Mutazioni dell’Io e verità del soggetto – di Alvise Marin
Alvise Marin
Il pronome personale Io è quello con il quale ognuno di noi identifica se stesso in maniera immediata e irriflessa. In più, noi siamo portati a pensare che questo Io sia il nostro centro, che sia anche fondato in sé e, per dirla in maniera antinomica a Freud, che sia “padrone a casa propria”. Secondo il senso comune, ma anche secondo la psicologia meno avvertita, è da questo Io che si irradiano intenzioni e pensieri, che veicolati da parole e azioni, danno forma al suo mondo. In verità, nel momento in cui, più o meno ingenuamente, ci crediamo un Io e ci identifichiamo in maniera assoluta con esso, siamo degl’impostori. Di più, siamo folli, a leggere la descrizione che dell’Io dà Jacques Lacan: “L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo”[1]. Ma l’uomo ha sempre declinato la sua identità in termini di Io? E quali sono stati gli slittamenti semantici che questa identità ha subito nel corso del tempo?
All’interno della riflessione che l’uomo occidentale ha sviluppato su di sé, l’Io è stata un’acquisizione relativamente recente, propria dell’inizio della modernità, e tale da configurarsi come un surrogato delle forme che l’anima aveva assunto nel corso dell’antichità. Forme che, nella religione greca antica, ad esempio, vedevano l’anima abitata da una schiera di divinità, per cui ogni azione importante che l’uomo greco compiva, era in realtà opera di una potenza divina. Come erano sua opera le stesse decisioni e gli stessi pensieri che questo uomo formulava: “Gli dei si rivelano dunque non solo nei fenomeni della natura e negli avvenimenti in cui si concreta l’umano destino, bensì anche nei moti interiori dell’uomo, in ciò che ne determina il comportamento e l’azione. Nel mondo popolato di dei l’uomo greco, per trovare l’origine dei propri impulsi e delle proprie responsabilità, non guarda all’interno di se stesso, ma guarda all’essere nella sua vastità, e, là dove noi parliamo di disposizione interiore e di volontà, sempre incontra la realtà vivente di un Dio”[2]. Nell’ambito della riflessione filosofica l’anima veniva intesa come sostanza (hypokéimenon), come sostrato permanente delle modificazioni, le quali non ne intaccavano il fondamento. E ancora, in seno alla tradizione cristiana, l’anima come entità semplice e immortale, che sopravvive alla scomparsa del corpo.
È nel XVII secolo con Cartesio che, radicandosi nel cogito e pensandosi nella sua unità sostanziale, ha origine l’Io. Un Io autore dei propri pensieri e delle proprie azioni, dotato di un centro inamovibile ma che, a causa del dubbio iperbolico che svilupperà, avrà la necessità di chiedere l’intervento di Dio, a garanzia che il suo mondo non sia solo una mera illusione.
A partire da Locke, però, l’idea dell’Io in quanto sostanza, comincia a diventare indifendibile. Nel Saggio sull’intelletto umano del 1690, egli dimostra che noi non possiamo presupporre se non delle relazioni tra stati di coscienza, per cui la fondazione verticale del soggetto finisce per diventare una struttura in divenire, un filo temporale che è il filo della memoria: c’è soggetto e quindi identità personale se io ricordo di essere la stessa persona che ero dieci anni fa, ma se questa memoria si interrompe, a causa di uno choc o di una malattia per esempio, io non posso dire di essere la stessa persona di prima. Per Hume questo filo della memoria non sarà sufficiente a garantire la continuità nel tempo dell’identità del soggetto in quanto troppo intermittente e pieno di lacune. Al fondo del soggetto egli troverà solo un fascio di percezioni che non ne garantiranno unità e continuità nel tempo, le quali potranno solo essere il frutto di una finzione, che si chiami essa sostanza, anima, o io. Con Kant ed Hegel il soggetto avrà poi diversi ed esorbitanti sviluppi attraverso la sua articolazione trascendentale e assoluta. Nel pensiero idealistico il soggetto diventa autocoscienza, quindi non è più sostanza ma attività, quella del ricongiungimento della coscienza con se stessa.
