Il dolore per ciò che accade e la morte – di Alvise Marin

Il dolore per ciò che accade e la morte – di Alvise Marin

4 Novembre 2021 Off di Francesco Biagi

Quando un evento doloroso, che coinvolge la nostra vita, lacera quella rete di significanti con la quale attribuiamo un senso a ciò che accade e ci accade, l’abisso senza fondo del non senso del Reale, traluce dallo strappo venutosi a creare. Ondeggiamo in preda ad un horror vacui che ci nausea e sentiamo la struttura dei significanti che sorregge la nostra esistenza ondeggiare paurosamente. E’ un momento importante, questo, perché dalla nostra capacità di elaborarlo, dipenderà l’integrazione o meno di questo evento nel nostro vissuto.

Se è vero che gli stessi dati immediati delle nostre percezioni sono fin dall’inizio frutto di un’elaborazione simbolica e che, lungi dal rispecchiare una realtà a noi esterna, ne rappresentano una costruzione integrale, sembrerebbe che noi si disponga degli strumenti adatti a elaborare un evento che abbia sollecitato, mettendola in crisi, quella struttura che sostiene il nostro stare al mondo.[1]

Quando un evento doloroso ci tocca, esso è per noi muto, informe, sconosciuto, mostruoso, immediatamente senza senso e gravato dal peso della morte di cui è latore e di cui ci dà un’anticipazione. Questo stesso dolore può essere letto come il riverbero psicologico emotivo innescato dalla dissonanza tra il nostro attuale orizzonte di senso e quell’altrove infinitamente dileguantesi che lo contiene e lo sollecita con gli urti del suo non senso e che potremmo chiamare, con Lacan, Reale, ovvero quel fuori senso, quel non simbolizzato, che sta o-scenamente fuori dalla scena del simbolico, ovvero dell’umano.

Sta a noi ri-elaborare queste reazioni psicologico emotive, attraverso la ricerca e la tessitura di significanti, in grado di ancorare quel cieco evento, all’interno di una trama significante, che lo integri all’interno del nostro orizzonte di senso attuale, ampliandolo. Consapevoli, in questo, che gli orizzonti parziali di senso in cui, di necessità, abita l’umano, sono altrettante istantanee ritagliate in un flusso che, nel perenne movimento che gli è proprio, possiede il carattere della necessità e dell’innocenza.

Dobbiamo tentare di attribuire un senso a quei tratti abissali e traumatici della vita che altrimenti, come altrettanti spettri, rischiano di parlare e di agire fantasmaticamente in nostra vece. Dobbiamo cercare di sostare sulla lacerazione, sulla ferita, sulla faglia prodotta dall’emergenza di questi tratti, sostenendone il dolore e la tentazione di lasciarci risucchiare da essa, e da lì ri-costruire una trama di significanti che, intrecciata all’ordito simbolico del grande Altro (A)[2] da cui provengono, arricchisca la nostra esistenza di nuovi significati. Si tratta di bordeggiare simbolicamente questo buco traumatico, non per riempirlo, ma per cicatrizzarlo con un rammendo in grado di riparare la rete simbolica che sostiene il senso della nostra vita.

La frattura che l’evento doloroso porta con sé, può far si che il fluire del nostro quotidiano si interrompa, le nostre abitudini subiscano una brusca interruzione e l’affacciarsi di limiti mai supposti prima, contragga l’orizzonte del nostro abituale modo di abitare il mondo. Questi limiti, se da un lato comportano un restringimento dell’orizzonte esperienziale, dall’altro possono però alimentare quella funzione immaginativa che sola li può aggirare. E se uno o più dei diversi piani che compongono l’umano, subisce un restringimento, è pur vero che, all’interno dell’orizzonte che si sta ridefinendo, si possono tracciare percorsi dotati di senso, che si snodino su piani differenti.

