Il Nome del Padre: da primo(-rdiale) finisce coll’arrivare sempre per ultimo – di Roberto Finelli
- Leggenda o inizio reale della storia?
Rileggere Psicologia delle masse e analisi dell’Io, il testo di cui si celebra quest’anno il centenario, insieme agli altri tre grandi saggi freudiani di psicologia sociale, quali Totem e Tabú (1912-13), Il disagio della civiltà (1929), L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), non può non significare rilevare il motivo di fondo del “nome del padre” che li attraversa tutti e in qualche modo li unifica. E sollecitarci alla domanda se la continuità della costellazione edipica, come motivo dominante della teoria della cultura e della società, non rischi di compromettere la teoria psicoanalitica di Freud, nel suo transito dalla psicologia individuale alla psicologia collettiva, curvandola da psicologia scientifica della storia in una filosofia della storia, gravata da troppo facili e semplicistiche presupposizioni, oltrechè dal loro troppo lineare e persistente operare.
A tutti è ben noto quale accadimento reale Freud abbia posto in Totem e Tabú a fondamento della storia umana e del passaggio da natura a cultura. La condizione della vita associata, ancora in una condizione di natura, sarebbe stata quella di un’orda primordiale in cui un maschio padre, prepotente e geloso, aveva il monopolio di tutte le femmine, escludendo dal loro possesso, tutti i figli maschi. Con la conseguenza che, come scrive Freud in quel testo:
Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. […] Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’’obbedienza posteriore’, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili[1].
La sostanza di Totem e Tabú sta, com’è evidente, nella dislocazione del complesso di Edipo, che viene sottratto da parte di Freud a una dimensione solo fantasmatica – di fantasia del desiderio nell’evoluzione della sessualità infantile – e trasferito invece in una dimensione di realtà, quale appunto evento primitivo e fondativo della storia umana, che pone la regola delle regole, ossia il divieto dell’incesto e che in tal modo è principio della più elementare organizzazione sociale, della più originaria restrizione morale e, con il recupero del culto del padre ucciso, dell’istituzione della religione.
In questo tradursi del complesso di Edipo dall’intimo della psiche alla storia, da atteggiamento di una costellazione desiderante nell’interiorità del bambino ad evento pubblico, consumato nella realtà di una prassi collettiva, non è chi non veda ovviamente un paradossale rovesciamento compiuto da Freud rispetto al canone epistemologico con cui aveva inaugurato ed aperto la scoperta della psicoanalisi: ossia l’abbandono della teoria della seduzione come scena reale, come esperienze di approcci ed assalti sessuali subite passivamente in genere da un bambino da parte di un adulto, a fronte invece di un processo fantasmatico e di una scena rappresentativa di sessualità che non proviene da un agito esterno al soggetto in questione.
Ma è proprio tale inversione di canone epistemologico, quanto a ciò che è questione di verità per la psicoanalisi – tale andare cioè non più dal reale al fantasmatico bensì dal fantasmatico al reale – che suscita profonde perplessità, a mio avviso, nei riguardi del trascorrere teorico di Freud dalla psicologia individuale alla psicologia storica: insomma induce a guardare con critico sospetto un programma di fondazione della storia basato sul “nome del padre”.
Certo, è ben vero che da molte parti veniamo sollecitati, da più tempo, ad essere indulgenti verso la narrazione freudiana e ad intenderla appunto solo come una narrazione, per la quale il mito dell’orda primordiale e del primo parricidio sarebbe il frutto solo dell’immaginazione di Freud, una costruzione fantastica ad hoc, concepita in solo per dedurne categorie e configurazioni utili e necessarie a interpretare la realtà del presente, quale appunto il formarsi moderno di una massa attraverso lo stringersi di legami libidici con un comune ideale dell’Io. Eppure tale indicazione a chiudere un occhio sulla verosimiglianza o meno della scena primordiale narrata da Freud appare essere del tutto irrispettosa, quando per nulla adeguata, riguardo al vero spirito e al grande lavoro che sta dietro ai testi freudiani di psicologia della storia. Inadeguata, perché rimuove quell’aspirazione costante di Freud, che ha connotato tutta la sua vita, a veder riconosciuta la sua opera come iscrivibile nella verità e nella dignità della scienza, dove per scienza s’intende in primo luogo il modello scientifico-matematico delle scienze della natura[2]. E irrispettosa perché lascia cadere la grande quantità di letture etno-antropologiche, sociologiche e storiche, compiute sempre da Freud, secondo la sua consuetudine rigorosa di studio, prima della stesura di quei testi, in particolare di quella di Totem e Tabú. Al cui contenuto Freud non avrebbe mai tollerato che si attribuisse la connotazione generica e fantasiosa di mito, perché, come si diceva, l’intenzionalità strutturante l’intera sua opera è stata appunto quella di far uscire la psicoanalisi dal mito e legittimarla nel riconoscimento della scienza.
