Note e riflessioni a partire da Potere e pregiudizio – di Andrea Cengia
Alla fine della lettura di Potere e pregiudizio, raccolta di interventi curata da Nicola Emery, resta forte il significato del sottotitolo: Filosofia versus xenofobia. La relazione tra i due concetti esprime una problematicità in particolare se si intende che il primo elemento della relazione, la filosofia, possa essere implicato nella risoluzione dei nodi sociali sollevati dal secondo, la xenofobia. Questo è particolarmente significativo se un richiamo alla filosofia nella contemporaneità sociale evoca lo stereotipo di un sapere per pochi, lontano dai problemi della vita quotidiana, come ricorda Silvio Joller (p. 101) nel suo contributo. Potere e pregiudizio è il risultato dei lavori svoltisi a Locarno nel 2017, all’interno degli Incontri internazionali Max Horkheimer. Ora, nonostante siano passati alcuni anni dall’iniziativa, i temi che sono stati affrontati non solo si mostrano largamente attuali, ma sembra che essi si presentino come una anticipazione di nodi politici, non ultimi i cosiddetti suprematismi, con i quali le trasformazioni sociali in corso dovranno necessariamente tornare a fare i conti, nella o, auspicabilmente, oltre la condizione pandemica del nostro tempo.
Nella sua introduzione, il curatore segnala l’impostazione di fondo che caratterizza il volume. In particolare, il testo vuole mostrare come le matrici culturali del pregiudizio siano innanzitutto implementate «nelle coscienze tramite dispositivi storici, teologico-politici, di “produzione del carattere”, nei quali svolge un ruolo decisivo l’educazione» (p. 9). Ed è in questo carattere produttivo delle soggettività, pur lontano da elementi di naturalizzazione, che il «cemento del pregiudizio e della paura del diverso» (p. 10) mostra il suo lato costrittivo, intimidatorio nella modernità. Emery riporta il lettore ai luoghi teorico-politici di fondazione della modernità. La soggettività prodotta è caratterizzata dalla «soggezione» (p. 10), che richiama paradigmaticamente al Leviatano di Hobbes quale luogo artificiale di soggezione al potere al fine dell’allontanamento dei pericoli dello stato di natura. Esattamente qui si insinua il bisogno della discriminazione come elemento fondante di questa macchina del potere.
Alla luce di questa prospettiva di fondo, vorrei tornare alla tensione istituita dal sottotitolo: filosofia versus xenofobia. Essa suggerisce, a me pare, un possibile percorso teorico e politico in grado di affrontare alcuni dei temi sociali e politici del XXI secolo anche vagliando criticamente i limiti e il ruolo del pensiero della tradizione francofortese. Senza la pretesa di offrire un resoconto esaustivo della notevole varietà di interventi inseriti nel volume, una eterogeneità che è sinonimo di ricchezza di punti di osservazione, le righe che seguono vogliono provare ad illustrare questo tentativo collettivo. Molti dei contributi presenti, al di là della loro specificità, rimandano ‘armonicamente’ alla necessità di indagine del legame tra filosofia e xenofobia, o, si potrebbe affermare, alla rinnovata urgenza trasformativa del secondo elemento (xenofobia) attraverso il primo, a patto che il primo (filosofia) riesca a significarsi nel senso inteso da Marx nella undicesima Tesi su Feuerbach. A partire da quest’ultima osservazione, la raccolta di interventi oggetto di questa riflessione può indicare un fondamentale spazio di indagine, non solo per la comprensione filosofico-politica della xenofobia, ma può aiutare a porre il tema politico-sociale, enormemente complesso, del superamento delle forme discriminatorie di relazione sociale. Insomma, è possibile collocare all’interno di un paradigma teorico il problema della disuguaglianza sociale, subita da una serie quasi sterminata di minoranze, al fine di poterne proporre una prospettiva di superamento?