L’inconsistenza dell’identità del soggetto, in quanto legata a qualcosa di unico (cogito, memoria, fascio di percezioni, autocoscienza), è un pensiero che si fa strada, a partire dal fallimento dell’idealismo, con Schopenhauer. Egli pensa che esista in noi una forza anonima, un potere senza nome che ci pensa, ci agisce, e non che esista un Io, un soggetto che pensa e agisce fondandosi su se stesso. Per Schopenhauer l’Io è come una voce che rimbomba nel vuoto di una sfera di vetro; questo rimbombo è una completa alterità, è quella volontà di vivere che ci fa agire come i personaggi della commedia dell’arte, in cui abbiamo un canovaccio già tracciato, che dobbiamo riempire con minime variazioni. Quando, “volgendo il lume dell’intelletto verso il nostro intimo, cerchiamo di essere pienamente consci di noi, ci perdiamo in un vuoto senza fondo, come se fossimo in una cava sfera di vetro, dal vuoto della quale rimbombi una voce di cui non sia possibile trovare la causa dentro la sfera; mentre cerchiamo di afferrare noi stessi, non stringiamo, con raccapriccio, che uno spettro inconsistente”[3]*.
Sarà poi il tardo Schelling a contrapporre al cartesiano Io penso (Ich Denke), l’Esso pensa (Es Denkt), dove non sono io che penso, ma c’è qualcosa di impersonale, di neutro in me stesso che pensa, che non sono io.
L’apparizione di Nietzsche sulla scena filosofica sarà un’ulteriore apertura alla dissoluzione di questo Io e del suo supposto primato: “Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione ‘io penso’, ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un ‘io’”[4]. Se per Nietzsche il soggetto cartesiano, declinato come Io, non è più il fondamento del proprio pensiero, del proprio interpretare, in quanto esso stesso prodotto di quell’interpretare, se esso si rivela una mera unità fittizia prodotta da una consuetudine linguistico grammaticale[5] e se l’interpretare stesso non abbisogna di un soggetto che interpreti, allora egli può scrivere che “forse non è necessario assumere un soggetto unico; forse è altrettanto permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta stiano alla base del nostro pensiero e in genere della nostra coscienza”[6].
La pluralizzazione dell’Io si trova espressa anche nella teoria della confederazione di anime dei medici filosofi Ribot, Janet e Binet, con la quale si ribadisce il carattere illusorio dell’unicità monolitica dell’Io. La personalità viene qui pensata come una confederazione di varie anime, una pluralità di vari Io, che si pone sotto il controllo di un Io egemone che le coordina. La nostra identità è solo il risultato instabile del controllo esercitato da questo Io egemone sulle altre anime, controllo che richiede un grande impiego di energia. Per i médecins philosophes, scrive Bodei, “L’io degli individui psicologicamente ritenuti normali è soltanto il più forte, non l’unico. La sua egemonia si basa su un sistema di alleanze e di equilibri psichici costruiti, non naturali, che richiedono un continuo dispendio di energia”[7]
Quando l’Io egemone, di fronte alle sfide che gli vengono portate dall’interno e dall’esterno, si troverà incapace di accogliere in sé una maggiore complessità, la confederazione si scioglierà e la personalità si scinderà in una pluralità di componenti indipendenti e contrastanti. Il risultato non sarà necessariamente il caos centrifugo di una personalità multipla, composta di una molteplicità irrelata di Io, in quanto potrà aversi una riconfigurazione delle relazioni tra quest’ultimi, tale da dar vita ad un certo numero di loro agglomerati, corrispondenti ad altrettante isole di coscienza. In quest’ultimo caso avremo una personalità certamente meno complessa e più debole, ma comunque stabile: “Nella vita psichica le crisi di egemonia non producono mai un vuoto di potere, bensì la dissoluzione di rapporti maggiormente complessi e instabili e il prevalere di una volontà divisa e, perciò stesso, debole ma stabile nella sua frattura”[8].
