FOX – di Piero Coppo
[Pubblichiamo alcune pagine inedite di Piero Coppo, venuto a mancare nei giorni scorsi. Piero è stato uno dei fondatori e dei più importanti esponenti dell’etnopsichiatria in Italia; ma anche un pensatore critico radicale, contro i fantasmi e la manipolazioni psichiche del capitalismo attuale. Chi lo ha conosciuto conserverà per sempre nella mente e nel cuore il suo rigore morale, la sua passione libertaria, la sua generosità di amico.]
«Le barche sono strani animali: un filo lungo esce dal loro naso e sprofonda nell’acqua. All’estremità, là in basso, un duro rampino si aggrappa al fondo. Così galleggiano, ferme, sul mare. Poi, se il vento si leva, ritirano filo e rampino, aprono le ali e scivolano via.» Un occhio più grande e l’altro più piccolo, uno buono e uno cattivo, il Capitano seduto su uno sgabello sgangherato all’ombra di uno spuntone di roccia, osserva, lontane, le barche in rada. Laggiù, sul blu cupo dell’acqua incorniciata da rocce dove vento e onde hanno scavato grotte, creste, punte e dentelli, si stagliano le sagome di alcuni scafi alla fonda.
«Le barche sono archi tesi, la freccia dell’albero piantata a punta in giù, nel bulbo. Nelle loro sartie e nelle carene si concentra, compressa, la loro energia. Se va in risonanza con quella del vento, la barca non può restare ferma. Vibra, risuona tutta, vuole essere aiutata a ritirare il rampino che la trattiene. Deve correre.»
Il Capitano si volta e mi guarda di sbieco con l’occhio buono. L’occhio buono manifesta una meraviglia da bambino. È un occhio aperto, visionario, che vede più di quanto appaia. Ricambio lo sguardo con un sorriso. Sotto il berretto stinto da sole e mare, troppo piccolo per la testa canuta, il viso del Capitano ricorda quello di vecchi e grandi pesci che ho incontrato nei mari caldi. Sulla pelle solcata da pieghe profonde il bianco del sale si è depositato segnando ogni possibile riparo o anfratto. Sulla fronte, alle tempie e sul mento piccole escrescenze, protuberanze tonde e rugose grandi come chicchi di riso o piselli, rompono la distesa della pelle. Nel naso tozzo venuzze disegnano percorsi ramificati, come di fiumi. Una barba bianca corta, ispida e puntuta dà al tutto l’aspetto di uno di quei ricci marini che, in profondità, hanno aculei corti e punte candide.
Si gira ancora appena un po’ e dietro la sella del naso intravvedo l’occhio cattivo: più piccolo, socchiuso, sospettoso e freddo. Si starà chiedendo cosa sono venuto a fare, cosa sto pensando, dove sono andato seguendo le sue parole, cosa mi passa per la mente. Abbozzo un altro sorriso. Lui si distende e torna con lo sguardo alla rada.
Vassili, il guardiano del piccolo porto, lui anche pastore come i pochi che vivono qui coi loro animali tra montagna e mare, mi aveva indicato la sua barca e poi, visto che lui non c’era, quel punto di osservazione alto su uno sperone roccioso. Lì, mi aveva detto, il Capitano aveva organizzato, portandoci persino uno sgabello malandato, il suo punto di osservazione. Vi passava ore e ore assorto, lo sguardo volto attorno o fisso su qualche punto del paesaggio o della superficie dell’acqua. Ne contemplava i movimenti e ogni increspatura, preso da certi suoi complicati ghirigori di pensiero. Se con lui c’era chi lo stesse a sentire e che gli pareva lo meritasse, a volte condivideva pensieri che scaturivano dalle sue osservazioni, come per esempio questi sulle barche-farfalla e le barche-arco. Al porto, sulla sua barca ormeggiata in fondo alla banchina, il Capitano era invece occupato di continuo da un’infinità di piccole mansioni. O studiava le carte, o annotava qualcosa nel libro di bordo, o rilevava punti cospicui (sempre gli stessi, quasi per sincerarsi che quella a cui la barca era legata fosse per davvero terra ferma) o esaminava, per verificare che funzionassero, uno qualsiasi degli strumenti a quadrante (temperatura, giri motore, scandaglio). Oppure, ascoltava per un po’ la radio (notizie ai naviganti) o si dedicava a piccole operazioni di riparazione e manutenzione. Azioni di routine, automatiche e apparentemente inutili visto che la barca, come dimostravano i lunghi capelli di alghe visibili sotto la linea di galleggiamento, non si muoveva da tempo. Sembrava ormai arrivata alla sua destinazione finale. A ore fisse ascoltava i bollettini meteo e li trascriveva con strani segni e abbreviazioni nervose su un quadernetto dalla copertina chiara sulla quale erano riprodotti i nodi principali. Ma le previsioni meteo della radio passavano in secondo piano rispetto al suo fiuto. Intuiva, addirittura incorporava, lui diceva, il tempo e i suoi cambiamenti. Per questo pescatori e velisti gli avevano dato il soprannome “Fox”, la volpe. Gli era piaciuto e lo usava nelle comunicazioni radio. Fox, l’astuzia e il sapere della volpe: metis, avevano detto i greci. Certo, prevedeva variazioni del tempo e del mare meglio e con maggiori dettagli delle stazioni meteo. Si diceva che in navigazione sapesse giocare coi temporali, i colpi di vento, le correnti, le brume, le tempeste, gli scrosci e le risacche come un gatto col topo; o, meglio, come il topo che nei cartoni animati sa come beffare il gatto. Spesso, quasi sempre, ci riusciva grazie anche all’estenuante lavoro in cui impegnava in egual misura ambedue gli occhi. Osservava con attenzione il gioco del vento sul mare e ne accoglieva le indicazioni: poi prendeva repentine e a volte contradditorie decisioni simili ad affondi nervosi.
