Incanto/disincanto/reincanto: fuga dall’uno e arte del molteplice – di Alessandro Baccarin e Guido Battisti

Incanto/disincanto/reincanto: fuga dall’uno e arte del molteplice – di Alessandro Baccarin e Guido Battisti

2 Maggio 2021 Off di Francesco Biagi

L’anno 2020 resterà impresso nella memoria come una di quelle date che scandiscono la storia, quella insegnata a scuola (come il 1492, la cosiddetta “scoperta dell’America”), che mettono un punto e che servono a dare una parvenza di ordine e forma all’ingovernabile flusso di una moltitudine di eventi. E in questo tempo, quasi come a rientrare nell’accezione etimologica del sostantivo “infante”, ossia “muto” o che “non sa parlare”, ci si è improvvisamente ritrovati in quella particolare condizione di incapacità di nominare lo specifico stato di sospensione vertiginosa, priva di orientamento e senza appigli, in cui ci si è sentiti precipitare.

Il tempo percepito è andato fuori di sesto, cambiando radicalmente lo scenario delle abitudini consolidate e, improvvisamente, ci si è accorti di essere “senza mondo”, costretti nella forzata inattività a guardarsi in uno specchio che, brutalmente, riflette la mostruosa immagine quotidiana così tanto a lungo e faticosamente tenuta nascosta dalla macchina della rimozione civilizzatrice. E’ caduto il drappo che nascondeva il ritratto di Dorian Gray e le orrende cicatrici e le purulenti escrescenze sono venute alla luce. Tutti i peccati che si assommano nel mortifero abominio dell’Occidente si sono rivelati. Ci si è ritrovati esposti a qualcosa di tanto più terrificante proprio in quanto sconosciuto e imprevisto per la maggior parte di noi collaborazionisti più o meno inconsapevoli della modernità. I governi dell’intero pianeta, obbedendo a una tempistica senza precedenti, hanno quasi immediatamente attivato lo stato d’eccezione, imponendo ovunque le modalità di controllo che sono parte costitutiva essenziale della governance biopolitica. Le metafore sulla condizione di guerra si sono sprecate e sembra che tuttora siano quelle maggiormente circolanti attraverso bollettini medici, comunicati governativi e agenzie di stampa.

La situazione di raggelamento del contatto fisico, di ossessivo calcolo sul pericolo di infezione, la sterilizzazione imposta perfino al di là di ragionevoli misure di precauzione, tutto ciò ha inaugurato un’atmosfera senza precedenti, consegnandoci al monotono grigiore degli arresti domiciliari e alla sospensione, o drastica diminuzione, di quei palliativi che, pur prescindendo dalla loro artificialità, costituivano gli sfoghi consentiti nella vita quotidiana del moderno cittadino consumatore, vale a dire lo shopping, il fitness, l’intrattenimento fuori dalle mura domestiche in luoghi deputati come cinema, teatri, stadi, discoteche, ristoranti. In questo clima la pubblica opinione, almeno nella sua rappresentazione sui grandi media, si è massimamente polarizzata intorno a discorsi e posizioni che già da alcuni anni monopolizzavano la scena di un dibattito taroccato, lasciando debitamente fuori e silenziando le rare idee disturbanti che osano disertare il terreno dei luoghi comuni. Si tratta, in quest’ultimo caso, di poche voci che non si limitano a essere refrattarie alla vulgata mainstream e che, senza accodarsi ai deliri di paranoici e sovranisti, suggeriscono un cambio radicale di prospettiva, cominciando con il mettere in dubbio la presunta “naturalezza” di quanto accade, di quanto accadeva “prima”, e infine di ciò che significa per noi essere al mondo.

In periodi paradossali come questo in cui ci è dato di vivere appaiono pochi ma significativi contributi ispirati da un’urgenza di ri-orientamento, da un desiderio di fare i conti con quanto sfida la scarsa capacità di comprensione, già intorpidita da secoli di antropocentrismo, ormai finalmente moribondo. In tal senso, l’ultimo libro di Stefania Consigliere, Favole del Reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (Derive Approdi, Roma, 2020), si presenta come un testo importante, uno di quelli in cui, insieme a un inconsueto rigore documentativo, si percepisce una passione che è raro trovare nella saggistica di settore.

