situazione di libertà, di una presunta libertà perduta, si presenta così «soltanto a chi astrae dalle condizioni, dalle condizioni di esistenza (e queste sono a loro volta indipendenti dagli individui e, pur essendo generate dalla società, appaiono quasi come condizioni naturali, ossia incontrollabili dagli individui) nelle quali questi individui entrano in contatto» (ibid. vol. I, p. 106). Quella perdita, semmai, non fa che portare allo scoperto nella sua forma più pura il carattere di esteriorità e autonomia del contesto che tiene insieme la società, una connessione sociale che è pari alla necessità della sua riproduzione complessiva. E che è già di per sé di una violenza intollerabile per la limitazione della vita che essa comporta per la maggior parte degli individui. «L’estraneità e l’autonomia – scrive Karl Marx – in cui essa [la connessione sociale] ancora si trova rispetto agli individui, dimostra soltanto che essi sono ancora presi nella creazione delle condizioni della loro vita sociale invece di averla iniziata a partire da queste condizioni. […] Gli individui universalmente sviluppati, i cui rapporti sociali in quanto loro relazioni proprie, comuni, sono già assoggettati al loro proprio comune controllo, non sono un prodotto della natura, bensì della storia. Il grado e l’universalità dello sviluppo delle capacità in cui questa individualità diventa possibile, presuppone appunto la produzione sulla base dei valori di scambio, la quale essa soltanto produce, insieme con l’universalità, l’estraneazione (Entfremdung) dell’individuo da sé e dagli altri, ma anche l’universalità e la versatilità delle sue relazioni e delle sue capacità» (ibid., vol. I p. 104).
Nel tempo della vita sospesa dall’emergenza, questa «universalità e versatilità» dell’individuo ha certo dato prova di sé, e anche, in alcune circostanze, si è espressa in una progettualità condivisa, impronta a tonalità emotive di pienezza. Ma è evidente che c’è una condizione politica mancante nella modalità della nostra convivenza: il processo che mira ad «assoggettare», a subordinare le stesse condizioni della vita sociale a un governo comune, a un «proprio comune controllo» da parte di quel che Karl Marx definisce il «libero individuo sociale» risulta del tutto inattuale. Nell’incidenza del virus sulla nostra convivenza, semmai c’è la traccia dell’esistenza di dinamiche profonde che limitano l’accesso a una comune ricchezza della vita sociale, e generano al contrario un’enorme disuguaglianza nel suo godimento: la diffusione del virus non ha risparmiato gli individui in condizione di “debolezza”, certo per la fragilità della loro condizione di salute, ma più spesso per la loro condizione di estrema dipendenza economica e sociale, quale fattore incidente sulla condizione fisica della loro fragilità, e in ciò non c’è nulla di naturale. La partecipazione sociale della vita individuale continua a essere data da una misura limitata e mediata di una cosa, dall’accesso al denaro, una «astrazione reale», una rappresentazione simbolica e insieme materiale della ricchezza generale: «Il denaro è quindi immediatamente la reale sostanza comune, in quanto è la sostanza universale dell’esistenza per tutti, e nello stesso tempo il prodotto sociale di tutti. Ma nel denaro, come abbiamo visto, la sostanza comune è nello stesso tempo mera astrazione, mera cosa estrinseca, accidentale per il singolo individuo e nello stesso tempo mezzo puro e semplice del suo soddisfacimento in quanto singolo individuo isolato» (ibid., vol. I p. 187).
