BIENVENUE, COLLASSOLOGIA QUALCHE NOTA INTRODUTTIVA – di Jacopo Rasmi
[La redazione di Altraparola ringrazia Jacopo Rasmi e la casa editrice Asterios per aver permesso la pubblicazione di questo testo. Si tratta di un’anticipazione del libro Collassologia. Istruzioni per l’uso, Asterios Editore, Trieste, 2020]
di Jacopo Rasmi
Sono pazzi questi francesi?[1]
Pur non avendo una curiosità particolarmente francofila, né un interesse accentuato per la scena intellettuale d’oltralpe, la maggioranza dei lettori e delle lettrici conoscerà le avventure di Asterix e Obelix, intramontabile classico del fumetto e fonte di molteplici adattamenti cinematografici. Tra i numerosi ritornelli della saga degli irriducibili galli figurava – come ricorderete – la paura atavica e ricorrente che il cielo potesse fatalmente crollare a terra e mettere fine alla loro esistenza. Dal punto di vista dell’invasore romano, questa bizzarra ossessione segnalava lo scarto (comico) rispetto una cultura straniera che gli autori Goscinny e Uderzo ritraevano in alcuni elementi caricaturali come le pozioni magiche dei druidi o i menhir manipolati dal più robusto dei due protagonisti. L’estraniamento ironico era, beninteso, reciproco. Dal canto suo, la banda di Asterix osservava gli usi ed i costumi dei suoi avversari italici con quella divertita incomprensione che s’enunciava nel celebre motto « Sono Pazzi Questi Romani » : reinterpretazione e travisamento del celebre acronimo « Senatus PopulusQue Romani ».
Quelle note scene si attualizzano, in un certo qual modo, in una serie di fenomeni contemporanei a cui ci siamo andati interessando. Da un lato, troviamo nell’ambito francofono una costellazione di discorsi – con annessi immaginari e tensioni emotive – che esprime la prospettiva di un crollo (effondrement) imminente ed inesorabile non tanto della volta celeste quanto del nostro sistema socio-economico. Il cedimento esiziale e incontrollabile non é qui comandato dalla trascendenza di bizzose entità divine, come temuto da Asterix & co, ma piuttosto scatenato dai limiti e dai processi imprevedibili della natura terrestre, messa sotto pressione da alcuni secoli di sfruttamento sconsiderato. Si tratta del campo intellettuale definito da alcuni dei suoi protagonisti più significativi « collapsologie » ovvero « scienza del collasso »: una declinazione del pensiero e della mobilitazione ecologica che ha preso piede negli ultimi anni tanto nello spazio mediatico quanto nel dibattito politico transalpini. Dall’altro lato, ci imbattiamo in una marcata indifferenza italiana rispetto a queste posizioni che per il momento non sono state importate e tradotte significativamente nel dibattito nazionale. Laddove altre traiettorie dell’ecologia intellettuale e militante francese hanno ricevuto una certa attenzione da parte nel nostro paese (pensiamo ad esempio alla décroissance promossa da Serge Latouche), la « collassologia » resta in una zona di latenza spiegabile solo parzialmente tramite la sua emersione recente.
L’ossessione di una fetta non irrilevante dei nostri vicini d’oltralpe per una fine annunciata della nostra organizzazione sociale e produttiva potrebbe dunque sembrare al pubblico italiano un’irrequietezza alquanto singolare, per non dire bislacca. SPQF: saranno pazzi questi francesi? Fino a che punto si prendono sul serio, i cugini, profetizzando pompe di benzina a secco e supermercati sprovvisti dei più banali prodotti dell’agro-industria? In realtà, invertendo la prospettiva, la beata esclusione delle teorie del crollo sistemico dalla riflessione dei cittadini e delle istituzioni in Italia non può che indicare per qualunque collapsologue d’oltralpe un rifiuto di osservare con onestà la minaccia verosimile di crollo di quel gigante dai piedi d’argilla che è il nostro mondo (moderno, industrializzato, globalizzato). Ma che fanno nello Stivale? Di cosa si discute a Roma? Saranno davvero pazzi questi romani, troppo spensierati o troppo intenti a azzuffarsi su minuzie che l’effondrement spazzerà via senza alcuna pietà? Si litiga per davvero sulla gestione trentennale della rete autostradale quando tra qualche anno questa rischia di diventare inutile a impraticabile a causa della potenziale mancanza di carburante e dell’impraticabilità della produzione industriale di autovetture?[2]
La collassologia varca le alpi
Se prima dell’urgenza virale della scorsa primavera questi problemi ed interrogativi potevano sorprendere o addirittura divertire i lettori e le lettrici italiani, nell’attuale fase post-Covid l’orizzonte di un collasso a catena temuta in Francia acquista una nuova credibilità e tangibilità. Dal tono sarcastico con cui la testata di destra Il Foglio squalificava nel novembre scorso le tesi dei collassollogi giudicati « deriva ecologista », siamo passati a recensioni più caute o accoglienti durante o appena dopo il lock-down su La stampa o Il manifesto[3]. Con pertinenza, le recensioni di questi giornali articolavano precisamente un legame tra l’epidemia in corso e il discorso circa il collasso basandosi sulla comune situazione di perdita di controllo e di orientamento del nostro universo sociale nel ciclone di quella crisi ambientale che stiamo imparando a chiamare « Antropocene ». Ovvero l’epoca in cui sfera umana e sfera naturale si mescolano e compromettono tutte le certezze predeterminate.