Molti sono i modi in cui affrontare questo libro che propone al suo interno itinerari di lettura diversi e paralleli. Forse, la scelta migliore, o almeno quella che a noi è sembrata la più appagante, è seguirne le pagine come il viandante segue le strade nel pellegrinaggio e nella periegesi.

Il periegeta per eccellenza è stato Pausania. Nel suo attento e meditato vagabondare nella Grecia antica descrive il paesaggio, prende nota di ciò che dei tempi passati sopravvive in forma di spirito e di materia, coglie l’auralità di un sacro che persiste fra le colonne crollate, fra gli altari abbandonati, fra i templi deserti. Attraversa un paesaggio di rovine nella consapevolezza che ogni civiltà, presente, passata e futura, cammina sui propri e altrui morti. A partire da questa consapevolezza il libro si offre come una periegesi fra le rovine del disastro storico, quello dei capitalismi e delle modernità, e fra quelle di un passato immemore, laddove i paradisi perduti appaiono come la fantasia di rivoluzionari votati per vocazione alla sconfitta. Uno sguardo lucido, melanconico, e allo stesso tempo anche attento, acuto, quello prodotto in questo testo il cui centro narrativo è costituito dalle forme molteplici che l’incanto ha assunto nel mondo e dalle forme altrettanto metamorfiche che il riduzionismo del disincanto ha prodotto con la modernità, ovvero attraverso la sua forma occidentale, e per questo capitalista, scientista, illuminista ed eminentemente fascista. E tuttavia questa melanconia rivolta verso ciò che del passato ci è pervenuto non si presenta come un umore incapacitante, bensì come un sentimento propulsore per una sfida da cogliere, presupposto per una più grande gioia da inventare.

Nella sfuggevolezza che ogni periegesi offre al tentativo, sempre frusto, di una lettura riassuntiva, di seguito verranno offerti spunti di riflessione che il testo dell’autrice ha stimolato in coloro che qui scrivono piuttosto che appunti per una recensione.

 

1. L’autrice in questo libro costruisce un mosaico destinato ad ampliare l’ordito di una ricerca intessuta già da tempo. Il cuore di tenebra della modernità e le radici moderne del fascismo, questi i principali obiettivi di indagine. Non si dà progresso senza distruzione della molteplicità e non si dà modernità senza l’annientamento delle comunità. Non c’è il cannocchiale di Galilei senza i cannoni e la polvere da sparo, non ci sono gli antibiotici senza la mattanza della prima guerra mondiale, non c’è la scienza senza il genocidio degli indigeni delle Americhe. Queste le prospettive raggiunte.

Da questo punto di osservazione lo sguardo del periegeta osserva con distacco l’apparente opposizione fra guerra e pace. Tolstoj nutriva il medesimo sguardo: il disincanto della storia, di cui ci si crede attori, rende impraticabile ogni guerra ed ogni pace, laddove l’incanto appare nell’illusione che ciascuno sia artefice del proprio destino. E’ questa la legge del destino che Napoleone osserva atterrito sul campo di Borodino la mattina della battaglia, all’inizio della sua fine. Guerra e pace appaiono come la polarità di un dispositivo labirintico, dove guerra è la distruzione programmata di ogni alterità, e pace è la riduzione all’uniforme di ogni diversità, entrambe ausiliarie di un incanto pervertito, quello della serialità, del progresso, della modernità. Da questo punto di vista, guerra e pace appaiono come un’alternativa fittizia, come un dispositivo che erode qualsiasi possibilità di conflitto all’interno dell’ordine delle cose.

Ciò che di più profondo questo dispositivo sottrae alle vite di ciascuno è la pienezza che la morte dona alla vita. Progresso e distruzione possono apparire come un’alternativa solo in virtù di una appropriazione originaria della morte, pari a quella capitalistica delle enclosures inglesi. E’ questo nodo gordiano che la sinistra ed il materialismo storico non sono mai riusciti a sciogliere. In Il secolo breve Eric Hobsbawn, solo per citare lo storico materialista più illuminato del recente passato, osservava che sulla bilancia della storia i grandi olocausti bellici del Novecento pesano forse meno rispetto al progresso delle classi povere, all’abbassamento della mortalità, e all’esaurimento sempre più marcato della sacche di povertà. Valutazioni possibili solo in virtù di uno sguardo distorsivo, comune a tutta la sinistra storica, che ci lascia la miseria, la morte e una vita senza alcun immaginario per il quale valga la pena viverla. Uscire dal disincanto della modernità e dal suo incanto mostruoso non può che passare attraverso una riappropriazione della morte come amica, come sorella. Una morte riconsegnata alla sua domesticazione rituale, per riprendere il vocabolario di Philippe Ariès, autore ben presente in questo libro.