Su questo piano, il luogo di confronto obbligato — non certo perché l’iniziativa degli incontri richiama ad uno dei nomi simbolo della scuola di Francoforte — è al lavoro pionieristico compiuto dall’Institut für Sozialforschung. Ne dà conto l’approfondito contributo di Manfred Gangl attraverso una ricostruzione, di grande interesse, delle vicende della Rivista dell’Institut für Sozialforschung attorno al tema. Prendendo spunto dal modo in cui la rivista incrocia occasionalmente il concetto di pregiudizio durante gli anni Trenta-Quaranta, in questo caso, limitandosi a sottolinearne il tratto borghese, Gangl si concentra poi su un secondo aspetto di queste ricerche ossia sugli Studi sui pregiudizi elaborati sul finire degli anni Quaranta (p. 69). La portata di tali studi è così descritta da Gangl: si tratta delle «ricerche più approfondite, specificamente consacrate ai pregiudizi, mai intraprese» (p. 70) che trovano nella Dialettica dell’Illuminismo il loro «fondamento teorico» (p. 70). Il saggio di Gangl ha il merito, tra gli altri, di proporre una ricostruzione puntuale non solo della forza, ma anche dei limiti metodologici delle importanti ricerche dei Francofortesi (p. 75-76). Al di là del dibattito seguito alle ricerche sul pregiudizio, anche questo ben descritto, non si può non riflettere sul fatto che l’indagine sul pregiudizio, avviata negli USA da parte degli esuli tedeschi dell’Istituto di Francoforte e riproposta anche nella Germania postbellica, intende illuminare le zone grigie delle relazioni tra personalità autoritaria, forma democratica e simpatie per forme di governo autoritario ancora ben radicate nella Germania del 1957 (p. 78). Il risultato di questa ricerca empirica apre ad una serie di considerazioni che non possono limitarsi alla Germania post-bellica, ma sono in grado di mostrare elementi di permanenza del pregiudizio anche al di là dell’apocalisse rappresentata dall’esperienza nazi-fascista. La questione del pregiudizio attraversa lo spazio geografico delle realtà nazionali, oltrepassando inoltre specifiche determinazioni storiche passando così da un secolo all’altro. Proprio per questo, viene da riflettere sulle cause che portano il pregiudizio ad abitare il nostro spazio-tempo nonostante le grandi trasformazioni delle democrazie dell’età dell’oro, per citare Hobsbawm. Il patto sociale democratico centrato sulla costruzione della cittadinanza, magari multiculturale, emblematicamente rappresentato dal welfare state, non è quindi riuscito a estirpare le forme di discriminazione, vecchie e nuove, così presenti nelle società contemporanee. L’idea di progresso sociale, economico, tecnologico non può non confrontarsi con il fatto che, sul piano del superamento delle disuguaglianze e del pregiudizio, tale idea rimane incompiuta, oltre che non fortemente problematica. E infatti, come ricorda Lorenzo Bernini, richiamando le parole di Horkheimer «il ‘progresso’ viene pagato al prezzo di cose terribili» (p. 15). Non vi è qui lo spazio per una trattazione sistematica del rapporto tra pregiudizio e progresso. Occorrerebbe tuttavia chiedersi se la determinazione di quella forma di progresso, che è caratteristica delle società dominate dall’immane accumulo di merci, possa essere considerata un elemento di emancipazione anche per una serie stratificata e complessa di soggetti. Il riferimento è a tutti coloro che subiscono forme di discriminazione, razziale, economica oppure su base sessuale.* A quest’ultimo aspetto in particolare è dedicato il contributo di Lorenzo Bernini. L’intervento ha il merito di affrontare il tema delle stratificazioni che coinvolgono le forme di discriminazione sessuale, mostrando come queste ultime non debbano essere considerate nella loro unidimensionalità (la discriminazione su base sessuale) ma vadano poste in relazione con altre dimensioni (economica, sociale, culturale). È interessante notare che nel contributo successivo, presente nel volume, Nancy Fraser affronta da un’altra angolatura il tema sollevato da Bernini. L’intervento di Fraser è una risposta, a distanza, alle