Tra noi velisti di piccolo cabotaggio Fox, il Capitano, era leggenda. Aveva navigato in solitario per tutti i mari con questa piccola ma robusta barca che aveva attrezzato con grande intelligenza e sapere tecnico. Sapevo di lui da un amico con cui condividevo interessi e lavoro, anche lui velista. L’aveva incrociato un anno fa non lontano da qui. Per alcuni giorni erano stati con le barche ormeggiate vicine. Ambedue avevano goduto dei loro dialoghi quasi subito tracimati oltre i racconti e i temi della vela e del mare. Fox, aveva detto il mio amico, a momenti tirava fuori da un gavone della sua barca certi suoi quaderni sgualciti, pieni di citazioni, note e pensieri che spaziavano tra discipline diverse, più o meno quelle che interessavano anche al mio amico e a me impegnati, come eravamo, in campi diversi ma tra essi connessi: come medicina, antropologia, storia, sociologia, psicologia… Fox gli aveva detto che quei quaderni erano tutto quello che gli era rimasto. I libri che lo avevano accompagnato e che ne erano stati in buona parte la sorgente li aveva via via abbandonati o regalati nei vari incontri e ormeggi. Ma anche, aveva detto, non pochi fogli dei suoi quaderni pieni di osservazioni, citazioni e pensieri erano stati man mano utilizzati in navigazione per usi impropri e così erano andati persi. A volte, infradiciati per un infortunio o altro, li aveva affidati al mare.
Il mio amico insisteva sulla sua meraviglia nell’aver incontrato Fox: uno del tutto fuori dal mondo dei salotti, delle accademie, dei circoli di sapienti e intellettuali ma che aveva perseguito con grande competenza e coerenza una sua straordinaria ricerca scavando tra una disciplina e l’altra. Ne aveva, il mio amico, a più riprese sottolineato l’originalità e le qualità, frutto di uno sguardo che vedeva i mondi umani come da fuori, ma sempre con punti di vista che si avvalevano dei tanti incontri fatti in diverse parti del mondo con pescatori e naviganti. Avevano parlato a lungo, mi diceva, di questo mondo fatto di mondi, di com’era, come era stato e di come sarebbe forse divenuto o addirittura finito; della stupidità, genialità e dei limiti della specie umana; della sua meravigliosa ma pericolosa intelligenza che stava cambiando, e forse distruggendo, il mondo. Il tutto innestato, come dimostravano le sue citazioni, in documenti e libri di alta qualità e, nel loro genere, di punta; poi progressivamente lasciati andare in scambi e usi impropri. Nessuna traccia di quel feticismo per la carta stampata che spesso caratterizza il lavoro degli intellettuali di professione. Non poteva, il mio amico, dimenticare la fecondità di quelle sere passate insieme sulla barca dell’uno o dell’altro e il piacere di quegli incontri reiterati, negli ultimi due anni, incrociando nell’Egeo dove, il Capitano diceva, cercava il posto dove fermarsi. Era lui che gli aveva parlato di questo porticciolo. Quasi tutto l’anno, oramai, era lì, solo. Se vai e lo trovi, mi aveva detto il mio amico, ringrazialo ancora per ciò che mi ha detto e dato.