A partire dalla sua costituzionale apertura all’essere, l’uomo ancora la sua vita a quel limitato numero di piani simbolici in grado di fornirgli un perimetro sicuro, una trama collaudata, nel fluire informe della vita. L’evento doloroso ri-accorda l’uomo alla sua originaria apertura, interpellandolo affinché operi quell’attribuzione di senso a ciò che senso non ha, affinché trovi le parole con cui tessere la vita a venire, che è quanto lo rende eminentemente umano.

Un accadimento doloroso può essere traguardato attraverso lenti e prismi diversi tra loro, ognuno dei quali può risultare più o meno adeguato a fornirgli una cornice di senso. Potremmo ad esempio attribuire l’evento doloroso al caso e declinare il concatenamento delle circostanze che ci ha condotto ad esso al più in termini probabilistici. La protesi statistica in questo caso fornisce un senso residuale di ordine razionale, che lascia comunque l’uomo appeso all’impersonale aleatorietà di ciò che accade, anche laddove essa venga quantificata stocasticamente. Si tratta comunque di una costruzione che fornisce una seppur minima protezione dall’angoscia, che nasce dal sospetto che il senso dell’accadere stia nel suo naufragio, cioè nel suo non avere senso alcuno.

Attribuire agli eventi lo statuto ontologico della necessità viceversa, li sottrae alla loro aleatorietà, per consegnarli all’immutabilità del destino. Schopenhauer nel suo L’arte di essere felici fornisce questa interpretazione degli accadimenti: “A causa della potenza misteriosa che governa anche gli eventi più casuali della nostra vita ci si deve abituare a considerare ogni evento come necessario […] veramente possibile è sempre stato solo ciò che è diventato reale o che lo diverrà […] tutto ciò che accade, accade necessariamente […] ciò che non è accaduto, cioè non è divenuto reale, non era neanche possibile […] Ogni processo è quindi o necessario o impossibile […] Di fronte a una sventura non bisogna concedersi nemmeno il pensiero che le cose potrebbero andare diversamente”.[3]

L’illusione di essere noi stessi i conduttori della nostra vita, di poter scegliere liberamente tra le diverse possibilità che questa ci mette a disposizione, viene smentita dall’osservazione che “la possibilità esiste solo nell’ambito della riflessione e per la ragione, il reale nell’ambito dell’intuizione e per l’intelletto, e il necessario per entrambi. Anzi la distinzione tra necessario, reale e possibile sussiste propriamente solo in abstracto e quanto al concetto, mentre nel mondo reale le tre cose ne formano una sola”.[4] E’ dunque un’illusione astratta della ragione quella con la quale spesso rivisitiamo après-coup quello che ci è accaduto, indagandolo secondo le possibilità alternative che potevano precludere il suo stesso accadere. E, visto che noi uomini più che abitare le cose, abitiamo le loro rappresentazioni, “un male che ci ha colpiti non ci tormenta tanto quanto il pensiero dei modi in cui lo si sarebbe potuto stornare; quindi nulla è più efficace per rasserenarci del considerare l’accaduto dal punto di vista della necessità”.[5]

In sintonia con Schopenhauer,  lo stesso Nietzsche scriverà che “tutto è necessità – così dice la nuova conoscenza; e questa stessa conoscenza è necessità. Tutto è innocenza: e la conoscenza è la via alla comprensione di quest’innocenza”,[6]  arrivando a prendere una decisione che egli riassumerà in questa formula: “Sì! Voglio continuare ad amare soltanto ciò che è necessario! Amor fati sia il mio ultimo amore!”.[7] Imparando ad amare tutto ciò che accade,  nella sua innocenza e nella sua necessità, potremmo riuscire            a disseccare le fonti del risentimento che nutriamo nei confronti della vita, quando questa non si conformi all’immagine ideale che ce ne siamo fatti.

Il dispositivo escogitato dalla tradizione cristiana, invece, inscrive ciò che di negativo accade all’uomo, nel registro della colpa e del peccato, dai quali solo Chi si è sacrificato per lui, è in grado di redimerlo. Ma l’enormità del sacrificio di Cristo, instaura a sua volta un debito irredimibile nel cuore terreno degli uomini, e questi attraversano la vita cercando di estinguerlo, senza mai poterlo fare, guidati da un ulteriore senso di colpa. Il senso delle sofferenze della vita terrena, allora, troverà il suo compimento nella procrastinazione del loro risarcimento in un al di là, in cui gli uomini riceveranno la mercede della vita eterna.