È difficile dire se già esiste la condizione di potere abolire il denaro, per «avanzare a un livello più alto» di progettualità riflessiva della nostra socialità. Se ancora non è così, significa allora che: «La necessità stessa di trasformare il prodotto o l’attività degli individui anzitutto nella forma di valore di scambio, in denaro, talché in questa forma materiale essi acquistano e attestano il loro potere sociale, dimostra due cose, e cioè 1) che gli individui producono pur sempre per la società e nella società; 2) che la loro produzione non è immediatamente sociale, non è il risultato di una associazione (the offspring of association) che ripartisce al proprio interno il lavoro. Gli individui sono sussunti alla produzione sociale, la quale esiste come un fato a loro estraneo; ma la produzione sociale non è sussunta agli individui e da essi controllata come loro patrimonio comune. Niente può essere dunque più falso e insulso che presupporre, sulla base del valore di scambio, del denaro, il controllo degli individui associati sulla loro produzione globale» (ibid., vol. I p. 100). A mancare è proprio questa «associazione», questa parentela del comune, in grado di esercitare un controllo sulle condizioni di produzione della vita sociale. E tuttavia, per sciogliere il dilemma iniziale, c’è bisogno di sapere fino a che punto la configurazione della vita sociale contiene già i dispositivi, le pratiche materiali e simboliche, da rendere attuale la possibilità di un cambiamento in direzione di un «controllo degli individui associati sulla loro produzione globale». E ciò a tal punto da poter legittimare, su una base realistica, la domanda: che società vogliamo?
Meglio però non farsi illusioni. È vero che l’«estrinsecazione» di una universalità dei bisogni, delle capacità produttive, materiali e cognitive, e in genere dell’espressione sociale della vita, della sua invenzione creativa come tale, ha dato prova di sé durante la chiusura sanitaria. Eppure, tutto questo permane subordinato, attraverso la rete dei sistemi della tecnologia informatica (di comunicazione, di produzione e di distribuzione), a processi di valorizzazione, di messa a valore, più spesso parassitaria, dei sistemi proprietari del capitalismo. Non è venuta meno la dinamica globale di una produzione della ricchezza sociale effettiva, che non continui a provocare un divario crescente nel possesso monetario della ricchezza, tra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. Se c’è un’illusione – un’invenzione – che l’incidenza, la traccia sociale del virus fa emergere, è che non è possibile avere una comprensione del mondo, e immaginarne un futuro, fare cioè affermazioni relative alla realtà, senza farsi carico di come ci stiamo, nel mondo; che non è possibile cioè astrarre «dalle condizioni di esistenza nelle quali [gli] individui entrano in contatto», dalle modalità della loro convivenza. Se poi queste condizioni si presentano «a loro volta indipendenti dagli individui, e sebbene prodotte dalla società, si presentano per così dire come condizioni di natura, ossia incontrollabili da parte degli individui» (ibid., vol. I p. 106), allora stare al mondo, per starci meglio, e anche per essere più felici, è un problema che riguarda tutti. E «ciò che riguarda tutti può essere risolto soltanto da tutti» (Friedrich Dürrenmatt, I fisici) o, per lo meno, è una questione che ci coinvolge in una personale responsabilità politica. La comprensione della “natura” del virus non può essere indipendente da come si interfaccia, da come entra a far parte della società in cui si diffonde – diffusione che si è rivelata, e ancora si rivela, mortifera, in senso letterale. Quindi essere coinvolti nella comprensione del mondo che verrà, significa non solo fare i conti con il tempo, ma anche con le potenzialità che riguardano la nostra capacità di apprendere, di immaginare come starci, e starci bene insieme.
Siamo in presenza di una pandemia che non è la rivoluzione, e forse neanche una catastrofe. Che tuttavia si presenta forse come un punto di rottura, o almeno di interruzione, della “normalità”, e ha il potere di mettere in gioco, in un tempo in apparenza sospeso, la regolarità del mondo. Ha il potere di mettere in discussione i sistemi di riferimento usuali con cui tentiamo di osservare le dinamiche di fondo che presiedono al «ricambio organico materiale e spirituale» della società dentro la natura; ha il potere di mettere in discussione il sistema di idee che collegano la nostra vita materiale alla complessa rete della vita del mondo, entro cui prende forma la nostra convivenza.