E così l’avevo cercato. Ho trovato il porto, ho ormeggiato la mia barca non molto lontano dalla sua. C’erano solo le nostre barche e altre due di pescatori. Vassili, il guardiano del porto, vedendo entrare una nuova barca era sceso dalla sua casa, un po’ più su nella collina. Mi ha aiutato a ormeggiare. Dopo i saluti di rito gli ho detto che cercavo Fox. Mi ha guardato con un sorriso e i suoi occhi sono divenuti più luminosi. Sì, mi ha detto; è qui, e quella è la sua barca, quella in quell’angolo remoto del porticciolo. Ma, mi ha subito detto, probabilmente non ci sarà. L’aveva visto poco prima salire al suo osservatorio. Se ha visto arrivare la barca, ha aggiunto, forse scenderà. Si parla di lui in Italia? È un grande marinaio, straordinario velista: vedessi, continuava Vassili, che entrate in porto faceva a vela nei giorni di meltemi teso! Viene spesso a mangiare a casa mia, racconta molte cose dei paesi dove è stato a mia figlia che va a scuola e che lo ascolta a bocca aperta. Ma ora, da mesi, non muove più la barca. Forse l’età, il diminuire delle forze. Lo vede precipitare, in alcuni momenti del giorno, in una stanchezza malinconica. A volte entra in una specie di sonno. Tutte cose che dovevano averlo convinto a fermarsi lì, a vivere nella barca ormeggiata in un angolo del porto. Così la chiglia si era coperta di alghe e denti di cane. Aveva ripiegato e stivato sotto coperta le vele, non si sa ora in quale stato siano. La coperta e le scotte di manovra sembravano però pronte a salpare in ogni momento; le eliche dell’anemometro e del generatore erano sempre vive e seguivano il vento e la sua intensità. Quindi, forse, non aveva ancora deciso di morire qui. Comunque, facendo qualche centinaio di metri di un ripido sentiero, potevo raggiungere lo spuntone di roccia dove era il suo sgabello e dal quale si vedeva la baia. Lui ci passava a volte giornate intere, da solo. Pensando? Guardando il mare? Era vero, aveva concluso Vassili, che aveva fatto il giro del mondo in solitario. Si diceva che gli tenessero compagnia i molti libri che leggeva, annotava e usava per certi suoi scritti. Gran parte, il Capitano diceva, erano finiti per una ragione o l’altra a mare. «Restituiti al mare», lui diceva. Doveva averne pur conservato da qualche parte qualcuno, perché ogni tanto li portava da lui e ne leggeva brani alla figlia e alla moglie. La figlia, che andava a scuola (e per farlo durante la settimana stava dalla nonna su, nel villaggio vicino), diceva che ascoltarlo la faceva sognare. Anche Vassili lo ascoltava a volte, ma per lui, diceva, erano cose troppo difficili. E poi aveva tanto da fare tra pecore, cani, porto, pescatori, turisti…
Salutandomi, Vassili mi aveva indicato, se volevo provare a cercarlo, la strada, lo stretto sentiero che saliva su per il monte.
Se la straordinaria bellezza e potenza del luogo che aveva scelto come rifugio, questo porticciolo sperduto in fondo a un’isola poco frequentata e dove per quasi tutto l’anno era solo, scambiando ogni tanto due parole coi pastori che passavano vicino portando le greggi ai pascoli o coi pescatori, o accettando l’ospitalità della famiglia di Vassili, potevano essere un segno della sua natura, il Capitano doveva essere davvero un uomo fuori dall’ordinario. In più, mi aveva detto l’amico velista che aveva parlato a lungo con lui, le sue analisi e previsioni sul passato e sul futuro del mondo sembravano altrettanto sensate e reali quanto quelle sul mare e il vento e, a volte, altrettanto potenti.
E così l’avevo cercato. Mi sono inerpicato per lo stretto sentiero, un sentiero da capre, su per il monte. L’ho trovato seduto sullo sgabello che guardava il mare anche se, certo, doveva avermi sentito arrivare. Con una certa emozione mi sono presentato. Dopo quello che il mio amico (si, lo ricordava) mi aveva detto di lui, mi interessava incontrarlo. Mi ha chiesto da dove venivo, se ero contento della mia barca che aveva visto entrare in porto. Aveva riconosciuto il modello: una barca vecchia di tutto rispetto, capace di reggere quasi tutti i mari. Mi ha fatto sedere, indicandomi un masso liscio lì accanto. Gli ho detto che lo cercavo perché dalle parole del mio amico mi sembrava che stessimo cercando tutti e due un modo, una posizione per riflettere sul mondo e sul suo divenire. Ce ne stavamo ambedue il più possibile al di fuori per vederlo un po’ come dall’esterno. Lui l’aveva trovato questo punto di vista in questo porto, in questo osservatorio, seduto su quello sgabello? Ha ascoltato con attenzione. Poi un leggero sorriso tra l’ironico e il sorpreso, ma soprattutto un lampo nel suo sguardo subito ritirato, mi hanno fatto pensare che c’eravamo intesi.