Per quanto alcuni epifenomeni della visione incarnata dalla collassologia come il movimento dei Fridays for Future si sono indubbiamente manifestati in Italia, questo ambito di riflessione stenta a varcare l’arco alpino. Per quanto secondo alcuni sondaggi d’opinione la popolazione italiana esprima un netto pessimismo riguardo al futuro collettivo (piazzandosi davanti agli stessi francesi), questa posizione stenta a uscire dalla percezione individuale e a tradursi in un dibattito culturale ed istituzionale di rilievo, generando nuove modalità di vita e organizzazione[4]. Esiste, di conseguenza, un reale necessità di operare una presentazione di questo movimento intellettuale e sociale nel nostro ambito nazionale mettendone in valore le potenzialità e senza trascurarne gli angoli morti – in somma, facendo tesoro di quanto si è già potuto osservare dai suoi sviluppi francesi. L’insieme di concetti, immaginari ed analisi disposti dalla collapsologie costituiscono un armamentario di cui molteplici usi possono essere fatti, con conseguenze politiche differenti. Bisogna pertanto tentare di fornire alcune istruzioni per impadronirsene nella prospettiva di attraversare al meglio e, per quanto possibile, evitare le (auto)distruzioni in corso. In tal senso, la collassologia non può essere intesa come una rivelazione sicura e indiscutibile, ma neppure essere dismessa come un pessimismo infondato. Non si tratta di farsi paralizzare dalla certezza di un crollo venturo del sistema o di osannarlo ciecamente, ma neppure di negarne spensieratamente ogni fondatezza difendendo ad ogni costo (whatever it takes) un mondo insostenibile: come tenta di fare su Il foglio Giulio Meozzi equiparando le teorie del collasso ad una « autoprofezia di un occidente a crescita demografica ed economica zero, surclassato dalle economie asiatiche e dall’immigrazione africana ». Si tratta, piuttosto, di fare di queste teorie del collasso una cartina al tornasole in grado di mettere lucidamente in evidenza dei processi distruttivi inesorabilmente alimentati dal nostro sistema socio-economico e rendere visibili, nel contempo, le forme di vita differenti che fin d’ora nutrono, all’interno stesso di questi collassi, delle prospettive più desiderabili e sostenibili.
Nell’attesa che l’insieme dei testi più significativi del movimento collassologico siano direttamente accessibili in italiano, ho redatto un breve pamphlet che ha l’ambizione di costiture non tanto un testo di collapsologie all’italiana, quanto piuttosto un testo su di essa e con essa. Esso ha rielaborato e constualizzato una serie di riflessioni condivise con il teorico Yves Citton nella stesura del saggio Générations Collapsonautes pubblicato la scorsa primavera sulla soglia di quella crisi pandemologica che ha rilanciato in modo cruciale il dibattito intorno alle inerzie più pericolose di un mondo, il nostro, destinato a prospettive di fragilità e disgregazione (ma anche reinvenzione) difficilmente negabili[5]. Questo articolo si limita a riprendere qualche linea di queso discorso invitando a approfondirne le implicazioni nella galassia di interventi (nostrani, tradotti e da tradursi) che definiscono, riconfigurano e criticano quell’orizzonte teorico e militante che chiamiamo, per il momento, collassologia. I motivi e le voci del movimento francofono della « collassologia » hanno iniziato a lambire lo Stivale nel corso dell’ultimo anno, benché diversi complici anglofoni di questa corrente di pensiero siano già apparsi da diversi anni sulla nostra scena culturale. Notavamo che probabilmente l’esperienza del Coronavirus intervenuta nel frattempo non farà che accelerare l’interesse per queste posizioni assopite nei margini del dibattito politico ed ecologico italiano, al pari di quanto accaduto oltralpe dove l’epidemia a rilanciato questo tipo di discorsi[6]. a causa di un fattore vivente imprevedibile e incontrollabile – il virus, in questo caso – non assomiglia forse ad una sorta di « prova generale » delle probabilità di collasso analizzate dai collapsologues? Arrivato di recente sui nostri scaffali grazie all’editore Treccani, uno dei testi chiave della corrente collassologica, Un’altra fine del mondo è possibile del trio Pablo Servigne, Raphaël Stevens e Gauthier Chapelle, sembra aprire le danze e comincia ad arroventare una discussione ben nota oltralpe tra osservatori scettici, analisti cauti e appassionati sostenitori. Per quanto su La Stampa Massimo Panari definisca « franco-francese » questo fenomeno con un tono un po’ sprezzante, le domande poste dalla collassologia – qualora ben soppesate e discusse – indicano dei processi propri ad un sistema economico-produttivo in cui è radicalmente invischiata la realtà italiana al pari della maggior parte delle nazioni di questo mondo globalizzato. Volente o nolente, essa non è esentata dal chiedersi fin d’ora cosa sia mai la collassologia e sopratutto cosa se ne possa fare collettivamente: come si manifesti altrove e come potrà esser impiegata qui.
Un fenomeno mediatico
Due anni fa circa, prendendo la metropolitana di Parigi ci si poteva imbattere, tra il suo folto labirinto di cartelli pubblicitari, nella campagna di promozione del testo Une autre fin du monde est possible (2018). Questa pubblicità su larga scala che avrebbe tuttalpiù incuriosito un occasionale turista italiano ignaro del crescente interesse per la collapsologie nell’Esagono francese, per un osservatore attento della scena intellettuale transalpina avrebbe potuto confermare la dimensione ormai esplicitamente popolare assunta dai discorsi sul collasso sistemico. Solamente in questi termini si può spiegare un tale lancio dalla parte della casa editrice di Servigne & co, ovvero Le Seuil, per un saggio di teoria ecologica destinato in genere ad un publico più ristretto e sensibilizzato. L’aspetto sociologico e mediatico dello sviluppo della collassologia rappresenta, in tal senso, un aspetto essenziale del fenomeno, da prendere in considerazione al pari dei contenuti di questa disciplina. Un’aspetto che, di certo, beneficia di una crescita più trasversale dell’interesse per le questioni ambientali nel mondo contemporaneo.
Uscendo dalla medesima metro alla stazione Châtelet-Les Halles per fare un giretto alla FNAC – grande catena di prodotti culturali e elettronici – saremmo capitati l’anno scorso al cospetto di una selezione di testi raccomandati dai librai dedicata precisamente alla vena collassologica. Dei cuoricini di carta applicati sulla copertina di una serie di volumi dedicati alle minacce di crollo del nostro sistema indicavano i « coups-de-cœur » (ovverosia « i preferiti ») dei responsabili della sezione editoriale. I librai intercettavano e incoraggiavano una sensibilità emergente da parte del pubblico generalista per la problematica del collasso, promuovendo la lettura di best-seller eterogenei come Pourquoi tout va s’effondrer del giovane Julien Wosnitza, Devant l’effondrement. Essai de collapsologie di Yves Cochet, membro storico del partito dei Verts, o ancora Le champignon à la fin du monde dell’antropologa statunitense Anna L. Tsing. Tra questi titoli che hanno scalato le classifiche delle vendite francesi, troviamo anche alcuni titoli d’origine anglofona che, a differenza degli altri libri citati, conoscono una circolazione italiana come 1177 a. c. Il collasso della civiltà di Eric H. Cline o Collasso di Jared Diamond, entrambi tradotti nel 2014 in Italia[7]. Anno di pubblicazione di un testo emblematico della vena survivalist dell’ambito collassologico come Sopravvivere al collasso economico di Piero San Giorgio.