Ma è proprio rimanendo sul piano delle scienze etnoantropologiche e della biologia evoluzionistica di Darwin, esplicitamente richiamato da Freud come ispiratore della scena originaria, che l’ipotesi freudiana di passaggio da natura a cultura a mezzo della pietra di volta del nome del padre si mostra, io credo, assai manchevole e poco sostenibile.
- Oranghi, scimpanzè e gorilla.
In primo luogo va notato che in Totem e Tabú la fonte del potere in un primordiale gruppo umano, che, per quanto primordiale è comunque già una originaria societas, viene collocata da Freud nella sola forza fisica di un patriarca, senza la causalità di alcun fattore sacrale, mitico-culturale, religioso. Per cui, conseguentemente, è la gelosia di un padre onnipotente, interessato unicamente al possesso delle proprie donne, che appare l’unico affetto determinante le condotte umane. Ma oltre questo riduzionismo emozionale così semplificatorio, ciò che deve essere sottolineato nell’ipotesi freudiana della presunta origine della storia da un maschio dominante geloso è la forzatura che a me sembra le pagine di Totem e Tabú abbiano imposto sul testo di Darwin, al fine di riuscire ad accreditare la tesi patriarcalista con l’autorità del massimo scienziato e naturalista inglese[3].
In the Descent of men il grande biologo mostra infatti di condividere come tesi di fondo sulle relazioni sessuali tra le popolazioni primitive quella dei matrimoni comuni o dei rapporti promiscui. Rifacendosi alla definizione di matrimonio comune avanzata da Sir J. Lubbok in The origin of civilization (1870), ovvero che tutti gli uomini e le donne di una tribù si comportano l’uno nei riguardi dell’altra come se fossero marito e moglie, Darwin scriveva che un certo modo di classificare i legami «ci porta a concludere che il matrimonio comune e gli altri vincoli molto deboli [quanto alla non presenza ancora di forme matrimoniali ristrette] siano stati la forma di unione originariamente universale»[4]. Rifacendosi ai lavori di altri antropologi come il Primitive marriage di John McLennan (1865), a un opuscolo sul sistema classificatorio delle relazioni di L. H. Morgan[5] e a citazioni indirette di Bachofen, il naturalista inglese a proposito di una originaria proprietà comune, per così dire, delle donne, poteva scrivere al riguardo quanto segue:
La promiscuità di molti selvaggi è sorprendente, ma bisognerebbe avere un maggior numero di prove prima di concludere che i loro rapporti debbano considerarsi completamente promiscui. Nonostante ciò, tutti quelli che hanno studiato a lungo questo argomento e le cui conclusioni sono molto più attendibili delle mie, sono convinti che il matrimonio comune (tale espressione ha varie sfumature di significato) fu originariamente l’unica forma di accoppiamento, incluso quello fra fratelli e sorelle[6].
Certo l’argomento è complesso e assai vasto, come nota lo stesso Darwin, ma a favore della tesi del matrimonio comune egli aggiunge vi sia una prospettiva antropologica che assume il punto di vista olistico dell’interesse della tribù e della sua riproduzione su quello dei suoi singoli componenti: «La prova indiretta della tesi a prevalenza iniziale dei matrimoni comuni, è convincente e si basa principalmente sui termini dei rapporti esistenti fra i membri della stessa tribù, che implicano, un rapporto con la tribù e non con uno dei genitori»[7].