Riprendiamoci la morte come parte della vita e non come distruzione finale e definitiva di questa finzione che chiamiamo io, identità e coscienza. Mettere al bando le passioni tristi della distruzione e del progresso e accogliere le passioni vitali e allegre della morte come parte di un ciclo, come aspetto di un insieme di cui la vita è solo un’esperienza. Come scrive l’autrice (p. 166):

«cambiare la nostra relazione con il nesso che lega vita e morte: è felice la vita che non è paralizzata dal timore della morte e mai la si teme tanto poco come negli sprazzi di felicità vissuta. E’ quel che sanno i gruppi umani che periodicamente la meditano, la osservano, ne costeggiano le rive. I rituali iniziatici, così come le pratiche estatiche, richiedono spesso un avvicinamento al confine, un’esposizione controllata al rischio radicale. L’idea è che si può stare nel mondo in modo pieno solo se i suoi limiti e i limiti della vita stessa sono noti o, almeno non sono rimossi. Non a caso, tali pratiche prevedono spesso un passaggio per il dolore e la disappropriazione di sé. Questi altri “spazi della morte” sono modi intelligenti per restare in contatto con il problema, ineludibile ai mortali, della fine: l’esatto contrario, quanto a intenzioni ed esiti, rispetto a quelli prodotti dal dominio».

Lo sguardo dell’autrice vive di un disincanto che è quello dell’epoca. Uno spleen che interroga: osservare la teoria di morte e distruzione con il distacco del saggio taoista, nella consapevolezza che il capitalismo è solo l’ultima, ma anche l’estrema, forma di dominio, violenza e sopraffazione che l’umanità ha saputo creare, oppure concedere un’ultima possibilità alla potenza della storia e attribuire a una fenomenicità tutta storica, e quindi reversibile, l’avvento del capitalismo e della modernità? Osservare la tragedia del presente nella serenità che solo un messianesimo può dare oppure cercare, magari facendo il contropelo alla storia, come insegna Benjamin, le condizioni di insorgenza del dominio per poter così invertire la storia stessa?

«Qui, come sempre nelle cose vere, ciascuno fa le sue scelte e ne sopporta le conseguenze: il potere scivola automaticamente in dominio? L’egemonia dei pochi sui molti e la formazione di gerarchie è inevitabile fra gli umani? Il fatto che dominio, violenza e sfruttamento siano presenti in larga parte della storia che conosciamo ancora non ne fa delle invarianti. Se li pensiamo come trascendenti, ci tocca aspettare il Messia e già diverse volte abbiamo constatato che l’Anticristo è più puntuale. Se invece sono fenomeni storici, allora possiamo interrogarci sulle condizioni che li rendono meno probabili» (p. 151).

Ed è proprio questo interrogante sguardo antropologico unito alla malinconica ed elegante sensibilità del flâneur a costituire ciò che rende prezioso questo libro. Di favole del disincanto ne abbiamo già lette sin troppe e continuano ad aggiungersene, ahinoi, sempre di nuove. Quello a cui l’autrice ambisce dare un pregevole contributo è semmai un reincanto che passi attraverso una pratica di destituzione del dominio che irretisce corpi e menti.

Qui l’antropologo ci prende per mano facendosi méntore, accompagnandoci per un sentiero avventuroso e purificatore, similmente a quanto già veniva esperito nelle realtà premoderne attraverso tante pratiche di esplorazione dei mondi non umani. In questo viaggio è richiesta una disponibilità al gioco a cui abbiamo perso l’abitudine da quando abbiamo deciso di diventare “adulti”, nel senso moderno e laicista del termine. Non si tratta però di simulare una credulità che abbiamo perso mettendoci a imitare i bambini in quella postura convenzionale che da “civilizzati” abbiamo assegnato loro. L’invito da cogliere è semmai quello a entrare nel Regno che si è reso invisibile ma che si trova proprio qui, proprio adesso. «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli».