tesi sostenute da Rorty in merito alla ricostruzione di una politica del riconoscimento che tenga insieme questioni socio-culturali (la piena legittimità sociale di posizioni minoritarie) ed economiche in modo da rimuovere «la reificazione delle differenze di gruppo» (p. 57). La proposta è quella di pensare al riconoscimento in termini di status. Lo sforzo di Fraser consiste nel disegnare la possibilità di un riconoscimento universalistico dell’umanità negata (p. 58), sfuggendo all’idea che ciò possa avvenire attraverso una riproposizione meccanica di modelli di difesa sociale ancorati in altri contesti storici. Anche questo tema meriterebbe una serie di considerazioni ulteriori. Un altro spunto di analisi, a partire dalle considerazioni di Fraser, riguarda la possibilità di iscrivere questo orizzonte di riconoscimento universalistico all’interno di un sistema economico-sociale capitalistico. È possibile infatti pensare ad un riconoscimento in grado di superare le disuguaglianze e le discriminazioni all’interno delle forme di relazioni attuali odierne fondate sulla competizione e la creazione continua di elementi sociali differenziali, ad esempio la differenziazione del ruolo del lavoro tra nord e sud del mondo, o tra gruppi ‘privilegiati’ e altri discriminati nelle metropoli occidentali e non solo? Tornando al testo, a me pare evidente, in particolare da questi due contributi, che il tema del pregiudizio trovi significativi elementi di sovrapposizione con il tema della disuguaglianza e che il riportare al centro tale tematica significhi tornare ad interrogarsi (1) sul carattere costitutivo che le disuguaglianze assumono nella società strutturata su processi di accumulazione della ricchezza e (2) sul fatto che occorra certo affrontare il tema del «riconoscimento universalistico dell’umanità negata» (p. 58) passando per l’analisi del tema della «specie», oggetto dell’intervento di Massimo Filippi, ma anche tornando alla questione genetica del cosmopolitismo la cui matrice ci riconduce all’Illuminismo. Beninteso, non si tratta di proiettare automaticamente il dibattito illuminista nell’oggi. Occorre piuttosto, come ricorda Maria Giovanna Bevilacqua, utilizzare le categorie illuministiche quale punto di presa sul presente. In questo senso, nell’intervento di Bevilacqua, ad esempio, spazio e diritto forniscono le basi della proposta politica per il presente, elaborata da Seyla Benhabib in un confronto a distanza con Kant (p. 33). L’insieme dei contributi proposti sembra concentrarsi maggiormente sul secondo punto appena sottolineato: il riconoscimento dell’umanità come chiave interpretativa privilegiata, lasciando sullo sfondo un confronto con il punto di osservazione della critica dell’economia politica. Il tema del riconoscimento riporta nuovamente alla questione del confronto con l’Illuminismo e con una parte della sua più significativa eredità, come il kantiano uso della ragione. Ad esempio, leggendo fin dalle prime righe il testo di Martin Jay è possibile comprendere maggiormente il ruolo giocato dall’Illuminismo nella cornice storico-sociale odierna. Secondo Jay nello spazio politico contemporaneo sarebbe in gioco «la crescente erosione del discorso razionale nella sfera pubblica» (p. 83) nella formula di ciò che l’autore definisce «nuovo contro-illuminismo» (p. 83). Quest’ultimo avrebbe come bersaglio polemico proprio il lavoro della Scuola di Francoforte identificata quale epicentro di irradiazione di un «marxismo culturale». La teoria critica sarebbe quindi divenuta oggetto polemico, capro espiatorio fomentato da un discorso retorico avverso ad una forma di sapere tesa alla comprensione critica delle relazioni sociali. Come ricostruisce puntualmente Jay, tale stigma avrebbe alimentato un discorso pienamente interno alle teorie del complotto della destra statunitense così interconnesso da giungere fino a estendere la sua influenza su una parte del discorso pubblico portato avanti da alcuni ambienti legati a posizioni fortemente xenofobe, soprattutto statunitensi, largamente attivi anche ai giorni nostri.