Nel suo testo quindi Darwin aderiva esplicitamente alla tesi che «il matrimonio comune è stata la prima forma di unione prevalente»[8] e che «il rapporto comune era l’uso originario e quindi profondamente rispettato dalla tribù»[9]. Tanto che proprio per confermare quanto un costume di comunanza delle donne e di promiscuità sessuale abbia caratterizzato le primitive società umane Darwin introduceva in quelle pagine l’argomento di una generale attitudine ad una permanenza di coppia assai più presente nel mondo animale, laddove di relazioni e di accoppiamenti promiscui si poteva parlare secondo il grande biologo solo con la comparsa del mondo umano. «Dall’analogia con gli animali, e particolarmente con quelli più vicini all’uomo e dalla forza con cui il sentimento della gelosia si manifesta in tutto il regno animale, non riesco a convincermi che anticamente abbia prevalso un rapporto assolutamente promiscuo prima che l’uomo raggiungesse il suo posto attuale nella scala zoologica». Di lì Darwin passava, nella stessa pagina, a citare diverse tipologie di accoppiamento permanente nel mondo dei quadrumani, che fossero oranghi o scimpanzè o gorilla, gli uni, tendenzialmente solitari, che vivono con la femmina solo una parte dell’anno, i secondi che sono monogami, si accoppiano per tutto l’anno con la stessa compagna e spesso sono socievoli e vivono in branchi numerosi, i terzi che sono poligami ed in essi ogni famiglia fa vita a sé. Per cui, aggiungeva, «possiamo concludere che il rapporto promiscuo alla stato di natura è molto improbabile».
E solo a quel punto egli formulava l’ipotesi, che l’uomo primitivo, in analogia o in continuità con il mondo animale, potesse aver vissuto secondo due modalità: o quello di vivere in piccole comunità (small communities), dove aveva, monogamo o poligamo che fosse, da preservare le sue donne dalle insidie degli altri uomini; oppure, come nel caso del gorilla, vivere poligamo e solitario, cacciando via dal gruppo i figli e i maschi più giovani.
Perciò, guardando indietro nel corso del tempo, e tenendo conto delle abitudini sociali dell’uomo di oggi, l’ipotesi più probabile è che egli vivesse originariamente in piccole comunità, ognuno con una sola moglie, o con molte, se molto potente, gelosamente custodite dagli altri uomini. Oppure egli può essere stato un animale socievole ed aver vissuto con più di una moglie come il gorilla; tutti gli indigeni sono concordi nel dire che ‘in ogni banda si può vedere un solo maschio adulto; quando i maschi giovani crescono, nascono delle dispute per la supremazia e i più forti uccidono e cacciano via gli altri fino a rimanere i capi incontrastati della comunità’[10] (Darwin, pp. 437-439).
Ora nell’utilizzazione che in Totem e Tabú, e di lì in tutte le altre opere di psicologia collettiva, Freud ha fatto di quest’ultimo passo, sembra evidente che egli abbia lasciato cadere del tutto la prima via, indicata da Darwin, della presenza di un possibile ambito originario, per quanto ristretto, di socializzazione, e abbia di conseguenza assolutizzato il paragone con il gorilla. Ma ancor più vale sottolineare che nel testo freudiano non v’è riferimento alcuno alla tesi più generale sostenuta da Darwin riguardo al matrimonio comune come primitiva forma di socialità prevalente tra gli umani. Due omissioni che aprono molti dubbi, almeno a mio parere, sul romanzo storico di Freud sulla presunta origine della civiltà umana da un’orda primordiale sotto il dominio illimitato di un maschio alfa.
Ma la forzatura che Freud compie in tutte le sue opere storiche nel fare dell’Edipo e del nome del padre il principio originario della socializzazione umana, che in quanto origine fondativa continuerebbe ad operare anche nelle società massificate dell’oggi, si fa tanto più evidente, io credo, quando si confronti la sua etno-antropologia psicoanalitica con l’elaborazione ormai già classica dell’antropologia e delle scienze dell’uomo del ‘900.