Ma probabilmente sarebbe più opportuno frugare altrove, in regioni più pop della cultura di massa, per misurare la temperatura di questa infatuazione collettiva per le tematiche del collasso. Ad esempio, che intorno all’universo collassologico siano state prodotte due serie audiovisive, ciò costituisce un’ulteriore ed eloquente conferma dello statuto socio-culturale acquisito. Innanzitutto, ci riferiamo alle due stagioni di una forma seriale di impostazione giornalistica e documentaria, Next. À la rencontre des collapsologues (2017-) di Clément Monfort, che sono state realizzate attraverso una campagna di finanziamento participativo e distribuite attraverso la piattaforma YouTube[8]. La creazione indipendente di Monfort – capace di attirare centinaia di migliaia di utenti e di generare diversi epigoni – si basava sul presupposto di una scarsa attenzione mediatica per questi approcci ed i loro portavoce, un’esclusione spiegabile a causa del loro pessimismo critico rispetto al sistema economico che foraggia abbondantemente la rete dei mass-media. Un punto di vista parzialmente smentito dalla seconda serie menzionata, L’Effondrement (2019) del collettivo Les parasites: una fiction seriale del genere film d’azione cha ha beneficiato della produzione e della diffusione di un media di massa come Canal Plus, importante gruppo televisivo a pagamento equivalente della nostrana Sky[9]. Lo sposalizio di una corrente di pensiero ecologico ormai alla moda e di una forma culturale in voga come la serie non può che ratificare la constatazione iniziale: la collapsologie è un fenomeno mediatico di portata sempre più significativa e trasversale. Il che significa che, da un lato, le sue tematiche si prestano spontaneamente a diverse logiche virali e spettacolari dell’infrastruttura di comunicazione e, dall’altro, il suo impatto sociale è – inevitabilmente e imprevedibilmente – amplificato in modo determinante da quest’ultima.
Si perde il conto delle iniziative riguardanti gli interrogativi posti dall’orizzonte di un esaurimento radicale e rapido del nostro modello di civiltà. Le conversazioni scritte e filmate con i collapsologues di riferimento come Pablo Servigne o l’ex-ministro dell’ecologia Yves Cochet (a capo dell’influente Institut Momentum) fioriscono dappertutto[10]. Fra quanti anni il sistema rischia di crollare? Quali sono i punti di fragilità più sensibili del nostro sistema socio-economico? Come vivremo dopo, o meglio durante, il suo collasso? Le domande ricorrono in modo ossessivo, la folla variopinta degli esperti che tentano di rispondere con più o meno precauzioni si infoltisce (filosofi, agronomi, politici, scienziati, ex-banchieri, sociologi…) e la collassologia fermenta così sugli schermi, nelle librerie, nelle edicole. La massa dei documenti prodotti dal movimento collassologico incomincia ad essere talmente imponente che si tenta di incanalarla perfino in una piattaforma che recensisce e archivia le fonti interessanti: il portale collapsologie.fr.
Un movimento critico
Ma chi sono e di cosa vanno discorrendo i collassologi francofoni? In realtà lo spettro delle correnti che il campo della collassologia riunisce – dalla vena survivalist fino alle zone autogestite, le cosiddette ZAD, andando da destra a sinistra dello spettro politico – risulta estremamente variegato. Eppure una certa analisi di fondo percorre e collega in modo trasversale questa costellazione di teorie e pratiche. Innanzitutto, un elemento aggregatore ed identificatore fondamentale è di natura lessicale: ci riferiamo nello specifico al termine « effondrement ». Da alcuni anni, il vocabolo – con i suoi derivati – ha acquisito un significato sempre più preciso che oltrepassa le sue occorrenze semantiche comuni: crollo, cedimento, distruzione… Da parola generica, esso passa a concetto tecnico che condensa una certa maniera di riunire e presentare l’insieme di problemi ecologici a cui siamo confrontati dall’epoca contemporanea: riscaldamento atmosferico, desertificazione dei suoli, scarsità delle risorse fossili… A tal proposito, non si tratta più di parlare di « crisi » ambientale (ovvero di una fase di difficoltà acuta ma momentanea), né di « disastro » (come se la criticità fosse generata in modo casuale ed esterno da una congiuntura « astrale » malevola) e neppure di « catastrofe » (un evento subitaneo che – etimologicamente – sovverte l’esistente) o ancora di « incidente » (una circostanza localizzata e temporanea). Si parla invece di « effondrement » o, in modo analogo, di « collapse ». Un’espressione, quest’ultima, ripresa dall’ambito anglofono che corrisponde alle scelte di traduzione in ambito italiano di diversi testi dell’area collassologica importati di recente. Ciò che accumuna il termine « effondrement » (traducibile letteralmente come « sprofondamento ») e « collasso » è sostanzialmente l’idea di un caduta integrale et interrelata degli elementi che costituiscono una certa struttura. Che essa sia organica, architettonica oppure socio-economica, essa si ritrova in un impossibilità improvvisa di funzionare, in un corto-circuito totale che la trascina verso il basso disgregandola. La radice latina del vocabolo – participio del verbo « collabi » – composta da « cum » et « lapsus » indica quindi un cedimento solidale, un crollare insieme. In sintesi, l’effondrement evoca dunque un processo di cedimento della nostra struttura socio-economica: a) generalizzato b) simultaneo, c) dovuto a rapporti interni complessi di interdipendenza delle sue componenti, d) nonché imputabile ad una negligenza – volontaria o involontaria – rispetto alle proprie zone di fragilità e insostenibilità.
La « collassologia » rappresenta quindi l’insieme delle ricerche e dei saperi che si interessano alle possibilità ed alle modalità di un crollo trasversale della struttura socio-economica che regge la nostra società (industriale, mondializzata, modernizzata). E che si interrogano, nel contempo, su quali prospettive conseguiranno da un tale evento. L’autorevole vocabolario Treccani che ha di recente (2020) incluso nella sua rubrica di neologismi questa « scienza del collasso » (per parafrasare il termine francofono) ne riassume l’ambito disciplinare come « corrente di pensiero che studia i rischi di un possibile crollo della civiltà industriale e del suo impatto sulla società »[11]. Il già citato esponente di riferimento di tale corrente di pensiero Pablo Servigne definisce il « collassologo » come « qualcuno che si interesse al collasso [effondrement] della nostra civiltà e che tenta di raccogliere delle prove, delle cifre, dei fatti… Delle ipotesi e degli scenari riguardo a ciò che sta succedendo e che potrebbe succedere »[12]. Lo studio di queste condizioni di vulnerabilità e dei loro effetti potenziali si presenta in generale come una disciplina certo eclettica, ma a vocazione scientifica. E, pertanto, si nutre di abbondanti studi passati e presenti che oggettivano con grafici e calcoli i processi di fragilizzazione dei nostri sistemi sociali e ambientali: dai rapporti del Club di Roma a quelli dell’Intergovenmental Panel on Climate Change[13]. In realtà, l’oggetto di studio centrale per gli esperti del collasso non è tanto il crollo di una civiltà umana in generale, ma piuttosto la scomparsa della nostra – quella moderna, termo-industriale[14] – messa in scacco dai problemi ecologici di cui sarebbe contemporaneamente responsabile e vittima. L’interesse vivo per altre situazioni storico-geografiche di rapido tramonto di un certo sistema socio-economico – dalle comunità primitive a quelle amerindiane – risulta di conseguenza relativo alla comprensione e alla previsione di ciò che implica il nostro contesto attuale.