Ancora Nietzsche, in Genealogia della morale scriverà che è la “seduzione della lingua (e degli errori radicali, in essa pietrificatisi, della ragione), che intende e fraintende ogni agire come condizionato da un agente, da un ‘soggetto’”[9]. L’idea di un Io autore diventa altrettanto artificiale e irrazionale della spiegazione che le persone ignoranti danno del fenomeno naturale del fulmine considerato come la causa di qualcosa di separato, il bagliore, che invece è tutt’uno con esso. Allo stesso modo “la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun ‘essere’ al di sotto del fare, dell’agire, del divenire: ‘colui che fa non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto”[10]. Con questa chiusa di Nietzsche è l’idea stessa di soggetto a venire liquidata.
Se ci volgiamo alla letteratura degli inizi del ‘900, la temperie psichica in cui si trova immerso il soggetto è ben illustrata dal personaggio principale di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello. La raffigurazione unitaria che il protagonista del romanzo, Vitangelo Moscarda, ha di sé, a un certo punto non tiene più e deflagra in un caleidoscopio di identità esogene che le altre persone gli confezionano addosso. La consapevolezza dell’inconsistenza del proprio Io spalanca il baratro sottostante: “non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di fusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà”[11].
Lo specchio diventa cartina di tornasole della sua incapacità di vedersi nel suo proprio essere e dell’artificio che presiede alla costituzione della sua stessa identità: “Non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello di un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto. Io non potevo vedermi vivere […]”. L’inganno della rifrazione dello specchio in cui si identifica il suo Io, vacilla nel momento in cui viene svelato, per un attimo, da un’immagine di sé che egli non riconosce, quale fosse quella di un estraneo: “[…] mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non mi ero prima accorto. Non poté durare più di un attimo l’impressione, che subito seguì quel tale arresto e finì la spontaneità. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando […] Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già quale io mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no”[12].
Anche ne L’uomo senza qualità, di Robert Musil, troviamo la consapevolezza della dissoluzione dell’Io cartesiano. Ulrich, il personaggio principale del libro, pensa infatti che “probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo, ma è in ribasso da secoli, è giunta finalmente all’Io”[13]. Ulrich non si coglie più come il centro delle sue azioni e queste, orfane di un autore, gli accadono e lo sorprendono quasi non gli appartenessero. Eccentrico rispetto ad un centro che non c’è più, egli cerca disperatamente la sua identità nel rifrangersi di questa in innumerevoli ruoli che la società le confeziona addosso. Al centro della sua identità rimane solo un grande buco.
Non è solo in ambito filosofico e letterario che la percezione che l’Io ha di sé tende a mutare irreversibilmente, ma anche in quello scientifico. Il fisico e filosofo Ernst Mach affermava che «l’Io non è un’unità sostanziale, ma soltanto l’unità pratica di elementi sensibili più fortemente connessi tra loro e meno connessi con altri, unità che ha un valore semplicemente orientativo e biologico”[14].
Tutti questi movimenti tellurici sviluppatisi nei confronti della stabilità e della solidità dell’Io, saranno i prodromi di quella scoperta rivoluzionaria che sarà la psicoanalisi di Freud.
Freud, uno dei grandi maestri del sospetto, assieme a Nietzsche e Marx, arriverà a sua volta a smascherare le pretese assolute dell’Io e a spostare il centro dell’uomo in regioni sconosciute dove la sicurezza nel proprio Io viene meno. Per Freud “il povero Io è costretto a servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di mettere d’accordo le loro esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre fra loro discordanti e appaiono spesso del tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l’Io fallisce così frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es. […] L’Io […] è destinato a rappresentare le richieste del mondo esterno, ma al tempo stesso vuole essere il fedele servitore dell’Es, rimanere con l’Es in buona armonia, raccomandarglisi quale oggetto e attirarne su di sé la libido. […] Aizzato così dall’Es, limitato dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui; e si comprende perché tanto spesso non riusciamo a reprimere l’esclamazione: ‘La vita non è facile!’”[15].
Jacques Lacan, verso la seconda metà del ‘900, nel suo ritorno a Freud, proporrà a sua volta una nuova struttura del soggetto, declinandola nei tre registri Simbolico, Reale e Immaginario, assegnando l’Io a quest’ultimo.