All’interno delle società primitive il divieto dell’incesto, insieme a una distribuzione equilibrata delle donne (quale il bene per eccellenza), vengono infatti considerati, dopo gli studi, ormai classici, di Marcell Mauss sull’economia del dono e i saggi di antropologia strutturale di C. Levi-Strauss, come spiegabili solo sulla base di una dimensione olistica di socialità, in cui ben lungi dalla gelosia o dal dominio di un primate/patriarca, ciò che regge la vita e detta le regole della cultura è la riproduzione dell’esistenza del gruppo originario, posto che un individuo autonomo e affidato ai suoi istinti in quel contesto non avrebbe potuto sopravvivere. Nella tradizione olistica della sociologia francese inaugurata da E. Durkheim, proseguita da M. Mauss e radicalizzata in versione strutturalista da C. Levi-Strauss[11], la proibizione dell’incesto rientra infatti nel quadro più generale di una economia fondata sul dono e la reciprocità, di cui lo scambio costituirebbe il fenomeno sociale totale, che abbraccia il cibo, i manufatti, e la categoria dei beni più preziosi rappresentata appunto dalle donne. Queste costituiscono la moneta, il denaro delle società primitive, in quanto mezzo di scambio e di circolazione esogamica tra i diversi clan, perché non sono solo oggetto di desiderio sessuale ma perché svolgono funzioni essenziali nella divisione del lavoro e nella riproduzione dei membri del gruppo sociale. Dove, com’è evidente, si apre una prospettiva lontanissima da quella freudiana, perché l’origine della società e della cultura umana, come insieme di regole che assicurano l’esistenza di un gruppo, non è limitata ad una economia fondata solo su pulsioni libidiche, anzi fondata sull’unico fattore emozionale della gelosia, perché rimanda ad una economia polifattoriale, volta a soddisfare bisogni ed esigenze, materiali e valoriali, più ampi ed articolati della vita umana.
Insomma, in conclusione a queste brevissime e schematiche considerazioni, non ci si può trattenere dal rilevare quanto la teoria della psicologia delle masse di Sigmund Freud, nel suo rimando all’evento originario già trattato in Totem e Tabú, soffra di una intrinseca difficoltà, per non dire aporia, nell’avere scambiato, come a me sembra, ciò che è primo nella psiche individuale, l’Edipo e la costellazione libidico-emozionale attorno al Nome del Padre, con ciò che, secondo la ricostruzione di Freud sarebbe stato il primordiale nella storia dell’umanità. Questo scambio tra ciò che è primo nella mente individuale – primo nel senso che ne è il fondamento e la struttura in permanenza – con ciò che è stato il primitivo, il primordiale, nella storia, pone infatti più problemi di quanti non ne risolva. Giacchè assegna a ciò che sta all’inizio della storia e che, come tale, essendo nel tempo, non può che essere superato dal divenire della storia e dalla diversità delle sue tipologie di organizzazione sociale, la caratteristica del senza tempo della formazione inconscia dell’Edipo. Pretende cioè di applicare al tempo della storia l’eternità del “senza tempo” ed infatti pretende di spiegare i fenomeni di massa del mondo contemporaneo, verosimilmente del primo Novecento, a partire dalla potenza sessuale e dalla monocrazia escludente di un padre-padrone.
Ma se, pensando la storia e la psicologia collettiva la psicoanalisi di Freud non può che pensarla alla luce del mondo non storico dell’eterno, ossia delle costellazioni psichiche sempre al sottofondo operanti o pronte ad operare, essa, com’è evidente, cade nella massima contraddizione con sé medesima, perché cade nelle strutture archetipiche e senza tempo della psicologia analitica di Jung, dove appunto il primo è anche il primordiale e il primordiale è anche il primo.
Tutto ciò ovviamente può anche non destare perplessità teoretica e filosofica a chi ama trapassare con facilità dallo storico allo strutturale, dal sociale all’individuale, dall’essere dell’eterno all’accadere nel tempo. Ma per chi frequenta ancora una filosofia dei distinti l’interpretare i fenomeni sociali alla luce del Nome del Padre sembra, di fondo, con tutto il rispetto per la genialità immensa del maestro viennese, un atto d’imperialismo scientifico, per il quale la psicoanalisi pretende di annettersi e di ridurre a sé un campo dell’esperire umano che non è propriamente il suo e che va letto e discusso con ben altre categorie.
- Il Nome del Padre non va al mercato.
Ma pure bisogna essere accorti e moderati e prudenti in tale genere di critica. Perché è ben vero che la fenomenologia della psiche collettiva come viene esposta da Freud nel saggio del ‘21 presenta delle considerazioni di profondo interesse che contribuiscono in larga misura a interpretare configurazioni /istituzioni della società moderna, come il cesarismo, l’idolatria del Führer, il culto della personalità, la formazione di totalitarismi e populismi. Vale a dire che le analisi freudiane dei legami libidici e d’innamoramento che corrono tra massa e capo, con il rilievo che viene dato al costituirsi del super-Io come oggetto d’amore proiettato sulla figura del duce, rappresentano delle pagine comunque esemplari e di profonda originalità riguardo al modo in cui una moltitudine si socializza e si unifica nella figura, resa sovraumana, di un Uno.
