L’altro, liberamente, l’inevitabile – di Alberto Zino
L’altro, liberamente, l’inevitabile
tre elle: un avverbio, un aggettivo, un altro.
La fine del libro
Compiere un’opera: non è portarla a termine.
La fine del libro, uno scritto, non è un compimento
compi mento,
ma non è, in fondo,
il mentire del compiuto.
L’opera ha il gusto di mentire intorno alla sua fine.
Gioco in finito.
Dentro la sua fine:
per toglierla, per lasciargliela?
In tal modo l’opera, pur avendo la necessità di lasciar
gustare
la sua apparente compiutezza – nel piacere di un punto,
di un così sia,
di un augurio di buon viaggio nel mondo delle parole –
lascia, rilascia
alla fine
la domanda.
Da che parte stiamo
L’immagine dell’altro.
L’immagine appartiene –
che parte, da quale parte,
un pezzo, qualche corpo –
all’altro.
Appartiene?
A parte, sta da parte, quale parte, da che parte viene.
Appartenere: Ad– e pertĭnere:
«stendersi, giungere, appartenere, riguardare, spettare».
pertinente, tenente per
la pertinenza, l’a-pertinenza.
In questi tratti definitori, che ci vengono[1]
dai tempi e dalle loro notti,
si racconta una storia,
mai contenibile appieno,
piuttosto racconto,
figure,
volto di fiaba.
Con grazia
Appartiene. A cosa, a chi? A quale altro, di grazia?
Venire al mondo nel mondo dell’Altro, essere parlati dall’Altro,
implica che l’umano stia un po’ in pensiero. Altrimenti
non parleremmo di un domandare incessante.
L’essere è domanda perché si viene al mondo
in un mondo che è dell’Altro.
Mondo cui non apparteniamo se non perché apparteniamo all’Altro.
Nulla si sarebbe sviluppato; per questo a volte in questi anni
abbiamo insistito sulla critica radicale al concetto di “sviluppo”
-, né domandare né inconscio né pensiero.
La nostra umanità deriva da questa violenza originaria.
Altro sarebbe darsi il permesso, la strada, il viatico,
per volere liberamente l’inevitabile
stare nel campo dell’Altro in quanto soprattutto
infinita domanda.
Un desiderio dell’Altro, composto con grazia,
che non lo riduca a risposta,
cosa tra cose,
ma lo tenga alto in quanto domanda,
al di là della sua presenza o assenza in termini oggettivi, oggettuali.
Invece, gettato qua e là.
Solo
Se l’umano, nel momento in cui viene a mancare l’altro di riferimento, non entra nel giro della mancanza in quanto gioco, se ripudia totalmente questa esperienza, l’esito è la pretesa che l’altro debba esserci
solo assolutamente.
Sono gli scherzi della solitudine.
In tale stato d’animo, è difficile poter intervenire, perché in genere nessuna proposta può essere a misura di un assoluto.
I vari gradi del rifiuto (dell’inconscio, del domandare, dell’esistere), costruiscono una condizione sempre più convincente, sempre più risarcente, sempre più impenetrabile e sola.
A buon mercato
Qualsiasi godimento,
che perfino la migliore delle analisi
possa lasciar intravedere, qualunque lealtà,
su cui l’analisi possa puntare nella sua grazia,
sarà mai a misura della realtà di quell’assoluto.
Per questo Freud diffida l’analista dal fare opera
di convincimento o di allearsi con le parti
dell’io presunte sane, imponendo in tal modo
il necessario distacco da ogni psicologia e psicoterapia.
Lottare con l’assoluto alleandosi con la coscienza
resta sicura sconfitta.
Sfortunatamente, i suoi resti restano.
Non c’è piacere simbolico,
non c’è piacere del campo umano,
– che sarebbe tuttavia il campo del domandare -,
che sia paragonabile al godimento dell’immaginario.
Tale supposta goduria non costa niente.
Edificare un assoluto è opera a buon mercato.
Può non sembrare del tutto evidente.
Alla prova dell’essere solo, vi si cade facilmente.
Desiderare comporta una fase di difesa che lo rende identico a non voler desiderare. Non voler desiderare, è voler non desiderare[2].
Il diavolo in persona
D’altra parte – forse non è così altra -, il 17 ottobre 1913 Ludwig Wittgenstein scrive, in una breve lettera a Bertrand Russel, «L’identità è il diavolo in persona»[3]. Dodici giorni dopo, in un’altra lettera, aggiunge: «L’identità, il diavolo in persona, è immensamente importante. Assai più di quanto pensassi»[4] e nella successiva corrispondenza confessa all’amico il timore di non riuscire a venire a capo della questione.
Tratta menti
In filosofia, una domanda [question] si tratta «come una malattia»[5].
Si tratta. Dell’impossibilità di educare al dolore o dell’impossibilità di educare il dolore? Una cosa è il dolore umano, altra quello del sintomo. Il secondo ha la funzione di coprire il primo, il dolore dell’esistere in quanto tale. Il dolore autentico, come lo chiamiamo, assegnandogli uno spessore etico. La psicanalisi, un’analisi, non ha il compito di cancellarlo. All’opposto, dovrebbe essere una marcia di avvicinamento ad esso, scavalcando il dolore del sintomo.