 

2. Via del disincanto e teoria del molteplice, questi sono due percorsi sui quali l’autrice conduce i suoi lettori. Da una parte un’analisi lucida e spietata delle forme tanatopolitiche e totalitarie con le quali la modernità ha sterilizzato ogni forma del molteplice (la magia, il mondo degli spiriti, i sogni, gli animali e le piante, le ninfe, le tradizioni, il folklore, i dialetti ecc.), dall’altra la costruzione, attenta e per nulla scontata, di una possibile molteplicità finalmente libera da colonialismo, sessismo, capitalismo, modernità, progresso.

Fra questi due itinerari si colloca un terzo percorso, più intimo, il diario di una ricerca condotta negli anni, secondo un programma a volte casuale, a volte meditato, che porta l’autrice fra le rovine, fra le macerie, fra i frammenti e le reliquie di un diverso rapporto con il mondo. Di qui i resoconti di viaggi, alla maniera della periegesi, dalla foresta amazzonica ad Eleusi, da un porto mediorientale a un mercato mediterraneo. Alla ricerca di un rapporto poetico e primigenio, quello che osserva l’incanto nel paesaggio di tutti i giorni, l’eternità nel presente di una folgorazione, quel mondo che un tempo consentiva il continuo passaggio fra spiriti e materia, fra uomini e antenati, e che trovava forme rituali e canoniche di compimento, come i misteri eleusini oppure i rituali dello yagé. Stefania Consigliere ci racconta un’arte del viaggiare che è un modo di perdersi, calibrando sapientemente rischio, sicurezza, allentamento della morsa dell’ego, riflessione sul mondo visitato e su quello da cui si proviene. I suoi appunti, esemplari anche sotto un profilo letterario, ci suggeriscono un’affinità con quanto possiamo esperire semplicemente osando abbandonare sentieri troppo battuti e affidandoci a quanto ancora rimane di saggezza vivente tra le rovine del nostro mondo morente.

 

3. Forse la teoria del molteplice si nutre di un gesto: restituirci la molteplicità del mondo, scoprire sotto la coltre delle rovine la ricchezza che ha consentito ai nostri antenati di vivere per millenni al di fuori del disincanto. Riconoscere che sono nostri quei dipinti che ancora oggi nelle grotte del paleolitico parlano di mondi aperti sull’incanto e osservarli come parte della nostra memoria. Riconoscerli come ponte verso una possibilità di vita alternativa che non distingue fra il mondo degli spiriti e dei vivi, fra la logica e il sogno, fra il sapere razionale e la trance sciamanica. Riprenderseli come eredità, come nostro ricordo, e non come “patrimonio culturale”. Riprendersi anche i Greci, ma solo dopo averli degrecizzati, restituiti a quella molteplicità che, ad esempio, faceva convivere la polis con il nomadismo arcade, il sacrificio cruento dei riti olimpici con i misteri incruenti ed estatici di Eleusi, la logica aristotelica con l’incanto dei culti incubatori e del sogno.

 

4. Il periegeta non può ignorare come il fascismo sia la cifra del vivere quotidiano oggi. Non ignora d’altra parte che il fascismo non è, o almeno non è solamente, quella forma di perversione totalitaria dello stato di diritto che ha preso forma, ad esempio, nelle dittature europee pre-belliche o in quelle militari dell’America Latina degli anni Settanta e Ottanta. Il fascismo ha radici ben più profonde nel mondo e nella storia e trova i suoi primi vagiti nell’esperienza coloniale, nella trasformazione capitalistica dei mondi, nella riduzione dei saperi al sapere scientifico ed illuminista. Fascista è quella vita che fa affidamento solo su sé stessa, nella negazione ostinata e perversa che la vita possa essere anche degli altri, e quindi che gli altri esistano. Alterità è tutto ciò che non trova spazio nella finzione delle differenze spettacolari compatibili con le leggi del mercato.