Per Lacan, l’essere umano subisce, fin da prima della nascita, un battesimo simbolico. Quando viene alla luce è da subito cooptato in una struttura che lo precede e che segnerà per sempre il suo destino di essere parlante, quella del linguaggio. Il linguaggio apporrà il suo marchio sul corpo di ogni piccolo venuto al mondo, separandolo per sempre dal mondo animale. Infatti, il corpo umano, a differenza di quello animale, è un manufatto culturale prodotto dalle leggi dell’Altro, leggi che sono culturali, sociali, storiche, familiari, mitologiche. In esso il biologico è subalterno alla trama simbolica che si è incarnata ed è quest’ultima che decide della sua esistenza e del suo destino. Mentre il corpo dell’animale è animato dall’istinto, cioè da un programma genetico attraverso il quale l’animale interagisce deterministicamente con il suo ambiente, quello dell’uomo, in quanto nato “a bagno nel linguaggio”, è viceversa il teatro delle pulsioni.
All’inizio della vita del bambino, il suo corpo è pervaso da un godimento autoerotico diffuso, che si appoggia su funzioni naturali quali la suzione, la defecazione o la minzione, le quali però vengono stravolte e messe al servizio di questo godimento autoerotico. Questo stato viene chiamato da Freud Das Ding (la Cosa). La pulsione nasce sullo sfondo dello svuotamento di questo godimento originario, assoluto e pieno, operato da quelle limitazioni imposte attraverso il linguaggio che, come lo svezzamento e l’educazione sfinterica, causano la perdita dell’oggetto (il seno, le feci, il fallo) di questa esperienza originaria di soddisfacimento. La separazione dall’oggetto di godimento, dà vita al corpo pulsionale, ovvero al corpo umano, il quale è dunque un corpo in deficit di godimento. Una volta che questo corpo subisce il taglio simbolico operato dal linguaggio, attraverso norme igieniche e di comportamento, esso viene prosciugato da questo godimento. Questa opera di zuiderzee del godimento è però un’opera incompleta, che lascia sempre un residuo, un cascame di godimento che andrà a polarizzarsi attorno a quello che Lacan chiama l’oggetto piccolo (a), ovvero quelle dislocazioni corporee che Freud indentificava nelle zone erogene orale, anale, genitale, alle quali Lacan aggiungerà quella propria dell’occhio. L’opera è incompleta in quanto il grande Altro (A), con cui Lacan indentifica il registro del Simbolico, è esso stesso strutturalmente incompleto, ovvero contiene una lacuna che non permette al Simbolico stesso, di sussumere in sé la totalità del Reale del godimento, per cui esso viene definito A: “in tal modo ho aggiunto una dimensione al luogo della A, mostrando che come luogo non tiene, che c’è una falla, un buco, una perdita. L’oggetto a funzionerà rispetto a questa perdita”[16].
Il registro del Reale sopra accennato, è quello che contiene ciò che non è simbolizzabile, quelle informità e scabrosità della vita che sfuggono alla presa con la quale la rete dei significanti del Simbolico tenta di ricoprirle, innalzando la costruzione della Realtà, e che talvolta emergono quando la trama simbolica che sostiene l’essere umano si lacera. Il Reale è quel godimento primordiale da sempre perduto, che solo quel suo residuo rimasto dopo il filtraggio simbolico, che è l’oggetto piccolo (a), permette di lambire, attraverso il movimento del desiderio. Godimento che, laddove la figura del desiderio non abbia avuto modo di costituirsi, può far inabissare il soggetto, aspirandolo nella sua spirale mortifera.
È però nel terzo registro, quello dell’Immaginario, che secondo Lacan viene alla luce il nostro Io del quale, ne Lo stadio dello specchio, egli svela la genesi narcisistica. Lacan descrive la condizione di prematurazione in cui si viene a trovare il bambino dopo la nascita, una condizione di inabilità motoria e di dipendenza dal nutrimento dell’altro, vissuta come un caos interiore che genera angoscia. Con un corpo che non ha ancora un’immagine unitaria di sé ma che viene percepito come corpo in frammenti, disarticolato, inerme, in balia delle pulsioni e dell’Altro, incarnato in particolare dalla madre. Questo stadio si colloca tra i sei e i diciotto mesi e coincide con le prime esposizioni del piccolo all’immagine riflessa di sé dallo specchio, spesso in braccio alla madre che, indicando la sua immagine, gli si rivolge dicendo ‘Quello sei tu’, e alla sua reazione giubilatoria. Il bambino riconoscendo se stesso nell’immagine riflessa dallo specchio, inizia a sperimentare una padronanza immaginaria del suo corpo che nella realtà non ha.