Il tema dell’Illuminismo ritorna, da una prospettiva originale, nel contributo di Stefano Marino. Questi si cimenta in un esercizio di contaminazione tra il progetto di un illuminismo critico di matrice francofortese e la riflessione di ermeneutica universale promossa da Hans-Georg Gadamer, quale tentativo di affrontare il prevalere della «razionalità tecno-scientifica» (p. 123) all’interno del mondo contemporaneo. Si tratta di un punto di snodo di grande rilievo perché permette al dibattito di confrontare due accezioni di razionalità, elemento che fa da sfondo alla tematica del pregiudizio. L’enfasi gadameriana per questo specifico operare razionale apre lo spazio per il confronto tra forme di razionalità non equivalenti. Una di queste è la razionalità operante all’interno della sfera della produzione e della circolazione di merci: essa prevede una uguaglianza formale dei soggetti all’interno delle relazioni di mercato, al fine del pieno rispetto dello schema produzione-consumo-accumulazione, in cui la produzione di merci è razionalmente organizzata secondo la finalità del consumo e dell’accumulazione. Ma non è a questa forma di razionalità che ci si può rivolgere laddove si voglia incidere sul tema del pregiudizio e delle disuguaglianze. Ad essa infatti va contrapposta una forma di razionalità in cui l’uguaglianza dei soggetti non appaia solo nella loro formale possibilità di accedere al mercato e agli spazi sociali-culturali-politici di riconoscimento che esso propone. La questione dell’uguaglianza chiama in causa una forma di razionalità che, quasi trascendentalmente, sia capace di operare all’altezza dell’istanza emancipativa di tutti quei soggetti vittime di pregiudizio, sia quelli indicati da Bernini, ma anche i migranti e i profughi descritti nella riflessione di Giona Mattei e, senza pretesa di completezza, tutte le altre figure che risultano come residuali, scarti della grande macchina globale dell’accumulazione senza fine. Basterebbe su questo accennare al ruolo della questione ambientale. Quindi, il tema dell’Illuminismo come elaborazione di un concetto positivo, anche di matrice francofortese, nel senso ricordato da Marino (p. 121), pone almeno due ordini di problemi: quello della comprensione delle disuguaglianze sociali e quello più generale delle modalità di interazione sociale ‘della paura’ che, arginando una attitudine alla comprensione razionale dei fenomeni, favorisce il prevalere di discorsi, pulsioni e interessi funzionali al perpetuarsi della discriminazione. Paradigmatico di tale atteggiamento è il tema delle modalità relazionali che si istituiscono sui social network, luoghi in cui il linguaggio verbale, svincolato dalla necessità di produrre affermazioni su base razionale, scavalca soventemente l’aristotelico principio di non contraddizione. Accade così che una proposizione sia enunciata senza vincoli all’interno di questi spazi digitali. In particolare, non è previsto l’obbligo di non negare quanto affermato nell’ultima proposizione enunciata. Il tema, com’è evidente, non prevede facili soluzioni. Non basta, infatti la determinazione per via teorica di una razionalità alternativa a quella socialmente dominante poiché ciò non è garanzia che le molteplici forme sociali foriere di discriminazione vengano erose. Sembra ormai chiaro che esse non si alimentino esclusivamente di un deficit conoscitivo del reale sul quale andrebbe fatta luce, secondo uno schema illuministico tradizionale. Come ricorda il bel contributo di Olivier Voirol occorre tener conto che è all’opera una serie di discorsi retorici che sono diventati ormai standardizzati e fondati su «strumenti numerici usati impropriamente a scopo di propaganda, dagli hashtags ai socialnetwork, dai trolls a altri socbots, andando a nutrire il regno del fake» (p. 189). Si tratta di novità che appaiono tali solo a livello fenomenico. Per comprenderlo, Voirol propone di attingere alla riflessione di Leo Löwenthal «uno dei pionieri dell’Istituto», come ricorda Jay (p. 170n). Si tratta dell’«ultimo rappresentante del cerchio iniziale» dell’Istituto e a partire da questo «un testimone chiave» della teoria critica, (p. 171). L’opera di Löwenthal oggetto della riflessione di Voirol è Prophets of Deceit, scritta con Norbert Guterman. Si tratta, innegabilmente, come ricorda Williams citato da Voirol, dello «studio più illuminante delle tecniche e della propaganda del nativo americano fascista» (p. 181). Tale ricerca permette di cogliere uno dei riferimenti fondamentali del sistema di «agitazione fascista» (p. 169) il quale fa leva su un meccanismo che «blocca le possibilità di comprensione ragionata proprie dell’intelletto umano» (p. 169), come si può comprendere con un riferimento al concetto di eccitazione (p. 189). Risulta quindi non solo complesso, ma forse inefficace, proporre un surplus di informazioni da anteporre ad un deficit di informazioni a coloro che aderiscono al verbo del meccanismo di agitazione fascista. Basta quindi, come ricorda Emery, una «riflessione contrapposta alla ‘proiezione’» (p. 232)? È possibile pensare di emendare l’intelletto in una sorta di lotta spinoziana al «sentito dire» (p. 231)? Nonostante questa diagnosi, rimane fondamentale studiare il meccanismo della discriminazione. Uno spazio per la rimessa al centro della dimensione della ragione va rintracciato nello scavo delle determinazioni storiche che collocano i simpatizzanti della destra fascista, nazionalista o delle sue numerose sfumature discriminatorie, nel medesimo contesto del «processo economico astratto e anonimo», come ricorda Voirol richiamando Marx (p. 179). Voirol coglie quindi un nodo essenziale: nel processo economico impersonale delle società del XXI secolo le forme discriminatorie tentano di opporre alla spersonalizzazione degli attori sociali sforzi di ripersonalizzazione di «ciò che l’astrazione economica [ha] depersonalizzato» (p 179). Su questo tema, il ritorno alle ricerche di Löwenthal mostra alcuni spazi di possibilità d’azione, a partire dagli esiti dei suoi studi sugli operai. Il tema tuttavia, a ben vedere, costituisce lo sfondo problematico con cui si confrontano gli interventi di Bernini e Fraser.