Alcuni caposaldi costanti – si diceva – possono riassumere questo modo di analizzare la crisi ambientale della nostra civiltà e le sue prospettive di cedimento strutturale. Quali sono dunque tali fili che tessono la trama comune del discorso collassologico?
1) Il modello di sviluppo economico e socio-politico che ha storicamente garantito il dominio materiale e simbolico delle potenze « occidentali » in un contesto sempre più globalizzato riposa su un « estrattivismo » alla lunga insostenibile. Per « estrattivismo » si intenda l’attitudine a estrarre e sfruttare le « risorse » terrestri necessarie alla società industriale senza preoccuparsi né del loro rinnovamento naturale né delle conseguenze distruttrici sugli eco-sistemi implicati[15]. Di questo processo sono le conseguenze fenomeni come il cambiamento climatico, l’esaurimento delle risorse fossili o ancora la riduzione vertiginosa della biodiversità.
2) I nostri sistemi di produzione e distribuzione sono sempre più complessi ed intricati. Il loro funzionamento sincronizzato e interdipendente su scala planetaria genera delle debolezze estremamente difficili da prevedere e controllare. Più i circuiti di approvvigionamento si allungano, più i rischi di reazioni a catena e di effetti domino si moltiplicano – fuori dalla portata dei meccanismi istituzionali e scientifici di decisione.
3) La probabilità di un corto-circuito ad ampio raggio, a partire dell’incidente come quello di una interruzione importante della distribuzione di carburanti fossili, cresce insieme a quella conseguente di un collasso sistematico delle infrastrutture che garantiscono la soddisfazione dei nostri bisogni fondamentali.
4) Visto l’importante tasso di urbanizzazione della popolazione mondiale – dipendente da tali infrastrutture per l’approvvigionamento quotidiano d’acqua potabile, alimenti, elettricità o riscaldamento – un tale collasso provocherebbe a breve termine delle penurie preoccupanti, responsabili potenziali di situazioni incontrollabili di panico, predazione o auto-difesa.
5) Malgrado l’esempio di carestie drammatiche o guerre civili nella storia recente, immaginare le conseguenze di tali avvenimenti sul medio e lungo termine risulta difficile. In effetti, la maggior parte della popolazione dei nostri paesi non ha mai conosciuto tali situazioni di penurie e tensioni sociali estreme. I risultati devastanti di simili contesti e l’impatto mortale su frange importanti della nostra società sarebbero altamente probabili.
Il ritratto del collasso annunciato da questa convergenza teorica e critica che chiamiamo collassologia è poi precisato in numerose coniugazioni specifiche dai numerosi protagonisti di questo campo disciplinare. Vi è, ad esempio, chi come Dmitry Orlov indica sulla scorta dell’esempio sovietico un crollo concatenato di cinque componenti del nostro sistema socio-economico : quello finanziario (vedi quanto avvenuto temporaneamente nel 2008) ; quello commerciale (mancanza di beni e mezzi di pagamento) ; quello politico (indebolimento delle istanze di governo) ; quello sociale (svuotamento delle istituzioni di organizzazione e mediazione della vita collettiva) ; quello culturale (azzeramento dei sistemi di valori e delle strutture relazionali consolidate)[16]. Dal canto suo, il già citato Yves Cochet, una delle figure più in vista dell’effondrement francofono, descrive cinque processi di trasformazione scatenati da questo genere di eventi : diminuzione della stratificazione sociale verso collettività più omogenee e ugualitarie (in termini etnici e di classe) ; riduzione della specializzazione delle professioni e dei territori, verso configurazioni più polivalenti e elastiche ; semplificazione delle reti di distribuzione e comunicazione ; rilocalizzazione e decentralizzazione dei dispositivi istituzionali ; uno spopolamento dovuto ad un abbassamento della densità delle popolazione[17].
Un dibattito politico
Al fianco dei diversi schemi teorici che incarnano e declinano la prospettiva concettuale dell’effondrement, la collassologia si presenta come un fenomeno sociologico non trascurabile che intercetta e precipita delle tensioni critiche e affettive più generali nei confronti della nostra organizzazione socio-economica. Essa pare incarnare e radicalizzare un sentimento diffuso di esaurimento ed insostenibilità del sistema produttivo e geo-politico moderno e occidentale che si condensa nella prospettiva di un crollo imminente, ineluttabile e trasversale. Dal riscaldamento climatico alle inarrestabili migrazioni umane, passando dalla scomparsa di innumerevoli specie animali ed i preoccupanti periodi di siccità, paiono incessanti le manifestazioni del collasso venturo nel presente vissuto dalla maggior parte di noi. Dalle mobilizzazioni giovanili del Friday for Future alla rete degli eco-villages volti alla costituzione di collettività autonome e rispettose dell’ambiente, la collassologia innerva più o meno esplicitamente una serie incipiente di movimenti e gruppi sociali. Che alcuni dei suoi membri più noti come Pablo Servigne e Raphael Stevens siano stati ricevuti al ministero dell’economia francese o che l’ex-presidente Nicolas Sarkozy abbia fatto pubblicamente riferimento ai testi collassologici di Jared Diamond accompagnato in seguito dall’attuale primo ministro Édouard Philippe, sono segnali significativi dell’infiltrazione di questi motivi anche ai vertici delle istituzioni di governo. In Francia, per lo meno.