L’immagine del piccolo riflessa dallo specchio ha su di lui un’azione morfogena, che gli confeziona addosso un abito immaginario ideale, con il quale egli può rivestire il suo corpo frammentato. Il suo riconoscersi in questa immagine non è però l’esito di una estroflessione del suo Io, giunto a una maturazione tale da rendere possibile questo riconoscimento, ma è il suo stesso Io a costituirsi nella sua fase iniziale grazie a quell’immagine, che può definirsi perciò costituente.
L’immagine speculare narcisistica gli restituisce un’unitarietà, sebbene immaginaria, che il suo corpo ancora non ha. Il prezzo da pagare è quello di alienarsi in questa immagine, un’immagine che da un lato gli dà coesione ma dall’altro lo scinde irreversibilmente in due. Infatti, l’immagine di sé che il bambino incorpora, il bambino non la può essere in quanto è dislocata spazialmente; nello specchio egli “si vede da dove non è e come non è, in altri termini il soggetto si vede come un altro”[17]. Al di qua dello specchio egli è informe disordine pulsionale, al di là dello specchio è immagine narcisistica alienata. Ciò che rende possibile la percezione propriocettiva del suo corpo a partire da quella extracettiva dell’immagine speculare è, come spiega Lacan, l’anticipata maturazione della vista rispetto agli altri sensi. Il soggetto che viene a costituirsi non è perciò riconducibile a unità, in quanto rimane diviso tra il suo corpo reale e la sua alienazione immaginaria presso quell’immagine ideale che, laddove però venisse meno, lo farebbe ricadere nell’inferno pulsionale del corpo in frammenti, ovvero nella schizofrenia, mentre all’inverso, la sclerotizzazione monolitica in questa immagine ideale lo condurrebbe alla paranoia.
A partire da questa prima identificazione immaginaria, tale proprio perché si costituisce a partire dall’alienazione in un’immagine, l’Io andrà progressivamente a stratificarsi secondo un’altrettanta immaginaria serie d’identificazioni, mutuate nel tempo dall’incontro con gli altri Io. È per questa ragione che, scambiare l’Io per il sigillo proprio e originario dell’identità del soggetto, risulta essere una mera finzione, una vera e propria impostura. Se l’Io va costituendosi attraverso la diacronica rifrazione di quegli specchi che gli altri hanno rappresentato per lui, l’idea che esso sia auto fondato, che abbia una sua unità sostanziale e un suo centro, è perciò per Lacan, un’idea folle, in quanto “Io è un altro”, come folle è, da parte dell’uomo, credersi uno Io.