Un ultimo rilievo va mosso a partire dal corposo saggio del curatore del volume, Nicola Emery, intitolato Che razza di specie! Critica, contro-storia e lotta. Si tratta di un contributo in grado di interrogare criticamente, sin dalle prime righe, lo stesso orizzonte politico in cui la riflessione francofortese si iscrive. In questo contesto è il significativo richiamo a Giovanni Jervis, di cui opportunamente si segnalano nel testo i legami culturali con Raniero Panzieri . L’imputazione di Jervis agli studi francofortesi è esplicitata nella Introduzione de La personalità autoritaria. Per Jervis, le stesse proposte francofortesi sono iscritte all’interno dell’orizzonte dell’ideologia dominante e in concetti come tolleranza e democrazia (p. 192). Il rilievo di Jervis assume un peso di prim’ordine se rapportato al ‘che fare’ di fronte alle forme discriminatorie, alla loro stigmatizzazione, ma anche, in una prospettiva teoretico-politica, per una rilettura critica della forza del pensiero della prima Scuola di Francoforte. La denuncia della discriminazione non può, come si è cercato di argomentare precedentemente, automaticamente risolvere il problema politico del pregiudizio, quasi si trattasse di un risveglio della ragione. Emery cita in proposito un passaggio delle argomentazioni di Jervis molto chiaro: «il fatto che mostrare gli aspetti più ottusi dell’intolleranza del cittadino medio americano non conduce necessariamente a scoprire e denunciare le cause (di classe) di quell’agire e di quel pensare» (p. 193). Insomma, occorre allontanare il rischio che la critica assuma un aspetto «moralistico» (p. 193), dimenticando la classe (p. 193) come argomentava Panzieri. È altrettanto corretto notare come il tentativo di analisi compiuto da Emery sia in grado di introdurre altri elementi oltre la classe, la Personalità autoritaria con la «costellazione» (p. 194) di altri scritti francofortesi. Ciò riporta alla questione originaria della razza, intesa come tentativo di riduzione dell’umanità alla natura, come ricorda la lucida citazione di Horkheimer con cui Emery apre il suo saggio e di «legittimare il razzismo […] per far diventare in qualche modo innata, oggettiva, insuperabile» ogni forma di differenza (p. 199). Nella prospettiva di Emery, l’insieme dei lavori dei Francofortesi non conduce allo studio di un «uomo in generale» (p. 195) e ciò ha un rilievo di prim’ordine in quanto, da una lunga tradizione di studi decoloniali, studi culturali e post-coloniali, ciò che si ricava è il richiamo a diffidare e a liberarci dell’astrazione ‘uomo in generale’. Infatti, un passo centrale della critica a questi concetti non può che assumere l’orizzonte delle determinazioni storiche come elemento imprescindibile, al punto che è «la storia del colonialismo a fare così il suo ingresso» (p. 229), non solo come storia, ma anche come paradigma da introdurre in Europa (p. 231). Il primo richiamo è a Fanon (p. 196) il quale avverte della necessità per il pensiero marxista di ampliare le proprie analisi ogni volta si affronti il «problema coloniale» (p. 196) in quanto occorre considerare, come ricorda Emery «i presupposti del pregiudizio di ineguaglianza» e il modo in cui vengono ontologizzati e reificati (p. 197). È da qui che prende avvio la creazione della figura della «bestia da lavoro» propria dei modelli produttivi presenti almeno a partire dalla modernità, come ricordano Angela Davis, Etienne Balibar e Immanuel Wallerstein (p. 197) e non ultimo Stuart-Hall il quale individua la categoria delle enclave giuridiche (p. 198). Gioca qui un ruolo evidente l’istituzione dello Stato, di cui viene posto in risalto il significato teologico-politico di macchina di dominio dei potenti (p. 213). Centrale perciò è il riferimento alla riflessione di Hobbes. Emery rimarca come il Leviatano a partire dall’ordine da esso istituito abbia «bisogno di produrre il cattivo selvaggio da escludere, dominare, razzializzare per dare un senso alla sua grande macchina-gabbia» (p. 203). Rispetto a questa gabbia costituente, Emery propone una precisa ripresa del pensiero di Spinoza grazie al quale è possibile individuare una differente traiettoria politica alternativa a quella dominante. Si tratta del tema della potenza costituente, grazie alla quale si riconsegna all’uomo non solo il diritto naturale alla resistenza, ma anche lo spazio di soggettivazione alternativo alla maglia teologico-politica dove di radica il pregiudizio. Il discorso razziale appare infatti come pienamente funzionale allo scopo dello Stato in quanto c’è «bisogno di creare il cattivo selvaggio da escludere» (p. 203). Ciò conduce a quella che Emery definisce una «aporia» dei Francofortesi (p.220), tema che accompagna la riflessione anche in altre parti del saggio (p. 245), segnalando la difficile condizione di una critica al pregiudizio ormai inspessitosi a tal punto da rischiare di non poter essere superato.