Al di là dell’eziologia dell’evento doloroso in sé, con la quale cerchiamo di ricondurlo ad una anche se pur minima cornice di senso, quello che però poi è decisivo è il modo in cui entrerà a far parte della nostra storia individuale. Ogni trauma, in quanto appartiene alla dimensione scabrosa del Reale, è brutale, e laddove non venga integrato nel registro Simbolico, rimane muto, si solidifica, segnando la nostra vita con la sua ripetizione inconscia. L’incapacità di fargli spazio all’interno di questo registro, farà di ciò che è accaduto un buco nero, che trascinerà con sé tutto ciò che gli è vicino, necrotizzando una parte del nostro vissuto. Laddove ciò che interrompe la continuità della nostra vita venga invece vissuto come un’occasione, è possibile edificare una trama di senso che arricchisca, dilatandolo, il nostro orizzonte esistenziale.

Il dolore è spesso il precipitato psichico dell’inadeguatezza della nostra carta del senso, dei nostri valori di riferimento, della nostra mitobiografia e delle nostre percezioni, ad accogliere il flusso perennemente in divenire della vita. Secondo Byung-Chul Han oggi “l’insensatezza del dolore suggerisce più che altro che la nostra vita, ridotta a processo biologico, è a propria volta svuotata di senso. La sensatezza del dolore presuppone una narrazione che inserisce la vita in un orizzonte di senso. Il dolore insensato è possibile solo in una vita nuda, spogliata di senso, che non racconta più”.[8] Il dolore ci offre l’occasione di modificarci attraverso la creazione di nuove possibilità significative e quindi di cor-rispondere a quel tratto essenziale dell’uomo che ne fa un multiverso creatore di senso. Senso che secondo Nietzsche, lungi dallo scaturire da un retromondo vero che regga la trama di ciò che appare, si inscrive per intero nell’infinita serie di finzioni e di illusioni con cui l’uomo, de rigueur,  alimenta il suo stare al mondo. L’uomo è quel creatore di finzioni le quali, nel loro dilatarsi, generano quell’effetto di mise en abyme in cui è custodita la sua cifra. Nietzsche ci ricorda infatti “come siano essenziali invenzione e immaginazione nella nostra vita cosciente, come tutte le nostre parole parlino di invenzioni (anche gli affetti e le percezioni)”.[9]

L’esperienza dolorosa riconfigura il nostro paesaggio interiore ed è quindi necessario ridisegnarne le mappe del senso, riposizionandoci al loro interno. E’ un’operazione che praticamente richiede di resuscitare ogni singolo atto del nostro quotidiano, riscattandolo dall’oblio dell’abitudine, per farlo diventare un vero e proprio esercizio di pratica spirituale. Un’orizzonte esperienziale in apparenza più ristretto ci può facilitare in questa pratica, nella quale attribuiamo ad ogni nostro singolo atto la massima importanza, ponendo un attenzione totale nella sua esecuzione.

Il dolore, sottraendoci alla serie ininterrotta di shock a cui è ridotto il nostro vivere in società e alla stimolazione infinita di messaggi e informazioni che irretiscono quotidianamente la nostra estenuata attenzione, ci garantisce una sorta di congedo temporaneo il quale, se non ci si lascia sopraffare, può diventare un’occasione preziosa per una ricognizione ai confini del mondo da noi significativamente esplorato. Nelle peripezie lungo questi confini, può capitare di spingerci al di là di questi, solcando terre straniere che sono tali solo perché inesplorate ma che, a buon diritto, sono parte di noi, anche se non di quell’Io che nell’alterità, cerca sempre un riflesso di sé.  L’Io, in queste terre, da presunto autore, diventerà spettatore e ascoltatore di idiomi che non capisce, ma dai quali potrà reperire parole in grado di trasformarlo, disponendosi all’ascolto di “questo canto puro […] che bisogna saper ascoltare, ma rimanendo ai piedi dell’albero, le caviglie e i polsi avvinti, vincendo ogni desiderio in virtù di un’astuzia che fa violenza a se stessa, si deve soffrire ogni sofferenza rimanendo sulla soglia dell’abisso che attira, per ritrovarsi finalmente al di là di esso, come se, vivi, si avesse attraversato la morte”.[10]