Tuttavia, il presente ci offre forme di fascismo capaci di mobilitare ciò che da sempre la sinistra ha abbandonato agli scarti della storia, ovvero l’immaginario. I comunisti, i rivoluzionari e gli anarchici si sono preoccupati di soddisfare i bisogni, mai di restituire la molteplicità che quei bisogni alimentano: dare il pane, ma non liberare l’immaginario che quel pane contiene. E nel pane abbiamo la sedimentazione di una lotta, di una sconfitta e di una sopraffazione. Nel pane abbiamo la sedentarizzazione, la civiltà contro il nomadismo, la gerarchia contro la comunità, la religione contro il sacro, la vita che improvvisamente diventa parte della morte. Nel pane abbiamo il grido di sconfitte millenarie, di assedi e deportazioni, di schiavitù e asservimento. Di questo immenso immaginario la sinistra non si è mai occupata abbastanza, sicché il pane è diventato preda di ogni possibile immaginario, anche e soprattutto di quello fascista.

 

5. La via del disincanto si snoda lungo passaggi obbligati, traiettorie definite che il periegeta individua dalla prospettiva a volo d’uccello che le rovine gli consentono. Uno di questi passaggi fondamentali è il silenziamento. Le voci plurime che componevano l’incanto dovevano essere tacitate affinché la riduzione all’uno fascista e capitalista potesse imporsi. Voci sorgive, ancestrali e primigenie, terrificanti o rassicuranti, perturbanti o salutari che componevano un mondo corale: le voci della terra che scaturivano dalle voci invasate di profetesse e indovini, le voci dei sogni, porte spalancate sul mondo dei morti e sul futuro, le voci dell’onirologia quindi, della mantica, della divinazione, le voci dei santi, quelle degli spiriti dei boschi, dei fiumi e delle sorgenti, le voci delle ninfe e delle grandi madri del paleolitico.

La desertificazione poi. Ovvero l’eliminazione, anche questa sistematica, di ogni presenza che non fosse quella dettata dal mercato, dal riduzionismo solipsistico dell’individuo, sia questi l’imprenditore del sé, il detentore di diritti e doveri della cittadinanza, o infine il soggetto dotato di inconscio dello psichismo moderno. Presenze ataviche anche queste, quelle sacrali dei luoghi, che facevano di ogni angolo un sacrario, di ogni albero un tempio, di ogni fiore un oracolo. Ogni presenza inutilizzabile a una riduzione all’economia, nel senso progressivo che questo termine ha acquistato con il capitale, previo il suo precedente utilizzo liturgico e teologico, doveva essere distrutta, smembrata e dispersa nel vaniloquio della follia.

Altro passaggio: l’appropriazione stregonesca di quelle voci e di quelle presenze. Utilizzare quell’incanto per pervertirne la tensione e la materia. In questo modo denaro, produzione illimitata di immaginario con il digitale e medicalizzazione dell’esistente hanno pervertito quelle dimensioni altre dell’incanto antico, appropriandosi della loro potenza operatrice.

Ulteriore punto di svolta: il progresso è inscindibile dalla distruzione. Non esisterebbe il progresso senza la secolare impresa di morte che chiamiamo colonialismo, senza la distruzione sistematica di modalità altre, non occidentali, di presenza nel mondo. senza l’utilizzo di quel rapporto magico con il mondo che caratterizza le comunità pre- o non-moderne. Quella magia, che attraverso il pensiero analogico istituisce rapporti fra ordini diversi, fra l’animale e l’umano, fra le cose e le parole, fra i morti e i vivi. Quella magia pervertita in denaro o in spettacolo: cosa sono le merci se non la perversione delle ritualità divinatorie attraverso le quali l’immateriale si trasformava in presenza, la malattia in guarigione, il futuro in presente?

E infine, il passaggio più importante. La macchina mitologica, per riprendere il concetto chiave del pensiero di Jesi che l’autrice fa proprio, quella macchina che rende tutto questo processo storico di silenziamento, desertificazione, accumulazione sperequativa e distruzione, un vettore teleologico, edenico e salvifico che consente di dimenticare e di stipare nella dimenticanza del rimosso tutti i fantasmi che la modernità ha accumulato nelle sue pur capienti camere mortuarie.

Tuttavia, come sappiamo, i fantasmi non scompaiono. E tornano oggi a farci visita, quando la morte selvaggia appare improvvisa per minacciare quella finzione che chiamiamo progresso, identità e civiltà. Quella morte che ora ci circonda, parlandoci del campo di sterminio attraverso il quale sono passati i nostri antenati, i nostri spiriti e i nostri sogni.