Com’è ben noto, nell’ambito della cultura moderna ci sono stati diversi percorsi sia di storia della filosofia che di storia del pensiero politico volti a disegnare il modo in cui un Uno diventa sovradeterminato e onnipotente rispetto alla moltitudine dei molti uno. Sono tutti modi, in particolare quelli del Leviatano di Hobbes e della riflessione di Hegel sulla nascita del cesarismo nell’antica Roma repubblicana, costruiti su un modello di sottrazione del potere dei molti e di sovraccumulazione del medesimo da parte di un solo Uno. Sia attraverso l’istituzione di un contratto da società di natura a società civile in Hobbes, sia attraverso il decadere da cittadini a proprietari privati che lasciano il simbolo del loro essere in comune alla persona dell’autocrate imperiale in Hegel.
Ma appunto nella ricostruzione geniale di Freud la delega al Führer non si realizza attraverso problematici patti o attraverso sottrazione di qualcosa ai molti bensì attraverso un’opera profonda di identificazione e di valorizzazione che proietta nel capo la medesima valorizzazione feroce e manichea che ciascuno dei molti compie inconsciamente quanto ad assolutezza e identità escludente del proprio Super-io. Per dire cioè che Freud, attraverso la messa a tema del dispositivo che all’interno del Sé costruisce la macchina teologica e diabolica dell’Ideale dell’Io, è riuscito a mettere in campo legami assai più profondi di socializzazione delle masse attorno ad una figura carismatica, dato che sono legami che hanno le loro radici nei processi affettivi dell’interiorità.
Eppure c’è qualcosa di altro che residua, e in modo inquietante, nella teoria freudiana della massificazione attraverso il Nome del Padre. Ed è ovviamente il confronto, che non si può evitare, con le teorie moderne della massificazione che non fanno uso per nulla del Nome del Padre, anzi lo rifiutano del tutto come categoria interpretativa. Un confronto che si impone e che sollecita a trovare, invece della reciproca estraneità, una mediazione feconda tra le due impostazioni, a meno di non voler rendere utilizzabile la saggistica storica di Freud per la sola analisi dei fascismi, e in tal caso perderebbe ogni interesse per noi, o a meno, ipotesi per noi ancora più insostenibile, di voler identificare tout court la modernità con il fascismo.
La modernità nasce sul piano della vita sociale, com’è ben noto, quando la società civile si separa dallo Stato politico e il tempo storico si organizza secondo la compresenza di questo strutturale dualismo. La distinzione della sfera della società civile da quella delle istituzioni e del potere politico vede l’istituzione del mercato e della struttura economica come il luogo sociale in cui per eccellenza è assente il Nome del Padre, ossia il piano delle relazioni di natura personale. Il mercato economico moderno è cioè per definizione il luogo in cui nessuno dipende da nessuno attraverso relazioni personali perché ognuno dipende da tutti, in una rete di relazioni universali, fino all’estensione mondiale della globalizzazione. L’impersonalità del mercato è la fondazione originaria della libertà moderna, giacchè essere attori liberi di scelta di lavoro, di consumo e di vita, implica avere il nesso sociale fuori di noi e non dentro di noi, presupposto alla nostra nascita, come avviene in ogni società premoderna. Solo l’esteriorità del nesso sociale garantisce la libertà moderna, ed infatti il nesso sociale per antonomasia è rappresentato e simboleggiato dal denaro: ovvero una tipologia di socialità che può essere portata in tasca ed essere allontanata da sé ogni qualvolta se ne abbia voglia.
