Poesie di Francesco Nappo
SULLA CORALLINA TORRESE*
A Francesco Porzio
La dolorante vela per i flutti
del viver nostro straniato e medesimo
sperde schiocchi di frusta nel maestrale
che delebili orme di eterno
imprime e disfa d’impeto incostante
per la caduca sua stesura bianca,
tra remiganti in ciel stormi di passo.
Grecale avverso a noi puteolano,
divino vento del parvente Altrui,
grido di terra lanciato al mare!
Incarnato del tempo diveniente
fu la bolina prospera, sovrana
ai venti ostili dei due golfi,
fu il giusto fervore di Francesco
che a favor della prua tesava il cavo
a scemar la flaccidie della tela.
Perduto provenir, dir verecondo,
dell’infanzia salute memoranda
pei litorali dell’imminenza
fermi negli occhi dei naviganti.
Le paroli più giovani destava
il sonno delle labbra, se fiammavano
damaschi vesperali a fior dell’onde
lungo la baia solcata in musiche d’aurora.
Vestizione ventura del passato,
privilegio d’esistere patendo
ombra di morte stupita e risorta!
Rivesti dei suoi giorni il pescatore
dai gesti assorti di pietà sagace
e pace dona a me romito orante
dentro furiosi sdegni di milizia.
*Antica barca dei pescatori di corallo di Torre del Greco
PENSIERI NEOCATECUMENALI
A Chiara Cardella bambina
Lungo il viale d’Augusto andavamo,
per l’ombra eritrea della mia
infanzia che scendeva dalle palme
d’Oltremare passeggiavo insieme al
segretario della nostra sezione di
Partito e la sua figlioletta.
La bimba interruppe il nostro colloquio
chiedendo: “Papà, perché cammini?”.
Era il tempo che i bambini pare cerchino
il principio di ragion sufficiente
d’ogni cosa, fatto ed evento.
Agli adulti sembra che vogliano
sapere la causa d’ogni possibile.
Ma, forse, quegli inutili quesiti
son la prima lezione di catechismo
agli adulti smarriti nel mondo:
“Il mondo somiglia al mio amore per te”
– dicon così i piccoli ai loro cari –
“È il puro possibile che tu sei per me”.
Di quel ben sono ignari i dolci inquirenti.
Lo dicono senza saperlo come quando
ignari del male pecchiamo e questa è
la misura di ogni Remissione.
Non altro modo ha l’Amor creatore
che perdonando noi perdona sé
e lode oscura accoglie più di culto
nel deporci interiore ai piedi nostri.
D’UN VEGGENTE PLEBEO
Quasi correndo, a voce ferma e
alta, un passante fendeva la folla
come un araldo di stremato vero.
Bandendo andava messianico editto
non più a se stesso ma non a tutti,
l’onor dei molti convocando al campo
della più santa e disperata lotta:
“Nun ce vo’ niente, no! Pe’addivinta’ ommo,
niente nce vo’! Nce vonno sulo ‘e muorte!”.
Era venuto dalla sua infanzia
l’angelo folle, aveva vinto Jacob.
Era settembre, quando l’estate
finisce e non trapassa e l’aria
del mattino giace in puro splendore
di dormizione assunta nel suo oro.
(senza titolo)
D’altrove non può esserci memoria,
ma sol nella memoria altrove regna e
l’anima è il paese che sognammo
mai così desti, andando insieme
cari e distolti a noi, dicendo
difettiva giustizia e provvidente
per dimorante via: respiro e passi.
VIVENZA*
Così agugliavan cieche merlettaie
per tele d’Olanda delizie tattili,
supreme perle d’incognito lucore.
E trafitture minime e cruente
succhiavano ai veggenti polpastrelli
ad ogni tanto, ridendo del male.
Ora che mi sovviene la tua pietà
Gioacchino, la lectio magistralis
di quelle brune vergini scolare:
il vero nel dolor, somma ventura.
Ora che credo che sì materne labbra
abbiano deglutito il dolor nostro
a morsi e sorsi di coraggio gaio.
*In questi versi è viva la memoria
di un quadro di Gioacchino Toma:
«La scuola delle merlettaie cieche».
(senza titolo)
Quel che non sarà stato non sarà nulla.
Codesta è l’allegria del dire
povero, la nostra fame d’essere
che ciberà il pane d’altri giorni,
intraviste dimore nel pensiero
che pensiero non son ma tempo ancora,
illesa voce d’essere e dispendio.
(senza titolo)
L’autunno confessa agli albereti che
al sole si denudano in incanti
matutini di solstizio secondo.
Quando gli ultimi frutti rilucono
simili ai primi fiori e nel pallido
carminio dei riverberi pei tronchi
la più dicibile ora del patire
risuona come un silenzio d’alba
in canti avili di perpetua audienza.
L’aorta della terra freme d’amore
attendendo la gioia che non gli manca.
Ascolta, Musa, il cuore dell’ottobre,
fammene dono, figlia e madre del tempo,
di nulla gravida generatrice.
Giunge un viandante per traccia incognita.
Tutto ha perduto tranne il perduto
che nei suoi occhi resta balenando.
S’odono solo i suoi passi pazienti.