Non possiamo sapere in anticipo cosa verrà dopo. Ma non è possibile eludere la domanda su come sia possibile uscire da quei «rapporti materiali che esercitano il dominio» sugli individui, da un sistema di dominio nei cui termini continuiamo a comprendere la realtà, e la realtà della vita sociale. E, più esattamente, come sia possibile allora uscire in pratica dall’illusione che l’indipendenza della connessione sociale – che consiste in quella forma materiale (cosale) che è il denaro, con cui «gli individui acquistano e attestato il loro potere sociale» – possa equivalere davvero a fare riferimento alla complessa realtà effettuale della società. È pur solo sempre un’astrazione, che permette di dare «espressione teoretica» ai rapporti materiali che ci dominano – come il senso di “libertà” che corrisponde a una modalità relazionale materiale (cosale) in cui «i vincoli di dipendenza personale», le differenze, ad esempio, di educazione, «sono saltati, sono spezzati (i vincoli personali si presentano per lo meno tutti come rapporti tra persone). In realtà, quella indipendenza individuale – «che in sé stessa è soltanto e andrebbe definita più esattamente indifferenza» – è solo una parvenza, un’illusione, al più un’espressione accidentale della vita dell’individuo, perché l’individuo singolo nella sua immediata esistenza «può ben superare e subordinare a sé rapporti esterni», e così la limitazione materiale di parte di questi rapporti sociali. Al contrario, «la massa di coloro che ne sono dominati no, giacché il loro semplice sussistere esprime la subordinazione, e la subordinazione necessaria degli individui ai rapporti stessi»» (ibid. vol. I p. 107). È un’astrazione – quella della libertà – che, per quanto normata in concreto, non basta a soddisfare il “desiderio di non essere dominati”, non è in grado di negare la dinamica profonda di un processo la cui totalità «si presenta come connessione oggettiva che nasce naturalmente, che è bensì il risultato dell’interazione reciproca degli individui coscienti, ma non risiede nella loro coscienza, né, nel suo insieme, viene ad essi sussunta» (ibid., vol. I p. 151). Quel processo non si rovescia già nella produzione del “comune, al singolare”, come ciò che “è prodotto” del e nel fare insieme, come espressione della cooperazione umana come tale.
Non è soltanto una questione, per così dire, epistemologica. Del tutto inutile, per altro. Infatti: «se noi non trovassimo già occultate nella società, così com’è, le condizioni materiali di produzione e i loro corrispondenti rapporti commerciali, per una società senza classi» – e cioè una società del «libero scambio tra individui associati sulla base dell’appropriazione e del controllo comune dei mezzi di produzione» – «tutti i tentativi di farla saltare sarebbero altrettanti sforzi donchisciotteschi» (ibid., vol. I p. 101). L’alternativa – o rivoluzione o catastrofe – è un’alternativa, in ogni caso, che è già al nostro «futuro passato». E già ne portiamo la responsabilità dell’esito, in una direzione o nell’altra, per il semplice fatto che «il carattere oppositivo» dell’unità sociale – che abbiamo così bene sperimentato durante l’emergenza pandemica, e che ancor più verrà sperimentato nella crisi economica, sociale e climatica che avanza – non può essere sciolto, «non può essere mai fatto saltare attraverso una pacifica metamorfosi» (ivi). La sua realtà è così insostenibile, e in maniera così crescente, da essere inevitabilmente conflittuale.
Ora, a me sembra che alla fine di questa lettura del testo di Karl Marx, pur così scarna, e certo insufficiente, istigata da una conversazione a tavola, si possa avere una qualche buona ragione per affrontare insieme la fatica di pensare il tempo futuro. E così aprire qualche spiraglio, a cominciare dal mettere in tavola una domanda e, in una modalità conviviale, avviare una conversazione come modo di parlare per imparare a pensare insieme. E a pensare in grande.
La domanda è allora: Come si cambia la società se, così com’è, non basta?
Non c’è risposta facile. Al contrario, ma la domanda, in questa formula un po’ ingenua, è una richiesta di fornire qualche strumento di comprensione – attraverso una pluralità di voci – per riuscire a praticare la difficile arte di una convivenza globale.
Note:
[1] https://youtu.be/1Be0n5UT8Ro
[2] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858 (Gründrisse), Firenze, La Nuova Italia,1968.