Lo stesso rapporto con quest’immagine ideale, riflessa dallo specchio, è segnato da una profonda ambivalenza. Da un lato l’immagine speculare che fornisce all’Io l’illusoria compattezza, viene erotizzata cioè subisce quell’investimento libidico a causa del quale il soggetto ne è attratto e cerca di aderirvi totalmente. Dall’altro lato però, se il tentativo di coincidere con questa immagine ideale è sempre destinato a fallire, a causa della sua esternalità, della sua dislocazione spaziale, per la quale essa è sempre immagine di un altro, la conseguenza è l’instaurarsi di un rapporto di rivalità nei suoi confronti:
“L’Io appare come una aspirazione, sempre frustrata, a coincidere con la sua rappresentazione ideale. L’impossibilità di farsi Uno, di aderire senza scarti al proprio ideale, la spinta ad abolire la differenza che lo separa dalla sua immagine ideale sempre in anticipo rispetto alla dimensione frammentata del corpo reale, pone l’Io in una relazione di rivalità permanente con l’immagine narcisistica di se stesso che l’inganno dello specchio alimenta”[18]
È da questa impossibilità di colmare lo iato che separa il proprio corpo reale dalla sua immagine ideale e non tanto dalle frustrazioni esterne che, secondo Lacan, ha origine l’aggressività umana. Un’aggressività e una violenza che si indirizzano tanto verso questa stessa immagine narcisistica ideale del mio Io, quanto verso quell’altro più prossimo e più amato, che meglio incarna l’esteriorizzazione di questo Io ideale. Se infatti questa immagine, nel suo dileguarsi, frustra la passione identitaria dell’Io di fare Uno sovrapponendo “il piano dell’esistenza reale e quello della sua rappresentazione narcisistico-immaginaria […]”, condannandolo perciò stesso a rimanere diviso, “[…] l’altro in quanto idealizzazione esteriorizzata e irraggiungibile di me stesso”[19], mi ricorda, nell’inattingibilità di questa stessa immagine, questa condanna. L’amore per la propria immagine si annoda quindi con quella pulsione di morte che vuole distruggerla. La credenza nell’Io e nella sua “sostanza identitaria” stanno alla base dell’esclusione dell’altro. Nel momento in cui il soggetto umano tende ad aderire isomorficamente a questa versione idealizzata di sé che l’Io rappresenta, rischia di diventare un monolite impermeabile all’altro in sé e fuori di sé. Il punto è che, nella migliore delle ipotesi la parte misconosciuta inconscia arriverà a parlargli sotto forma di sintomo nevrotico, nella peggiore che la saldatura attorno all’Io si declini nella forma del delirio paranoico.
Per fare spazio all’alterità fuori di noi è necessario prima di tutto riconoscere l’alterità che c’è dentro di noi, al di là del nostro Io. Questo vuol dire riconoscere che l’Io non esaurisce la soggettività umana, che l’essere del soggetto e la proiezione ideale dell’Io non sono sovrapponibili, che lo stesso soggetto umano è diviso tra questa proiezione narcisistico ideale che è l’Io (moi) e il soggetto del desiderio, ovvero il soggetto dell’inconscio (je). Soggetto dell’inconscio che trae origine dalle marcature che il Simbolico (A) incide sull’informità del Reale del corpo di godimento e dalla loro esclusione dal piano immaginario dell’Io. Esclusione, ma meglio sarebbe dire rimozione, che nasce dalla loro incompatibilità con questa immagine ideale dell’Io.
La stessa dimensione del desiderio umano può declinarsi nel desiderio invidioso dell’Io, ovvero quel desiderio che desidera l’oggetto desiderato da quell’altro che incarna il suo Io Ideale e con il quale instaura una mortifera relazione narcisistico speculare. Oppure nel desiderio come desiderio di riconoscimento, desiderio del desiderio dell’Altro, ovvero desiderio che l’altro mi desideri. Ma perché quest’ultimo si instauri è necessaria la dimensione del linguaggio e della parola che nella sua domanda di riconoscimento rimane sospesa alla risposta dell’altro. Un altro che non è più quello specchio in cui l’Io cerca di intravedere i riflessi di se stesso, ma una vera alterità che non rimanda alcun riflesso narcisistico ma vincola il soggetto e il suo desiderio al riconoscimento che la sua parola può dare. In questo senso il soggetto non è più illusoriamente autonomo dall’altro ma ne dipende profondamente. I marchi che il Simbolico ha apposto sul Reale di ognuno di noi sono la sede del nostro desiderio; riconoscerli significa rimanere fedeli a questo desiderio, quandanche entri in rotta di collisione con il nostro Io.