L’esplosione dell’interesse e dell’influenza della collassologia nell’orizzonte sociale e mediatico ha alimentato una preoccupazione crescente che essa si trasformi in un’ossessione politicamente improduttiva, se non francamente nociva: una sorta di cieca « collassomania ». Diverse critiche hanno cominciato ad articolarsi con l’intenzione di mettere in evidenza i limiti di questa rappresentazione dei limiti del nostro sistema. Alla battaglia degli esponenti dell’effondrement contro il suicidio in corso della nostra società si deve aggiungere dunque l’altra battaglia che si arroventa intorno e contro il campo stesso delle collassologia. Nel migliore dei casi per rettificare la postura di un movimento promettente, nel peggiore per eliminare gelosamente un concorrente sempre più ingombrante sulla scacchiera della contestazione o un uccello del malaugurio che rischia di mettere i bastoni tra le ruote dell’ordine dominante[18].
Quali sarebbero dunque le zone d’ombra delle teorie del collasso? A quali linee di debolezza bisogna prestare attenzione muovendo, qui in Italia, i primi passi sul terreno instabile di questi discorsi? Elenchiamo rapidamente alcune tra le principali critiche che ci mettono in guardia sugli angoli morti del discorso adottato dai collapsologues, senza focalizzarsi sul segno di queste accuse che possono provenire tanto da posizioni sulla cosiddetta destra dello spettro politico quanto da posizioni di sinistra.
1) La collassologia non è che una pseudo-scienza, che si basa su un discorso seducente ma in larga parte infondato e refutabile. È il caso delle riflessioni dello studioso ecologista Daniel Tanuro riguardo ai vizi delle celebri teorie di Jared Diamond sulla scomparsa di alcune civiltà umane costruite a partire da un punto di vista surrettiziamente neocoloniale[19]. O ancora dell’accademico tolosano Jacques Igalens che, pur riconoscendo l’interesse culturale e politico del « concetto » di collasso, mette in dubbio la capacità della collassologia di costituire un sapere scientifico che manipola e articola in modo appropriato studi basati su presupposti disciplinari diversi[20].
2) La collassologia rinnova un’annosa incapacità a prendere in considerazione le evoluzioni tecnologiche ed il loro impatto sul corso degli eventi. Il crollo annunciato, da questo punto di vista, potrebbe essere schivato da scoperte scientifico-tecniche che non sono prese in considerazione da questo discorso critico. Ad esempio, l’imprenditore e polemista Laurent Alexandre accusa di una tale cecità tecnofoba i partigiani del collasso facendo riferimento ad un episodio dell’inizio del secolo scorso: « Nel 1915 il Times, in un accesso di collassologia apocalittica, affermò che Londra sarebbe soffocata a causa dei diversi metri di sterco di cavallo che si sarebbero accumulati entro il 1920. Londra sarebbe diventata invivibile. Come noto, tale previsione fu emessa 6 mesi prima della comparsa dell’automobile. »[21]
3) La collassologia esprime un punto di vista prettamente antropocentrico. Il collasso futuro di cui si preoccupano gli adepti dell’Effondrement è sostanzialmente quello subito della popolazione umana e il problema da risolvere diventa innanzitutto quello della sopravvivenza della specie. I crolli drastici di altre popolazioni di esseri viventi in corso oppure già compiuti non sono che un corollario minore della scadenza ben più preoccupante dell’estinzione umana, un vero a proprio tabù. Si tratta del punto di vista riassunto da Antonella De Biase nel presentare il discorso collassologico: « Volendo fare un discorso individualista, che a quanto pare è la nostra specialità culturale, il punto potrebbe essere non tanto salvare la biosfera ma noi stessi »[22].
4) La collassologia costituisce una preoccupazione sostanzialmente occidentale. Ad un livello geopolitico e sociale, la minaccia ipotetica di una fine del mondo sbandierata dai collasologi esclude di fatto le centinaia di milioni di esseri umani che già vivono nelle condizioni catastrofiche che temiamo per il post-collasso nei paesi più ricchi: mancanza di acqua potabile, precarietà alimentare, accesso difficile all’energia elettrica, reti di trasporto fragili… Ciò costituisce uno dei perni del ridimensionamento del fenomeno collassologico che lo storico delle scienze e dell’ambiente Jean-Baptiste Fressoz propone[23].
5) L’approccio della collassologia privilegia una prospettiva scientista e verticale, incapace di situarsi all’altezza delle realtà sociali e delle diversità culturali. Il discorso collassologico indica e prova la prospettiva determinista di un crollo sistemico a livello sociale essenzialmente attraverso dati quantitativi, studi fisici e ricerche di scienze naturali. A tal riguardo, i ricercatori Bénédicte Zitouni e François Thoreau sottolineano che il sapere collassologico prende vita in ecosistemi intellettuali poco radicati nello specifico e nel concreto delle realtà socio-politiche e volti pituttosto a approci geestionali verticali: si vedano i già citati gruppo intergovernamentale IPCC o Club di Roma. Questi dispositivi al servizio di strutture gestionali pubbliche e private sarebbero responsabili a loro avviso di « produrre delle narrazioni senza popolo e senza divenire particolari »[24].
6) Come effetto più o meno collaterale, la collassologia contribuisce a sua insaputa a rendere desiderabile il consumismo industriale. Se questa disciplina e le sue voci beneficiano di una tale copertura mediatica e di un certo interesse dei dirigenti politici, non è forse a causa della sua compatibilità con l’ideologia dominate ed il suo sistema di valori? Considerare la (dolorosa) estinzione della società termo-industriale come un disastro equivarrebbe a confermare e rinnovare in extremis la sua desiderabilità e dunque difenderne il funzionamento ad ogni costo, compreso quello dell’autodistruzione generale.
7) La collassologia è una pietanza (vegana) di lusso che si serve alla tavola delle classi privilegiate. Quasi esclusivamente i settori sociali più abbienti e istruiti hanno il tempo, l’interesse ed i mezzi per discutere e preparare la sedicente « fine del mondo ». In tal senso, lo storico delle idee ecologiche Pierre Charbonnier rileva una disuguaglianza fondamentale sottolineando che : « Se tutti si ritrovano nelle condizioni di temere per il proprio futuro e quello dei loro cari, solamente coloro che per eredità o dopo avere mollato tutto il resto hanno accesso a un terreno agricolo e le competenze per metterlo a frutto potranno adattarsi alle nuove situazioni. »[25]
8) La collassologia demoralizza la gioventù. Ovvero i discorsi sull’Effondrement sono impregnati di un disfattismo e di un pessimismo che sviliscono le energie e le prospettive delle nuove generazioni. Come dichiara il già menzionato Laurent Alexandre nel suo intervento su ThinkerView: « Abbiamo bisogno di un discorso ecologista ragionevole che eviti di spingere tutti i ragazzini al Prozac nei prossimi 5 anni ».