Emery riprende il filo del suo ragionamento, appoggiandosi alle considerazioni di Adorno contenute nell’aforisma 68 di Minima moralia (pp. 227), provando da qui a istituire la fenomenologia di un’esperienza capovolta (pp. 227-228). La lettura dei Francofortesi, proposta da Emery, riporta in particolare al dialogo a distanza tra Horkheiemer e Spinoza, inteso dal Francofortese come filosofo antidogmatico per eccellenza e promotore della tolleranza (p. 233). E tuttavia, Emery rimarca come Horkheimer abbia operato in alcuni passaggi una lettura parziale di Spinoza sottovalutandone le potenzialità, schiacciandone la prospettiva su quella di Hobbes. È questa una critica all’autore della Dialettica dell’Illuminismo che non può essere trascurata. Proprio a partire da questo rilievo l’attenzione dell’autore converge in un recupero ‘positivo’ di Spinoza. Da Spinoza viene assunto non solo il tema della apparente libertà di coloro che si basano sul «sentito dire» e che, in generale, non conoscono le cause delle passioni (p. 234). Il rilievo da attribuire a Spinoza riguarda la sua capacità di produrre un ribaltamento della paura in energia di «disobbedienza e […] liberazione» (p. 10). La contrapposizione tra Spinoza e Hobbes assume per Emery un rilievo determinante per comprendere e superare i limiti dell’approccio francofortese, in particolare di Horkheimer, al tema hobbesiano dello Stato. Ed è alla luce del rilievo assunto dallo Stato nella prospettiva francofortese che appare il significato l’ultima parte del saggio di Emery, che meriterebbe per questo ben altro spazio di analisi. Emery espone qui una rilettura critica del bestiario razzista coloniale attraverso una perlustrazione storica. Con esplicito richiamo a Michel Foucault, l’autore invita a considerare una contro-storia della lotta fra le razze (p. 246-247) anche se, sul finire del suo lavoro e dopo aver portato come esempio la figura centrale di Lazarillo de Tormes, evidenzia che i temi della discriminazione e della disuguaglianza sembrano porsi ancora nella prospettiva della individuazione di una chiave teorico-politica per il suo superamento.
Per concludere, lo spazio aperto dagli Incontri internazionali Max Horkheimer permette di cogliere in maniera ancora più puntuale la drammaticità del tema del pregiudizio? Che spazio può esservi quindi per la filosofia versus xenofobia? Difficile pervenire a una risposta definitiva, specie per quanto riguarda il ruolo della filosofia. Basta aggettivare la filosofia come ‘critica’? Forse no, tuttavia, è certo che ‘critico’ è il punto di vista che più di altri sembra aver presa sul presente. C’è ancora bisogno quindi non solo di un certo atteggiamento illuministico, ma, più ancora, di una lettura delle relazioni sociali intese come prodotto culturale e non come stigmatizzazione naturalizzata delle disuguaglianze. Il testo ha tuttavia messo in rilievo come questa dimensione naturalizzata del pregiudizio debba fare i conti con gli insidiosi dispositivi politici che ne moltiplicano la forza. Su questo aspetto il dibattito deve rimanere aperto al fine di chiamare a raccolta le riflessioni più accorte come quelle francofortesi, non certo per accettarne i risultati passivamente, ma al contrario, per metterne alla prova la forza interpretativa del presente dopo che ne siano stati chiarite alcune strutturali debolezze.