Anche la letteratura contemporanea avverte l’inconsistenza illusoria di quell’Io a cui attribuiamo la paternità delle nostre azioni. Se Lacan, a partire dal riconoscimento dell’illusorietà dell’Io, cerca la verità del soggetto nella trama simbolica con la quale l’Altro costituisce il soggetto stesso, il personaggio principale del libro di Luke Rhinehart, L’uomo dei dadi, cerca invece la sua salvezza sottraendo al suo Io illusorio, l’autorità e la responsabilità delle sue scelte e consegnando quest’ultime alle combinazioni casuali di un lancio di dadi. Esautorandone la volontà, d’ora in poi saranno i dadi a decidere se egli deve presentarsi come un imprenditore, un giornalista o un senza fissa dimora, se dovrà corteggiare quella ragazza piuttosto che un’altra, se dovrà lasciarsi andare all’inazione o a una febbrile attività, se dovrà continuare a vivere oppure suicidarsi. La sua riflessione sull’Io lo porterà a considerare quest’ultimo una superfetazione, un errore dell’evoluzione, di cui ne sia auspicabile il superamento: “E se lo sviluppo di un senso dell’io fosse normale e naturale ma né inevitabile né auspicabile? Se rappresentasse un’appendice psicologica: un inutile, anacronistico dolore nel fianco? O, come le enormi zanne del mastodonte, un pesante, inutile e, in definitiva, autodistruttivo fardello? Se il senso di essere qualcuno rappresentasse un errore evolutivo disastroso per il futuro sviluppo di una creatura complessa come il guscio per le lumache o le tartarughe? […] Gli uomini devono cercare di eliminare l’errore e sviluppare in loro stessi la liberazione dal senso dell’io”[20].
L’obiezione che può essere fatta a questa delega delle decisioni dell’Io all’oggettività del caso, è quella di instaurare un processo decisionale falsamente casuale. Infatti, rimanendo sul piano dell’Io, la stessa scelta di affidare le proprie decisioni alla casualità di un lancio di dadi, non è generata da quest’ultimi, ma è frutto di una scelta cosciente dell’Io, come pure il ventaglio di opzioni tra cui prendere la decisione. Del resto, i corni della questione non sono tanto la volontà dell’Io e la non volontà radicale del caso, quanto piuttosto il piano inconscio da cui si dipana la necessità del destino del singolo e il caso del disordine immanente del Reale, ed è tra quest’ultimi che si gioca la nostra esistenza.
Il tentativo dell’Io di aderire immaginariamente a una sua versione ideale è quello che descrive anche Nathan Zuckerman, l’alter ego di Philip Roth, nel libro La controvita: “quelli che più sembrano essere sé stessi a me paiono individui che impersonano ciò che pensano potrebbe loro piacere essere, o credono che dovrebbero essere, o per cui desiderano essere presi”[21]. Anche qui l’Io non è l’autore di sé stesso ma la creazione immaginaria dell’altro: “è l’infida immaginazione a creare ciascuno di noi: siamo tutti invenzioni reciproche, e ognuno di noi è un’evocazione evocatrice di tutti gli altri. Siamo tutti autori gli uni degli altri”[22].
Il credere nel proprio Io è preso da molti “talmente sul serio da non accorgersi nemmeno che fare sul serio è appunto la sceneggiata. Per certe persone dotate di autocoscienza, però, questo non è possibile: immaginare di essere sé stessi, vivere la propria vita reale, autentica o genuina, ha per loro tutti gli aspetti di un’allucinazione”. Nathan giunge alla conclusione che non esiste un “me stesso” ma solo “l’innata capacità di impersonare” alcuni Io, interpretando “meglio quello che ti aiuta a cavartela meglio”. Una visione che riduce l’Io all’insieme delle interpretazioni che può fornire, alle parti che il suo teatro interiore gli mette a disposizione: “tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io […] Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio. Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro”[23].
Anche l’arte ha dato conto di questo naufragio dell’Io quale centro univoco dell’identità umana. Tra le opere di tanti artisti che potremmo nominare, ricordiamo i quadri del periodo cubista di Picasso, nei quali la compattezza formale della figura e del volto umani si frammenta e dal suo interno si moltiplicano linee di fuga lungo prospettive divergenti. Si tratta della compattezza dell’Io che va in frantumi, con i tratti della sua fisionomia che si polarizzano lungo molteplici direttrici, giustapposte, legate a un diverso punto di osservazione dell’altro e tali da portare alla luce la sua mancanza di autonomia e unità.