9) La collassologia separa i suoi seguaci, dal momento in cui si appoggia su affetti di paura che dissolvono i legami prestabiliti et nutrono prospettive individualiste. Si salvi chi può! I discorsi tragici del collasso alimenterebbero un clima di angoscia, panico e competizione, piuttosto che nutrire in modo costruttivo e razionale delle reti di solidarietà che preparano i cedimenti in procinto di prodursi. Sempre Bénédicte Zitouni e François Thoreau, a tal proposito, affermano con un tono critico: « La collassologia genera degli esseri nudi, strappati a quanto tengono, a ciò che loro importa. È responsabile di un’operazione di infantilizzazione affettiva che, essa sola, le permette di creare i cittadini ignoranti e sprovveduti di cui ha bisogno ».
10) La collassologia inibisce la mobilitazione politica, dato che spinge ad un adattamento ad un peggio considerato inevitabile piuttosto che all’organizzazione collettiva per evitarlo. Dal momento in cui la catastrofe è presentata come un evento fatale ed irreversibile, i margini di attivazione politica per contrastarla in nome di una società alternativa sono annullati. Conta poco, in fin dei conti, che il collasso sistemico sia considerato come un disastro doloroso o una liberazione benedetta. Tale punto di vista è espresso, ad esempio, dalla filosofa ambientalista Cathérine Larrère : « La situazione di costante catastrofe imminente ci incita più a non cambiare i nostri comportamenti che a investire tutta la nostra energia per affrontare le tendenze insopportabili della società »[26].
11) La vocazione ecumenica della collassologia vorrebbe aggregare tutte le lotte ecologiche in un’unica zuppa depoliticizzata, riducendole a questioni troppo vaghe e consensuali per produrre conquiste concrete. Tanto la causa generica e ingenua del « salvare il mondo » quanto l’immaginario millenaristico di una fine del mondo, senza dimenticare il miraggio di un’abolizione automatica dello sfruttamento capitalista o ancora di un ritorno ad una vita cosiddetta autentica, allontanano i collassologi dalle lotte politiche – precise, situate e presenti – da cui dipende il nostro futuro collettivo.
12) Nella collassologia un certo animo spiritualeggiante dal sapore New Age tende a prevalere sull’impegno politico in conflitti sociali ben identificati. Una certa vena naïf del mondo collassologico tende a vivere la sua adesione a questi discorsi su un piano prettamente interiore e individualizzato che evita di prendere in considerazione le battaglie collettive in corso come di farsene carico. Tale critica è espressa, ad esempio, da Pierre Charbonnier che dichiara: « come quei born-again intrisi di colpevolezza che si riconciliano tardivamente con il Cristo, i lettori [di Pablo Servigne] sono condotti dallo stupore alla consolazione o, più prosaicamente, dell’universo di Mad Max a quello quello de La casa nella prateria. […] Noi sappiamo già che le crisi ecologiche non fanno che aumentare la rarità, la competizione, le diseguaglianze. Ai cataclismi climatici deve dunque rispondere una riflessione sugli strumenti contro questi fenomeni, sui nostri mezzi di realizzare delle nuove domande di giustizia all’interno di una nuova conflittualità sociale. »
La vastità e la varietà delle critiche che hanno investito il campo della collassologia rilevano senza dubbio parecchie problematicità dei discorsi sul collasso presi come un insieme teorico coerente – cosa che necessita di per sé un certo grado di astrazione rispetto alla varietà delle posture implicate. Questo nutrito dibattito, nel contempo, ci riconduce ad almeno due elementi notevoli. Da un lato, esso testimonia l’impatto sociale e culturale che questa declinazione dell’ecologia a saputo esercitare en tempi brevi, in un certo contesto: quello francofono. Ciò spiega, a nostro avviso, il fervore delle analisi e delle accuse di cui è protagonista: la discussione e la critica generata è proporzionale all’influenza (reale o percepita) della collassologia. Dall’altro, tale discussione indica anche come questa variegata corrente di pensiero e di pratiche metta il dito nella piaga, per così dire, e renda palpabile lo smarrimento della situazione politica attuale di fronte alle contraddizioni ed ai problemi della crisi ecologica. La collassologia – potremmo dire – incarna la complessità della re-invenzione della sfera sociale e politica oltre i valori, le prassi e le istituzioni che hanno storicamente strutturato le nostre comunità e risultano ormai sfibrati : un tema trattato in modo pregnante oltralpe da riflessioni come quelle sul nuovo regime politico di Gaia del socio-antropologo Bruno Latour o il testo Abondance et liberté di Pierre Charbonnier[27].
In tal senso, la griglia delle critiche che abbiamo riassunto succintamente dovrebbe innanzitutto costituire non un’ennesima gabbia di polemiche partigiane né una squalifica generale di questa prospettiva da parte di un collasso-scetticismo tanto temibile quanto la simmetrica collasso-mania, ma piuttosto una bussola per orientare e correggere gli sviluppi della collassologia. L’altra articolazione di cui necessitiamo sarebbe quella tra l’approccio teorico e discorsivo della disciplina del collasso (che pecca dei limiti dell’astrazione e della generalizzazione) e un insieme di esperienze già in via di sviluppo che verificano e diffondono forme di vita alternative e sostenibili dall’interno del suicidio già scatenato della società termo-industriale. Il che equivale a congiungere i collassologi con i collassonauti, coloro che sviluppano quanto Pablo Servigne & co chiamano una collasso-sofia – facendo un calco del concetto di « ecosofia » promosso da filosofi come Arne Naess e Felix Guattari[28]. L’ecologia (ossia studio della costituzione relazionale e ambientale di ogni essere vivente) sta all’ecosofia (ossia l’adattamento dei valori, dei legami e delle condotte a tale consapevolezza), come la collassologia sta alla collasso-sofia: la capacità incarnata e pratica di farsi strada collettivamente attraverso i flutti instabili di questo mondo in via di disgregazione.
Quale credenza collettiva?