Ma nessuna proposta analitica, alcuna proposta leale,
è a misura
della cosa più sleale
– letale, s’il vous plaît –
che esista; ovvero
la credenza in qualcosa, ma alla fine in me stesso, come onnipotente, assoluto, eterno. Da questo punto di vista l’analisi è sempre un lavoro di recessione rispetto a siffatte istanze così violente. Si tratta di una lealtà non semplice da conquistare: se una persona da anni è abituata a mentirsi, a credersi onnipotente, assoluto o uno straccio di uomo o di donna,
perché questo ab-solute
– absolutus, ‘libero da qualsiasi vincolo’,
si diceva, nel tredicesimo secolo –
era stato promesso ed è stato, mon dieu, revocato.
Il dolore dunque impossibile da educare è il dolore umano, o dell’esistere. È invece a quello del sintomo che si rivolgono gli sforzi di una, eventuale, psicanalisi.
Dunque, parole
«io mi accontento sempre del frammentario e dell’incompiuto»[6].
La più forte eticità è la capacità
di non sentirsi a volte del tutto a casa,
poter fare a meno di
sentirsi a casa propria.
Vuol dire – tra l’altro, questa possibilità –
il tentativo, il rischio, di essere
capaci del disagio,
come possibilità etica. Non solo
non poter parlare in nome del reale,
ma soprattutto – o, se si vuole,
proprio di conseguenza –
non voler parlare in nome di qualche proprietà;
ma solo, di volta in volta, per ascoltare qualche
opportunità, tratto di legame in forma di parola.
Uno psicanalista
Non è per caso che non lo si trova dove si pensa di trovarlo, ovvero nella presenza frontale del suo corpo, dei suoi occhi, dove sarebbe più possibile reperirlo. Allora si è costretti a cercarlo nella parola: la sua, supposta, presunta, e per questa via si impara a cercare se stessi nella propria parola, forse in quella che si credeva propria, ed è il corso dell’analisi.
Lo psicanalista resta forse uno dei pochi ad offrire questa parola che è sempre demi, a metà, sempre sulla strada, nella costitutiva incertezza delle sue voci.
Una possibilità di porre in questione dogmi, permettere che si possa parlare di tutto, senza paura e senza vergogna.
A suggerire, per questo, il silenzio.
La posta in gioco dell’analisi – il suo fine, la sua fine, il suo vuoto parlante, la sua domanda – non è la felicità, che è uno stato d’animo, né altre forme di calma consolazione. È la libertà. L’analisi non ha altro fine.
La libertà in questione.
Proàiresis
Proàiresis. Parola ostica e dura, come gli scogli dell’Egeo. Vuol dire “libertà”. Il verbo àirein significa “prendere” e pro indica il davanti, di fronte. Forse, qui l’antico pro chiama un movimento “in avanti”. Il prendere in avanti, prendere verso avanti, perché diventa “libertà”?
Perché la persona prova a farsi carico della domanda impossibile – la morte che è nella vita, il domandare inesausto, il non, l’Altro, l’assenza – , a lasciarsene interrogare. Può autorizzarsi a prendere su di sé il peso del domandare più umano – il giunto tra la parola e la morte – “prenderlo guardando avanti”.
Aristotele, nell’etica dedicata a Nicomaco, scrive che la proàiresis (προαίρεση), appartiene alla morale. Per lui, significa che non è della natura. Non è dei boschi né del mare. È dello zoòn politikòn, dell’animale sociale, dell’uomo nel rapporto con sé e con gli altri. La libertà non è naturale. Viene indotta dallo stare insieme degli uomini. La libertà si esercita su ciò che dipende da noi. Non sulla pioggia o il buio della notte. Nel linguaggio di una psicanalisi in atto, traduciamo: la libertà fa esercizio sul nostro autorizzarci. A che?
L’altro, liberamente, l’inevitabile
L’altro, liberamente, l’inevitabile
tre elle: un avverbio, un aggettivo, un altro.
Epitteto, stoico. Scrive che il bene dell’uomo si situa nella proàiresis, nella libertà. Aggiunge: anche il suo male. Tutti gli eventi sono determinati, spiega; la libertà consiste allora nel volere liberamente l’inevitabile.
Ciò si pone di diritto al fondo dell’etica analitica.
Freud scrive: qualunque cosa sia, bisogna andarci.
È qui, quando abbandona la volontà
di fondarsi su qualcosa di reale,
lascia la realtà per la lealtà,
è qui che nasce la psicanalisi
e l’alba del suo pensiero critico.
Non si tratta più di riportare i ricordi, le tracce mnestiche, alla realtà, ma il contrario. La psicanalisi comincia a diventare critica, dopo i passi incerti degli esordi, quando è finalmente la realtà a essere riportata alla parola. Come dispone la regola fondamentale: alla sua lealtà. Qualunque parola sia, bisogna andarci.
Volere altro, l’inevitabile altro.
Volerlo liberamente.
Note:
[1] Come sempre, quando si tratta di parole.
[2] J. Lacan, Le Séminaire, livre XI, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Seuil, Paris 1973, p. 213.
[3] L. Wittgenstein, lettera n. 25 a Bertrand Russel, 17 ottobre 1913, in Briefwechsel, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1980, p. 241.
[4] Lettera n. 27 a Russel, 29 ottobre 1913, ibid., p. 242.
[5] Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, § 255, Einaudi, Torino 1967, p. 121.
[6] Lettera di Freud a Lou Andreas-Salomé, novembre 1915; in S.Freud, L. Andreas-Salomé, Eros e conoscenza. Lettere 1912-19369, Bollati Boringhieri, Torino 2010.