Oppure alcuni quadri di Renè Magritte, come La riproduzione vietata, in cui il soggetto di fronte allo specchio vede se stesso di spalle. Il quadro disvela l’illusorietà di un’identità che si fondi su quell’Io che, come abbiamo già visto in Lacan è, ab origine, prodotto dalla riflessione speculare di un altro. Ma allo stesso tempo rivela al soggetto che guarda la sua verità, scritta appunto alle sue spalle, in quelle parole dell’Altro attorno alle quali il soggetto stesso ha cristallizzato la sua identità e che una volta iscritte nella sua memoria inconscia lo assoggetteranno e lo fisseranno in una o più identificazioni fondamentali, attorno alle quali si costituirà il suo fantasma inconscio.
Le stesse figure disomorfe, le carni sanguinolente e l’orrore del corpo disarticolato presenti nei quadri di Francis Bacon, lasciano trasparire quell’informità e quella scabrosità pulsionale del Reale non simbolizzato, di fronte ai quali l’identità simulacrale dell’Io perde il suo ingenuo statuto di éidõlon.
Per concludere, tenendo sempre la barra nella direzione di Lacan, se l’Io non è Uno, se non è autofondato, se non rappresenta il nucleo sostanziale del soggetto, ma è il prodotto della rifrazione speculare dell’immagine dell’altro e perciò stesso una finzione, nel momento in cui lo si assuma come proprio, allo stesso tempo esso è però necessario. Infrangere lo specchio significa infatti, come per Alice, entrare in un universo psicotico in cui gli oggetti pulsionali del corpo non hanno più un’immagine che funga da contenitore, con il risultato di pervenire a quella disintegrazione corporea propria della schizofrenia. L’unica strada percorribile per il soggetto rimane allora quella di spostare il suo baricentro dall’alienazione immaginaria dell’Io verso la realizzazione di quel soggetto dell’inconscio che sta al di là di esso e che ne costituisce la verità singolare.
Note:
[1] J. Lacan, Il seminario Libro I, Einaudi, Torino 2014, p. 20
[2] W. F. Otto, Theofania, Il Melangolo, 1983, p. 60
[3] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Milano 1991, p. 319
* I riferimenti a Locke, Hume e Schopenhauer sono tratti da un seminario tenuto a Venezia dal prof. Remo Bodei e sono poi confluiti nel suo Destini personali, L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002
[4] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 19814, af. 16, p. 20.
[5] Scrive Nietzsche: “[…] che quando si pensa ci debba essere qualcosa ‘che pensi’, è tuttavia semplicemente una formulazione della nostra abitudine grammaticale, che fa corrispondere a un fare uno che fa”. Cfr. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, 10[158], in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1979, vol. VIII, tomo II, p. 191.
[6] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, 40[42], in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1975, vol. VII, tomo III, pp. 336-337.
[7] R. Bodei, op. cit., p. 57.
[8] Ibidem, p. 72.
[9] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1984, p. 34.
[10] ibidem.
[11] L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Mondadori, Milano 1967, p.62-63
[12] ibidem, p. 21-22
[13] R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, p. 143
[14] E. Mach, Die Analyse der Empfindungen, 19229, p. 23, riprodotta in N. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, Torino 19823, vol. III, p. 676.
[15] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, lezione 31: La scomposizione della personalità psichica, Torino, Bollati Boringhieri, 1969, p. 483.
Ricordiamo sinteticamente che il modello teorico con cui Sigmund Freud disegna l’organizzazione interna della psiche, dal punto di vista topico, si compone di un insieme di sottosistemi con funzioni e caratteri diversi, disposti secondo un ordine che permette di raffigurarli in modo spaziale come luoghi psichici. Quest’ultimi sono l’Es, che comprende i rappresentanti psichici delle pulsioni, l’Io, che è costituito dal complesso delle funzioni collegate alle relazioni fra l’individuo e il proprio ambiente e il Super-io, che deriva dalle esigenze e dai divieti parentali e svolge un ruolo di giudizio e di critica.
[16] J. Lacan, Il seminario, Libro XX, p. 27
[17] M. Recalcati, Jacques Lacan Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 21
[18] ibidem, p. 38
[19] ibidem, pp. 33, 39
[20] L. Rhinehart, L’uomo dei dadi, Marcos Y Marcos, 2004 Milano, p. 138, 139
[21] P. Roth, La controvita, Einaudi, 2010 Torino, p. 387
[22] Ibidem, p. 175
[23] Ibidem, pp. 387, 388