Jean-Baptiste Fressoz ci ha ricordato, nel bel mezzo del dibattito contemporaneo sull’Antropocene, che la coscienza ecologica circa i limiti pericolosi del nostro modello di civiltà termo-industriale non risale a ieri e neppure all’altro ieri[29]. In realtà, si tratta di un elemento che si manifesta precocemente nell’epoca moderna e ne accompagna in modo più o meno carsico gli sviluppi. Da un lato, Fressoz dimostra che la « riflessività ambientale » circa i danni provocati dal nostro mondo socio-economico – ovvero quanto è oggi responsabile della minacce di collasso – ha segnato in modo ricorrente gli ultimi secoli di progresso industriale e produttivo. Dall’altro, le sue ricerche mettono in evidenza i processi sistematici d’inibizione di una tale consapevolezza – ovvero la sua inefficacia politica – che hanno permesso la modernizzazione occultandone i rischi. Di questa storia del rischio generato (e sotterrato sistematicamente) dall’attività tecnologica ed economica della nostra civilità, emerge precisamene l’orizzonte di spensierata autodistruzione o di « gioiosa apocalisse » – direbbe Fressoz – a cui assistiamo ora in compagnia dei collapsologues. Il paradigma del collasso, in un certo senso, non fa che trarre una serie di conclusioni coerenti da questa esperienza storica d’impotenza della riflessività ambientale e di occultamento chirurgico dei pericoli alimentati dal nostro sviluppo.
Indubbiamente, l’orizzonte apocalittico che contraddistingue questa coscienza ecologica costituisce una sorta di principio unificatore di ordine religioso prima ancora che ideologico, come denunciano i detrattori della collassologia. Eppure, senza negare le derive millenariste dell’Effondrement né le dinamiche oppressive di cui numerose istituzioni religiose sono responsabili, ci pare questa dimensione non possa essere liquidata o aggredita frettolosamente. In particolare nel momento in cui ci chiede cosa possa l’ambito collassologico, in effetti, ci pare più fecondo adottare quel punto di vista neutro e antropologico che comprende la religiosità innanzitutto come capacità di riunire un gruppo di persone attraverso una serie di valori, credenze e pratiche comuni. Ogni comunità umana – ha sottolineato Bruno Latour – si fonda su una rete di legami (attachements) che la determinano e la sostengono: in tal senso esso è costitutivamente « religiosa »[30]. Cadrebbe qui la pretesa di noi « moderni » di definire la nostra comunità come oggettiva e indipendente, dunque autorizzata a osservare e criticare i legami locali degli altri gruppi umani. Una pretesa che si basa sul rifiuto di riconoscere i principi e le relazioni specifici – il dogma dello sviluppo, la fede nella proprietà privata, il rito della democrazia elettorale – che circoscrivono, addensano e differenziano « religiosamente » la nostra civiltà.
Potremmo affermare che i collassologi sono coloro che, di fronte ai rapporti scientifici e le proiezioni statistiche, credono alla prospettiva del collasso. Essi hanno i loro profeti che annunciano la scadenza del crollo sistemico, hanno i loro luoghi di riunione (ZAD, eco-villaggi, fattorie leggere…), le loro regole comportamentali con tabù annessi (vegetarianismo, rifiuto dei supermercati e dell’aero…) e, per così dire, i loro riti (compostaggio, apprendimento della permacultura, cantieri collaborativi…). La collassologia produce così una forma di vita collettiva che risponde alla consapevolezza di una vulnerabilità comune. I grafici che registrano la crescita dell’inquinamento e della temperatura, le tabelle di cifre che rintracciano la perdita di biodiversità divengono delle vere e proprie icone che dominano imperiose l’immaginario dei collassologi e ingiungono loro di adottare collettivamente certi gesti o scelte in nome della minaccia di collasso. Nella misura in cui la trama affettiva di questa minaccia non divenga una sorta di ossessione opprimente né una condanna definitiva, la prospettiva catastrofica non rappresenta una « religione scadente » ma un movimento « entusiastico » di trasformazione e creazione[31]. Aldilà dell’effetto « narco-collapso » (Laurence Allard) di sconvolgimento allucinatorio indotto dall’atmosfera apocalittica, è importante approdare dalla domanda teorica su cosa sia la collassologia a cosa essa ci faccia e ci faccia fare concretamente, nell’orientare i gesti, gli affetti e i rapporti collettivi verso un più auspicabile happy collapse. E qui le condizioni di credenza costituiscono un elemento per nulla secondario.
Nella sua dimensione religiosa, il collassismo potrebbe dunque non avere nulla di oscurantista, folklorico o mistico. Esso designa piuttosto la riconfigurazione di un collettivo umano in cui muta la disposizione antropologica di una comunità al fine di condividere e protegger ciò a cui i suoi membri tengono e credono, in una situazione di precarietà. La minaccia del crollo generale genera, in tal senso, nuovi legami e nuovi rapporti, ovvero nuove modalità di associarsi. La forza di questo collettivo « religioso » si esprime tanto in un indirizzo costituente (fonda delle nuove comunità) quanto secondo una logica destituente, nella misura in cui disfa le relazioni e le norme di una società giudicata come condannata e indifendibile.
Nel contrasto della collassologia, di conseguenza, si rendono visibili in modo netto quei principi e quegli attaccamenti – di solito impliciti e trasparenti – che strutturano la società moderna e industriale. Quest’ultima è esente solo nella propria auto-rappresentazione capziosa dalle dinamiche di religiosità antropologica che fondano ogni comunità umana. La credenza nel collasso, in fin dei conti, esplicita e disattiva le credenze che sostengono il modello capitalista e industriale che abitiamo al giorno d’oggi. Dalla « crescita » al « potere d’acquisto » passando per « disoccupazione », l’estraniamento collassologico fa cadere in desuetudine le norme ed le litanie a cui il nostro sonnambulismo collettivo ottempera quotidianamente[32]. Non è un caso se Walter Benjamin aveva parlato del « capitalismo come religione » e, più di recente, Philippe Pignarre e Elisabeth Stengers ci hanno messo in guardia contro la « stregoneria capitalista », opponendosi alla velleità di razionalità obiettiva e generale di questo sistema[33]. I collassisti potrebbe costituire, a tal proposito, un’alternativa politicamente desiderabile su un piano per così dire « religioso » ai vari populismi o jihadismi che germogliano sul terreno liberato dal cedimento della credenza capitalista che governa le nostre società. E nel contempo il loro approccio può essere considerato anche come un’altra razionalità – ovvero un altro modo di contare e misurare – in concorrenza con quella dell’economia politica dominante di marca neoliberale: entrambi si armano di statistiche e grafici, ma per dimostrare necessità di segno opposto. A cosa crediamo (c’est-à-dire: a cosa teniamo)? Quali parametri statistici e quali tecniche computazionali prendono in conto le nostre politiche (economiche, sociali, ecologiche)? Questo genere di doande ci sono indirizzate dall’insieme di discorsi e affetti incarnati dalla collassologia che la crisi pandemiologica in corso attualizza in modo vertiginoso. Il modo di intendere e di rispondere a tali interrogativi definirà le forme di vita collassonaute che già costituiamo e alimentiamo collettivamente.
