Poesie di Silvia Bre tratte dal volume “Le campane” (Einaudi)
Pubblichiamo alcune poesie di Silvia Bre, tratte dal volume Le campane, di prossima pubblicazione presso Einaudi.
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Quei numeri tatuati sul pianeta
aspri musi da faina dove l’iride turbina
e si schianta involontaria smarrita
la selvaggina umana: per la scala minore
su sfondo oro sbanda un meridiano
di rintronati dalla fragranza di un suono
la loro eleganza disadorna.
Non sono mai nessuno i poeti –
nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria
pugnalano in lingue il lontano.
Poi l’aurora.
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È un temerario dio a respirare oltre,
un alito che spalanca l’impalcatura
per averci come siamo? Un segno disumano lo canta
non oltre le cose ma in loro: identica indistinta
nel fosco vapore del suolo tu, meraviglia,
perché ti riconosco, sbandieri
che divampa su tutto, il ritmo antico del nulla.
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E a chi ti dice nomina il tuo centro
la sorda dominante che ti agita, tu che non basti
a incoronare il pentirsi zoppicante delle sere
quando la compresenza silenziosa strazia
e non arrivi a tenere tra le braccia tanta cenere
scalza nell’oltre delle tombe, nelle facce deturpate dalla grandine,
dichiara il centro, accusano, quale fuoco avvolge una che piange,
entra nella tua specie come bestiame d’alberi
tra gli interstizi del come, il bosco della bocca
quando dormi, la tensione straniera che ti aggancia
nella dimostrazione, lo sconosciuto che ti conosce e ti dilapida,
dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore,
è un’altra l’unità da pronunciare, ebete,
e non sai quale, non sai farlo.
*
La piega di un collo mozzato dalla figura
è una bufera. Ma vieni, salma di fango, ti raduno
e parli senza me, l’aria degli alfabeti sguinzaglia
un gigante a ridire che non c’è
poi quello che manca infuria.
È il male, la curva
smette crudele di navigare
s’inabissa una barca e la vertigine
è un’arca, depone l’offesa incerta nella palude,
sparge tutta questa distanza.
*
Se un mosaico di dolore assume il canto
immenso della vita così sola
a contemplare l’anima, il bianco un lampo interno
la stringe nelle vene leggerissime
e questa lava onde io le fo intendere
come lo sguardo svetta ammutinato
davanti a Sua Povertà, io slegata
nella pace dei significati, l’imparziale
mi fa questo silenzio.
*
Bergamo
Pensala, inclusa nel corpo penitente
girato sotto per coprirsi con la schiena, in fuga
e tra le labbra la luce fragorosa che s’impenna
la parola eretica. Poi la segui, è un fiato.
Vuole che i suoi raggi s’impalino
e con il corpo fuso al mondo nascere domani
o non morire mai, così come beatitudine vorrebbe.
La musa del presente viene meno.
Ora monta la scia dei veggenti, hanno portato
la vampa stregata nelle ciglia l’attimo prima,
hanno saputo, e vanno, geni dell’aria estesa
alla primavera ossidrica, ai campi bestemmiati
che sbranano l’ombra, un colosso glaciale li guida
nel beta, nell’alpha, e poi l’occhio eterno.
E tu mantieni l’attimo soltanto, la gabbia chiusa, l’angelo
col fiato rotto in ogni gola, pensa nuovamente
questo guarire in trasparenza dove il cielo
sa il credo del tuo dolore e cedi alla miseria alata,
già ti devasti.
*
Restami in piedi figura, anche muta,
che io ti senta nel nome qualunque
di schiere infinite, parvenza più uguale tra perle
e musica di cose che il magnete fiammante illumina.
Il tuo patire allaga senza sapere nulla
mi sdraia nell’asilo incomprensibile,
amato, di questa preghiera.
*
Conoscerti, come nel sonno la statura celeste
dove giri, profeta dell’inaccessibile con la voce di cera.
Penultima prima di finire, sulla sponda di un’orazione umana
l’anima scura sfregia la lingua e sventola.
Nessun altare, solo un alto tifone benedice la mente
scossa da cori di spighe, fende l’impossibile.
*
Questo diventi, mia acuta differenza
spartita dalle correnti d’aria, squilibrio
rincorsa, tuoni di nostalgia in un suono perso
che si fa dilaniare a ogni rimbombo.
Ma io resisto, ti sto murando col gesto del vento
ti tengo ferma via da me
ti impongo all’universo.
*
Tra gli eletti dal male a guarirlo
nella lingua che lo dice, la cura
del ramo spinato che urtato da un fiato
sibila e ti tiene sveglio e ti addormenta,
non sai quale madre detta la misura
nell’azzurra lacuna da vedere
se contro la luce della morte
una navata canta la sua carità per questa gleba.
Suonata a senso dalle campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.