È solo Hegel che, malgrado le chiacchiere leggendarie che si fanno sul suo statalismo filoprussiano, ha ben compreso e concettualizzato per primo il dualismo delle sfere, tra “economico” e “politico”, che caratterizza il moderno e quanto l’ambito economico nella sua totalità sia sinonimo di spersonalizzazione e di assenza di rapporti autoritari intersoggettivi, cioè di assenza del Nome del Padre[12]. Da questo punto di vista è facile dire, io credo, che Kant ed Hegel siano i due eroi eponimi della modernità: Kant per aver teorizzato per primo l’identità del soggetto come sintesi di facoltà eterogenee ed Hegel per aver teorizzato per primo l’identità della società moderna come fondata sulla compresenza strutturale di ambiti distinti di socializzazione. Per cui se non si passa attraverso lo studio di Kant e di Hegel, rigorosamente da frequentare insieme, si rischia, io credo, di comprendere assai ben poco del mondo in cui viviamo.
Ma nello stesso tempo se rimaniamo nell’orizzonte di una socializzazione moderna a mezzo dell’istituto del mercato mi sembra che non facciamo passi significativi per giungere a quella mediazione con la psicologia sociale di Freud che invece stiamo cercando, per non privarci comunque della fecondità della sua visione. Perché se rimaniamo nell’orizzonte della merce, della spersonalizzazione del legame sociale, della reificazione del denaro, dell’alienazione nel consumo, rimaniamo in un trasumanare del soggetto umano in cosa, in un farsi oggetto del soggetto che connota tutta la sociologia moderna da Simmel alla Scuola di Francoforte e che a me sembra muovere da una presupposizione originaria e piena di soggettività, obbligata poi al rovesciamento di sé nel corso della modernità: la quale, proprio perché presupposizione e valorizzazione di soggettività, mi sembra entrare assai poco in dialogo e in sintonia con l’impostazione generale della psicoanalisi di Freud. Tanto da potersi leggere, io credo, parlando assai en gros, tutta la vicenda della teoria critica francofortese come basata sulla narrazione di una soggettività originariamente sintonica con la natura e sé medesima e destinata poi a rovesciarsi e ad alienarsi tanto nell’astrazione degli universali concettuali quanto nell’astrazione delle merci e nel godimento del loro consumo, sottoposta e sedotta com’è dall’industria culturale e dal totalitarismo della pubblicità.
- Un soggetto tuttofare.
Ma oltre la teoria della massa attraverso alienazione, e la mitologia di un soggetto che si fa cosa, c’è un’altra teoria della massificazione che appare assai utile qui richiamare e che non ha bisogno di facili antropocentrismi e di presupposizioni indebite di soggettività. È quanto si può estrarre dall’immane corpo teorico di Marx, a patto che lo si affranchi dalla cornice metafisica del materialismo storico e dalla filosofia della storia costruita sul presupposto e sulla potenza dell’homo faber. Questo Marx, per noi più prezioso, e che potremmo chiamare il Marx dell’astrazione contro il Marx della contraddizione, ci ha dato tutti i materiali per giungere a concepire Das Kapital come un soggetto non antropomorfo, costituito da ricchezza non concreta ma monetario-astratta, la cui natura solo quantitativa ha una destinazione inevadibile e inarrestabile di accumulazione.
Certo bisogna mettere Marx contro se stesso per estrarne simili tesi, e bisogna farlo in un modo radicalmente diverso da quanto ha fatto L. Althusser e la sua scuola che, da sempre rifiutando la tradizione hegeliana, ha rigettato ab imis l’ipotesi di un principio unitario di totalizzazione sociale e ha preferito parlare di una diversificazione delle pratiche sociali che non si riesce a vedere come si tenga insieme nella sua molteplicità. Laddove mettere Marx contro se stesso significa, nella mia ipotesi interpretativa, lasciar cadere il Marx della contraddizione e della lotta di classe, il Marx del materialismo storico e della celebrazione dell’agire dell’homo faber, per mettere in evidenza tutti quei luoghi della sua opera (direi soprattutto mettendo insieme lettura dei Grundrisse e di Das Kapital) da cui si estrae la messa a tema di un vettore di tendenziale universalizzazione della sua istanza quantitativo-accumulativa, che progressivamente tende a inglobare nella sua logica l’intero mondo del vivente, umano e naturale. Tutti quei luoghi cioè in cui Marx giunge a intravedere, lo ripeto: malgrado la sua passione politica e la sua identificazione come padre del proletariato rivoluzionario, il capitale come il vero soggetto della modernità, identificandolo secondo un’analogia fortissima con il Geist, lo Spirito di Hegel, strutturato, com’è noto, secondo il circolo del presupposto-posto: ovvero quale soggetto che vive togliendo tutti i presupposti esteriori alla sua logica, presupposti come forme di vita, sociale, culturale, filosofica antecedenti il suo presente, e interiorizzandoli alla luce della sua logica, li riproduce come nuova superficie del suo apparire[13].