Così è stato. Per alcuni giorni abbiamo condiviso nel suo osservatorio momenti di silenzio e altri in cui lentamente e con delicatezza gli raccontavo da dove venivo e quanto, insieme a compagni e amici, stavamo pensando e cercando di fare. Poi si è aperta progressivamente, grazie alle lunghe ore condivise nella mia barca o nella sua, una breccia nella sua crosta. Senza forzature, senza urgenze, ma con la sorpresa di un dialogo che a poco a poco scaturiva e prendeva forma. Da parte mia, con la stessa circospezione e passione di chi si dispone a un incontro, consapevole della sua preziosità e fragilità. Da parte sua, credo (perché in tutti quei giorni e fino al nostro commiato nulla ci siamo detti del reciproco piacere), perché sorpreso dalla gioia che provava nell’aprirsi, nel lasciarsi andare a un dialogo dove ha diritto di presenza ciò che di più profondo, forte, tremante, potente e delicato racchiude il carapace di protezione che è la nostra pelle. Così il tempo (più di un mese!) è passato senza un giorno o una notte (perché i nostri incontri attivavano pensieri che proseguivano anche in sogni e risvegli pieni di emozioni) che non fossero animati da una tensione generativa fatta di sorprese, gioie e mancanze. Qualche volta siamo usciti con la mia barca e ho potuto ammirare la sua padronanza e precisione al timone e alle vele e la sua intimità, quasi un’alleanza, con quel mare: soprattutto quando il vento si levava burrascoso.
Alla fine del mio tempo e alla vigilia della mia partenza ci siamo salutati sapendo tutti e due che non ci saremmo rivisti. Gli ho lasciato il mio orologio da polso (di cui il barometro, la bussola, il cronografo, il profondimetro e altre diavolerie ipermoderne l’avevano incuriosito) e un libro che avevo scritto anni addietro: Passaggi. Lui, con l’ultima stretta di mano, mi ha passato un sacchetto di plastica da supermercato tutto sgualcito. Mi ha detto: fanne quello che vuoi. Dentro, alcuni suoi quaderni zeppi (come scrive chi deve economizzare carta) della sua scrittura fine, precisa, ordinata.
Li ho poi letti. Facendolo, ho capito meglio perché quello era stato un incontro, un dialogo eccezionale e felice. Insieme, senza sapere nulla dell’uno e dell’altro, avevamo percorso le strade diverse ma risonanti una nell’altra.
Non ho più incontrato il Capitano. Mi dicono che la sua barca sia sempre lì, nella baia dove l’ho incontrato, chiusa e apparentemente abbandonata. Di lui, nessuna traccia. Ho parlato più volte al telefono con Vassili. Un giorno, mi ha detto, Fox aveva preso un passaggio su una barca di turisti, dicendo che doveva, per certi suoi affari, andare ad Atene. Gli aveva lasciato un po’ di soldi perché tenesse d’occhio la barca. Ma era passato quasi un anno e di lui più nessuna notizia. Non sapeva cosa fare con la barca. Non sapeva se forzare il tambuccio per entrare e vedere se tutto fosse a posto e cercare documenti. Fox non gli aveva lasciato numeri di telefono, indirizzi, persone di riferimento o altro. Il mio amico velista era poi di nuovo passato da lì, ma neppure lui aveva notizie di Fox. Ora non era solo sotto la linea di galleggiamento che si vedeva come il mare stava riprendendosi la barca, anche la coperta si stava coprendo di polvere, sabbia, foglie e tracce di uccelli. Era salito, il mio amico, all’osservatorio di Fox. C’era lo sgabello arrovesciato. Nessun’altra traccia.
Ho letto, direi quasi “studiato”, i quaderni che Fox mi aveva affidato. Ho cercato di mettere un po’ d’ordine in quello che contenevano e ho selezionato ciò che mi sembrava più importante oggi e qui. Ho rimaneggiato e integrato il tutto con citazioni e rielaborazioni dai suoi e dai miei scritti, mescolandoli tra di loro. Ho infine diviso il tutto in capitoli cercando di raggrupparli in un ordine che certo Fox non avrebbe condiviso, nemico com’era di titoli e generalizzazioni. Ingessavano, diceva, la continuità, l’originalità, l’imprevedibilità, lo scaturire del possibile, del divenire. È stato questo un lavoro che mi ha fatto rivivere i dialoghi, le emozioni, le passioni di quegli incontri nel corso dei quali ci siamo conosciuti e abbiamo condiviso ciò che, come più volte c’eravamo detti, miracolosamente “ci tiene”. Di Fox non conosco, come non lo conosce il mio amico velista né, almeno così dice, Vassili, nome, cognome e residenza. E neppure ho riferimenti di suoi parenti o conoscenti.
Ovunque tu sia Capitano Fox: buon vento!