Note:
[1] Il testo presente ripropone alcuni passaggi del libretto Collassologia. Istruzioni per l’uso (Trieste, Asterios, 2020), a cui si rinvia per completare il discorso presentato.
[2] Su questa cecità in senso ampio e non strettamente nazionale, vero fondamento dell’argomentazione collassologica, si vedano gli interventi relativament isolati di Matteo Meschiari su Doppiozero : « La grande estinzione » (12/6/2019) « Il superorganismo stupido » (22/9/2020).
[3] Vedi rispettivamente : Giulio Meozzi, « Il Grand Guignol ecologista », Il Foglio, 1 ottobre 2019 ; Massimo Panarari, « Un’altra fine del mondo è possibile », La Stampa, 22 aprile 2020 ; Simone Pieranni, « Vivere le intermittenze del collasso », Il Manifesto, 8 maggio 2020.
[4] Benedetta Gentile, « Dopo il Covid : aspettando il collasso con la lavatrice a pedali », Stamp Toscana, 11 giugno 2020.
[5] Vedi : Yves Citton e Jacopo Rasmi, Générations collapsonautes. Naviguer par temps d’effondrement, Parigi, Seuil, 2020. La rielaborazione italiana si riferisce la già menzionato Collassologia. Istruzioni per l’uso (cit.).
[6] Si veda ad esempio l’articolo « Francia, il successo della collassologia: una terapia per vivere con le paure del virus » effettuata da Anaïs Ginori, la corrispondente parigina di La repubblica (19 giugno 2020).
[7] Tra i precursori della collassologia francofona nell’ambito anglofono dobbiamo aggiungere anche il testo non ancora tradotto di Joseph Tainter, The collapse of complex societies, Cambridge, Cambridge University Press, 1988.
[8] Vedi: https://www.next-laserie.fr
[9] L’accesso alla serie accompagnato da contenuti speciali è temporaneamente aperto sul conto YouTube dei suoi creatori, Les parasites.
[10] Per una traduzione italiana di un suo intervento, vedi la raccolta collettiva Dove va il mondo? Un decennio sull’orlo della catastrofe, Milano, Bollati e Boringhieri, 2013. Le attività dell’Institut Momentum sono registrate sul sito : https://www.institutmomentum.org
[11] Vedi la versione on line : http://www.treccani.it/vocabolario/collassologia_%28Neologismi%29/
[12] Dichiarazione nell’episodio inaugurale della serie Next (S01 E01), già menzionata.
[13] Vedi rispettivamente i siti : https://www.ipcc.ch ; https://clubofrome.org/publication/the-limits-to-growth/.
[14] Sulla questione della « società termo-industriale » e del suo « collasso », rinviamo a Fabrizio Li Vigni,Il collasso della società termo-industriale, Trieste, Asterios, 2020.
[15] Per uno studio accessibile in italiano sul’estrattivismo (teorizzato in ambito anglosassone) e le sue relazioni con la prospettiva di un « collasso sistemico » si veda La nuova corsa all’ora. Società estrattiviste e rapina (2016) di Raul Zibechi. Disponibile on line: https://camminardomandando.files.wordpress.com/2017/09/zibechi_nuova_corsa_alloro.pdf
[16] Dmitry Orlov, The Five Stages of Collapse, Gabriola, New Society Publisher, 2013.
[17] Yves Cochet, Il collasso, catabolico o catastrofico?, Trieste, Asterios, 2020.
[18] Per un’introduzione in italiano al discorso collassologico attenta ai suoi limiti intrinseci si veda l’intervento di Laura Centemeri, « Perché i “collassologi” vanno presi sul serio (ma non troppo) », Gli Asini, n° 62, Aprile 2019.
[19] Vedi : « Questioning Collapse : des historiens et des anthropologues réfutent la thèse de “l’écocide” », Europe-solidaire.org, 17 mars 2012. Di Tanuro in Italia é appena stato publicato È troppo tardi per essere pessimisti. Come fermare la catastrofe ecologica imminente, Roma, Alegre, 2020.
[20] Vedi la traduzione italiana del suo intervento per The Conversation : « La collassologia è una scienza? », The Epoch Times, 7 dicembre 2017.
[21] « L’avenir de l’humanité ? », ThinkerView.com, 25 giugno 2019.
[22] Antonella De Biase, « Il collasso è inevitabile, prepariamoci al dopo », Nero, 22 Marzo 2019.
[23] Si veda la traduzione di un suo intervento sugli elementi problematici di questa corrente ecologica : « La collassologia: un discorso reazionario? » (sul blog Finimondo).
[24] « Contre l’effondrement : agir pour des milieux vivaces », Entonnoir.org, 13 dicembre 2018.
[25] « Splendeurs et misères de la collapsologie », Revue du crieur, n° 13, 2019, p. 93.
[26]« Faut-il être catastrophiste pour échapper à la catastrophe ? », AOC, 9 luglio 2019.
[27] Vedi : Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, Milano, Meltemi 2020 ; Pierre Charbonnier, Abondance et liberté. Une histoire environnementale des idées politiques, Parigi, La Découverte, 2020.
[28] Del primo rinviamo a Un’introduzione all’ecologia (Pisa, ETS, 2015) mentre del secondo a Le tre ecologie (Milano, Sonda, 2019).
[29] L’apocalypse joyeuse. Une histoire du risque technologique, Parigi, Seuil, 2012. Sulla nozione di Antropocene – meno diffusa in Italie che sul suolo francese – ci si riferisca ad un suo testo firmato con Christophe Bonneuil, La terra, la storia e noi. L’evento Antropocene, Roma, Treccani, 2019.
[30] Non siamo mai stati moderni, Milano, Elèuthera, 2015.
[31] Vedi : Bruno Latour, « L’apocalypse, c’est enthousiasmant », Le monde, 1 giugno 2019. Accessibile on line: http://www.bruno-latour.fr/node/805.html
[32] Vedi: Yves Citton e Jacopo Rasmi, « Un jour, les mots “croissance” et “chomage” sembleront aussi bizarres qu’“anges” ou « immaculée conception” », Libération, 18/19 giugno 2020.
[33] Walter Benjamin, Capitalismo come religione, Genova, Il Melangolo, 2013 ; Philippe Pignarre e Isabelle Stengers, La stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, Milano, Ipoc, 2016.