Vale a dire che il Marx, che qui a noi maggiormente preme mettere in campo, è quello che ha potuto intravedere la struttura della scienza sociale moderna, e con essa la struttura del Capitale, secondo il nesso hegeliano di Wesen und Schein, di essenza ed apparenza: cioè come il sistema di un dispositivo impersonale costruito sull’estrazione incessante di plusvalore da parte di umani ridotti alla condizione monoculturale di portatori solo di forza-lavoro e contemporaneamente nella dissimulazione di questa sua asimmetria di classe attraverso la superficie della libertà di mercato, di scelta e consumo delle merci, degli istituti della democrazia fatta di cittadini tra loro liberi ed eguali.
La tesi che qui avanziamo è che dunque il Marx dell’astrazione ci abbia dato le chiavi per interpretare la modernità, ben al di là della distinzione hegeliana tra società economica (bürgerliche Gesellschaft) e Stato politico (politische Staat), come dualismo tra essere ed apparire, secondo il quale le relazioni asimmetriche e di dominio tra le classi e i gruppi sociali che animano l’interiorità non visibile della vita sociale compaiono alla superficie, secondo una dialettica di opposizione e non di contraddizione, come specchi di una configurazione appunto opposta, dove la diseguaglianza prende la forma dell’eguaglianza e dove lo sfruttamento e il comando appaiono come contratti e scambi di equivalenti.
Il sistema del capitale concepito secondo l’analogia con il Geist hegeliano è dunque un sistema istituito sulla produzione e accumulazione di ricchezza astratta, che penetra e svuota di logiche autonome il mondo del vivente e del concreto, lasciandone solo una pellicola, uno strato di superficie, affinchè con esso dissimuli la sua vera identità. Così le masse di coloro che per definizione non sono e non sono stati mai soggetti, perché meri portatori di forza-lavoro, si traducono nei soggetti apparenti del libero consumo e della libertà politica, dando vita ad una massificazione che non è fascista ma strutturalmente democratica, perché chiave di volta di una società di classe che vuole apparire e celebrarsi come società senza classi.
Se si muove da questo marxismo, non della contraddizione, ma dell’astrazione non si può che guardare alla nostra contemporaneità, non come tempo della postmodernità, scandito da una estenuazione e fine della modernità, bensì, all’opposto, come tempo della ipermodernità, dove il “soggetto capitale” che ha attraversato e forgiato la modernità si è fatto soggetto sempre più globale e insieme fattore di socializzazione a tendenza sempre più universalizzante. Perché il soggetto capitale si fa sempre più: a) soggetto produttore di valori d’uso; b) soggetto riproduttore di rapporti sociali; c) soggetto produttore di ideologia, ossia di visioni e rappresentazioni attraverso le quali i membri della società percepiscono e distorcono il loro essere nel mondo.
Vale a dire che attraverso lo svuotamento del concreto da parte dell’astratto, il soggetto-capitale produce una superficializzazione del mondo e dell’esperire, che riconduce la genesi del sapere di massa paradossalmente nell’agire della stessa struttura economica, senza bisogno più alcuno della mediazione e della funzione tradizionale degli intellettuali. Il tempo contemporaneo dell’ipermodernità è dunque il tempo di un autòmaton, di un inconscio della socializzazione, che struttura e conforma la realtà alla sua logica di accumulazione sempre più illimitabile di ricchezza astratta, ma che nello stesso tempo costruisce la maschera rappresentativa della sua dissimulazione.
Questo significa che l’individuo strutturalmente iper-moderno, quanto al proprio essere, cioè quanto alle funzioni produttive e riproduttive della sua vita materiale, non può che farsi individuo post-moderno quanto a forme e contenuto della sua coscienza, perché il suo esperire è fatto solo di superfici, di esteriorità, per definizione frammentate ed esteriori tra di loro, che hanno rigettato categorie come sintesi, totalità, invarianze, sistema, nei residui spettrali di una metafisica sociologica e filosofica ormai presuntivamente superata.