Allontanandoci dal ronzio assordante della vuota chiacchiera impersonale, che domina le nostre relazioni quotidiane e dal senso comune in cui naufraga ogni nostra autenticità, possiamo metterci in ascolto di una parola nuova che sia in grado di creare uno scarto, di una parola piena che si smarchi da quel sé sociale in cui l’individuo si riduce alla serie di rappresentazioni che da nelle interazioni sociali che lo coinvolgono, nelle quali il suo margine di autenticità si riduce al modo in cui egli recita una parte che il teatro della società gli ha assegnato.

Rimanere in ascolto di una parola autentica, che mi permetta di rivisitare il mio trauma, per accordarlo alla struttura dei significanti con cui è intrecciata la mia vita, assegnandogli un senso, richiede di non mettersi al centro delle proprie attenzioni, ma di viversi in terza persona, da una posizione eccentrica al proprio Io, da cui lo si possa traguardare. Questo affacciarsi oltre l’Io, sull’abisso che lo circonda, se da un lato può provocare vertigini, dall’altro può garantire un’esistenza meno fittizia e orizzonti di senso più ampi. E’ qui che posso reperire quelle parole autentiche che, mai udite prima o rimaste a lungo inascoltate, mi consentano di nominare e perciò stesso di riconoscere ciò che è accaduto, soggettivandolo e integrandolo in me, per renderlo in questo modo meno mostruoso.

Concentrandomi su di un punto dentro di me, posso contrarre il mio Io (moi) fino ad annullarlo per poi, come fece l’universo miliardi di anni fa, espandermi attraverso nuove costellazioni di senso, nelle quali poterlo ritrovare trasformato (Je). E’ in questa osmosi tra Io e non-Io, in questo processo di sistole e diastole dell’anima, che si raccoglie la cifra dell’uomo, che è quella di poter attribuire un senso ad un mondo che, nella sua indifferenza, dichiara di non averne alcuno.

Come il dolore, anche la morte può subire quella trasmutazione di senso in grado di trasformarla da crepuscolo della vita a sua aurora. La morte, che per il Cristianesimo è “l’ultimo nemico a dover essere annientato”[11], può infatti diventare, ove venga assunta fino in fondo, la più autentica possibilità della vita. Così scriveva Martin Heidegger in Essere e tempo a proposito di “essere-per-la-morte”:

“La morte è una possibilità di essere che l’Esserci[12] stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci sovrasta se stesso nel suo poter-essere più proprio […] L’esser-gettato nella morte gli si rivela nel modo più originario e penetrante nella situazione emotiva dell’angoscia. L’angoscia davanti alla morte è angoscia «davanti» al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile […] L’angoscia non dev’essere confusa con la paura davanti al decesso. Essa non è affatto una tonalità emotiva di «depressione», contingente, casuale, alla mercé dell’individuo; in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, essa costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine.  L’interpretazione pubblica dell’Esserci dice: «si muore»; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. […] Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. […] Il Si si prende cura di una costante tranquillizzazione nei confronti della morte e di trasformare quest’angoscia in paura di fronte a un evento che sopravverrà. ”.[13]

Seguendo l’analitica esistenziale di Heidegger, ognuno di noi deve assumere su di sé la propria morte, in quanto evento unico e irripetibile, facendone la pietra angolare attraverso la quale traguardare la propria vita. Noi siamo già da sempre la nostra morte in quanto autentica modalità esistenziale: “La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. «L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire»”.[14]

Ri-appropriarsi della propria morte, attraverso il suo carattere di estrema possibilità che la rende autentica, può farle perdere quei tratti abissali in cui ogni senso implode, per farle assumere quelli di una modalità d’essere che restituisce senso e autenticità alla nostra stessa esistenza. Potremmo dire che noi viviamo autenticamente nella misura in cui moriamo autenticamente, e che siamo tanto più autentici, quanto più siamo consapevoli di come la morte accompagni la nostra vita e quanto più accettiamo serenamente questa compagnia. Del resto, come ci insegna il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, “chi non sa morire difficilmente saprà vivere, perché la morte è parte della vita. […] Dobbiamo guardare la morte in faccia, riconoscerla e accettarla, proprio come guardiamo e accettiamo la vita”.[15]

C’è una differenza sostanziale però tra l’atteggiamento nei confronti della morte di Heidegger e quello del monaco vietnamita. Come sottolinea Byung-Chul Han, citando un passo di Heidegger, nel suo essere-per-la-morte, echeggia l’eroismo di un enfatico Io che si oppone alla finitezza umana: “Con la morte, che di volta in volta è il mio morire, mi incombe il mio essere più proprio […] L’essere che io sarò “alla fine” del mio esser-ci, che io posso essere in ogni istante, questa possibilità è quella del mio più proprio “io sono”; in questo modo cioè io sarò il mio io più proprio”.[16]

Può essere però che la stessa paura della morte nasca proprio dall’attaccamento al nostro Io e che essa sia in realtà paura della morte di questo stesso Io. Se ci rendessimo disponibili in vita al suo sacrificio simbolico, ovvero alla “grande morte” di cui parla il Buddismo Zen, anche questa paura forse tenderebbe a dissolversi. L’Io è una costruzione immaginaria, una finzione del tutto priva di quella sostanzialità che tanta tradizione filosofica occidentale gli ha conferito. Nietzsche a questo proposito affermava: “Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione ‘io penso’, ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un ‘io’”.[17] La convergenza su questo punto con il pensiero buddista è totale: “Nel linguaggio del Buddha tramandato negli antichi sutra, l’Io è un’invenzione: un miraggio, un ombra o un sogno […] ‘In fondo’, fa eco il sesto patriarca zen Hui-Neng nel VII secolo d. C., ‘la mente è una fantasia’. E ‘dal momento che fantasia equivale a illusione’, conclude, ‘non esiste niente cui essere attaccati’ ”.[18]

La vita dell’Io non esaurisce per intero la nostra vita la quale, al di fuori di esso, è da sempre riconciliata con la morte e perciò non la teme. Dove non si faccia crescere l’Io contro la morte, facendola diventare la mia morte, ma ci si abbandoni a quest’ultima, svuotando questo stesso Io, allora “la morte non è più la mia morte. Essa non avrebbe in sé niente di drammatico: io non sono più incatenato a quella morte che sarebbe la mia morte. Si risveglia un abbandono, una libertà per la morte”.[19]

Dis-affezionandosi al proprio Io, traguardandolo da un luogo altro che ne faccia risaltare i tratti illusori, rimanendone alle spalle, giungeremo a provare tuttalpiù compassione nei suoi confronti, ma non quell’attaccamento ostinato che ci preclude l’accesso alla vita nella sua “vastità piena di mondo”. La stessa morte, laddove ci sorprenda avviticchiati alla nostra finzione egoica, sarà finta, perché non preceduta da quella “grande morte che non mette fine alla vita”. Sarà solamente una “piccola morte”, ovvero la morte di quell’entità immaginaria che siamo stati, e quindi una morte immaginaria, che avrà lasciato in ombra la nostra possibilità di morire la “grande morte”. Solo dandosi simbolicamente la morte come Io, finché è in vita, l’uomo può sfuggire alla catastrofe della morte. Infatti, questa “impresa rischiosa di morire a se stesso” in vita, lo apre alla possibilità di superare quell’opposizione tra la vita e la morte, che lo rendeva già morto e di scoprirsi vivo e impossibilitato a morire. Sacrificando il proprio Io, egli uccide allo stesso tempo la propria morte: “Il vivente resta un morto fin quando la morte non è uccisa, ovvero fin quando la  morte si oppone alla vita. Solo dopo l’uccisione della morte si può essere completamente vivi, cioè si vive totalmente, senza fissare la morte come l’altro della vita. Essere totalmente vivi non si misura sul metro dell’eterno o dell’immortale. Coincide invece con l’essere totalmente mortali. La morte non è più una catastrofe, dal momento che si ha già dietro di sé la catastrofe della grande morte. Nessuno muore”.[20] Nessuno quindi muore quando arriva la sua ora, se è stato in grado di darsi la “grande morte” finché era in vita.