Ma un’individualità così invasa dall’astratto capitalistico, così resa funzione dell’attività del capitale, non può che essere astratta in sé medesima, vale a dire, del tutto scissa e forclusa dall’accesso alla propria interiorità. L’individualità iper(post)moderna è infatti impedita nel proprio sentire, perché consegnata, per principio, all’esteriorità, alle immagini, alle informazioni, ai significati che provengono dall’esterno ed occludono i suoni del proprio interno. È una individualità costruita solo sull’asse orizzontale ed impedita all’accesso al proprio asse verticale e dunque impossibilitata a trovare il senso del proprio vivere nel sentire del proprio corpo emozionale.
Una umanità del genere soffre la sua patologia più diffusa, soprattutto negli strati giovanili, nel soffrire d’indeterminatezza, nel non avere cioè la possibilità di trovare un radicamento profondo di senso dentro di sé.
Impossibilitata ad essere padre a sé stessa non può allora che tornare a pronunciare il nome del padre e a farsi massa populista sotto la guida di leader fantoccio capaci solo di pronunciare, secondo una delle poche cose giuste dette da E. Laclau, «significanti vuoti», cioè parole prive di un rapporto con la realtà effettiva e la sua complessità.
Ma è dunque solo qui, nella connessione più profonda con quell’inconscio sociale, quell’autòmaton fatto di schede impersonali ed obbligate dell’agire, che è il capitale – solo nella connessione con l’inconscio messo a tema da Marx – che riprende valore e significato il Nome del Padre del Freud di Massenpsychologie.
Per dire insomma, alla fine di queste brevi note, che Marx e Freud possono certamente incontrarsi, integrare e scambiarsi i loro pensieri: a patto, però, di rimanere ad operare e a trarre conoscenze, legalità e conclusioni, ciascuno nell’autonomia del proprio campo.
Note:
[1] S. Freud, Totem e Tabú, in Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino 1979, pp. 145-147.
[2] Sull’«autofraintendimento» scientifico di Freud e la sua pretesa, per una istanza ancora fortemente positivista, di ricondurre a scienza la psicoanalisi, la cui natura appare invece essere ben lontana dal modello naturalistico di scienza, ha scritto pagine di rilievo J. Habermas in Erkenntnis und Interesse (1968).
[3] Cfr. su questo tema l’ottimo saggio di Stefano Berni, Darwin, Freud e l’origine della società: tra antropologia e diritto, in «Dialegesthai», anno 17, 2015.
[4] Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, tr. it. di M. Migliucci e P. Fiorentini, Newton Compton, Roma 2018, p. 437.
[5] Citato da Darwin nella nota 81, p. 437 del suo testo e contenuto in Proc. American Academy of. Sciences, vol. VII, febbr. 1868, p. 475.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 438.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 439. Darwin qui cita un articolo di Th. Savage e J. Wyman, Notice of The External Characters and Habits Troglodytes Gorilla. A New Species of Orang from The Gaboon River, in «Boston Journal of Natural History», Vol. V. December, 1847, pp. 417-442 (ora all’indirizzo www.biodiversitylibrary.org). In questo saggio era assente il tema della gelosia ma si parlava della lotta per le femmine, sostenendo tra l’altro che, data la maggiore intelligenza degli scimpanzè rispetto ai gorilla, l’ipotesi di una discendenza degli umani era assai più verosimile che derivasse dai primi che non dai secondi. Cfr. Stefano Berni, Darwin, Freud e l’origine della società: Tra antropologia e diritto, op. cit., n. 20.
[11] Delle Strutture elementari della parentela di C. Levi-Strauss (ed. it, a cura di A. M. Cirese, Feltrinelli, Milano 1978), cfr. al riguardo in particolare i capitoli II-V (pp. 51- 138).
[12] Il testo classico di riferimento di Hegel in tal senso sono ovviamente le Grundlinien der Philosophie des Rechts del 1821.
[13] Su questo modo di leggere l’opera matura di Marx nel suo riferimento al Geist di Hegel mi permetto di rinviare ai miei testi, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo. Saggio su Marx, Bulzoni, Roma 1986; Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014. Ma per quanto riguarda la ricostruzione della vicenda del marxismo dell’astrazione in Italia cfr. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2005 (nella versione della prima edizione, con particolare riferimento all’ultimo capitolo, Marx e la realtà dell’astratto).