Su di un diverso piano, la morte può anche essere pensata come lo scomparire di quell’essere che, nella sua totalità, rimane “eterno, immutabile e imperituro” e non come un tornare nel nulla. Emanuele Severino, riflettendo attorno a quel verso di Parmenide secondo il quale l’essere è e non gli è consentito di non essere, salvaguardava ogni ente dalla morte, intesa come il diventare nulla di ciò che è, in quanto ogni ente “è una positività, ossia è un non essere un nulla, e come tale non gli può accadere di non essere, ossia non gli può accadere di non esistere”. Se dunque l’esistenza non è un predicato fattuale ma necessario di ogni cosa, ogni cosa esiste necessariamente, ovvero è eterna e il “divenire che appare non è la nascita e la morte dell’essere, ma il suo comparire e scomparire”, ovvero il comparire e lo sparire “dell’immutabile, che è eternamente anche quando non è ancora apparso e anche quando è scomparso”[21].

 

Note:

[1]   Sul tema vedi https://www.altraparolarivista.it/2021/05/13/linvenzione-della-realta-specchio-dellumano

[2]   In Jacques Lacan il grande Altro (A), rappresenta il registro del Simbolico, ovvero quel “tesoro dei significanti”, a partire dal quale è intessuta la Realtà, sia essa la realtà individuale o quella sociale.

[3]   A.  Schopenhauer, L’arte di essere felici, Adelphi, Milano 1997, pp. 83 ss.

[4]   Ibid, p. 87

[5]   Ibid, p. 37

[6]   F.  Nietzsche, Umano, troppo umano, Adelphi, Milano 1965 1979, I, 107, p. 84

[7]   F.  Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, Adelphi, Milano fr. 15 [20], p. 457

[8]   Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, Torino 2021, p.31

[9]   F.  Nietzsche, Frammenti postumi 1882-1884, Adelphi, Milano fr. 24 [16], p. 322, corsivo mio

[10] M. Foucault, Il pensiero del fuori, SE, Milano 1998, p. 44, corsivo mio

[11] Prima lettera ai Corinzi (1 Corinzi 15, 26)

[12] L’essere umano, nella sua specificità, è per Heidegger l’Esserci (Dasein), ovvero quell’ente  che è originariamente aperto all’interrogazione e alla comprensione dell’essere. Questa sua specifica modalità d’essere viene chiamata esistenza, la cui natura e-statica, è ciò che permette all’uomo di e-sistere, cioè di emergere da quell’orizzonte ontico in cui gli altri enti, non potendolo trascendere, in-sistono.

[13] M.  Heidegger, Essere e tempo, Utet, Torino 1978, pp. 378 ss.

[14] Ibid, p.371

[15] Thich Nhat Hanh, Il miracolo della presenza mentale, Ubaldini, Roma 1992, p. 47

[16] M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il Melangolo, Genova 1991, p. 389 cit. in Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, nottetempo, Milano 2018, p.121

[17] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 19814, af. 16, p. 20.

[18] M. Epstein, Pensieri senza un pensatore, Ubaldini, Roma 1996, p. 81

[19] Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zen, cit., p. 125

[20] Ibid, p. 130

[21] E.  Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 67 ss.