Danzando intorno a un vuoto. Michel de Certeau e la spiritualità – di Stella Morra
Com’è noto, l’età moderna è stata il secolo, oltre che della scoperta del soggetto, anche del metodo: basti pensare, fra tutti, a Ignazio di Loyola e Cartesio. Scoperta del soggetto ed elogio del metodo sono andati storicamente di pari passo, e non è un caso. Il soggetto infatti, per affermarsi pienamente, ha bisogno di rinunciare alla propria spontaneità assoggettandosi liberamente a un metodo: come in ogni esperienza, il momento dell’appropriazione soggettiva segue e anticipa quello della libera espropriazione metasoggettiva (direi, pneumatica), grazie alla quale sola il soggetto diventa «perito», ossia diventa, morendo a se stesso, esperto.[1]
In questo snodo, così lucidamente enunciato, sta il punto di osservazione in cui ci poniamo e il punto di lettura di alcuni passi della riflessione di Michel de Certeau che scegliamo, intorno al lessema “spiritualità”.[2]
Perché in questo luogo troviamo la ferita originaria della modernità che, ancora sanguinante, ci costringe oggi ad uno strano gioco delle perle di vetro tra soggetto, metodo, diventare esperti, vite e morti, gioco oggi sospeso tra il rifugio della conoscenza e il bisogno di immersione in quella everyday life che sola può davvero essere fecondata, tra universalità di un concetto e particolarità di una esperienza.
Ecco, da qui[3]:
Una cultura è il linguaggio di un’esperienza spirituale. La storia della spiritualità lo mostra, se si rinuncia ad osservarla con paraocchi che ne escluderebbero il contesto. E per «contesto» non bisogna intendere solo una cornice o uno sfondo, ma piuttosto l’elemento da cui l’esperienza riceve la sua forma e la sua espressione. Una dialettica culturale definisce ogni volta il problema che diventa, per lo «spirituale», il problema della sua unione a Dio. Una spiritualità risponde alle questioni di un tempo preciso e non vi risponde se non nei termini stessi di queste questioni, perché sono quelle di cui vivono e parlano gli uomini di una società – i cristiani come gli altri. Dato che spesso descrive una esperienza e in ogni caso mette a fuoco, attraverso una pratica, le difficoltà vissute, ogni spiritualità ha un carattere essenzialmente storico. Piuttosto che elaborare una teoria, essa tende a mostrare come si possa vivere dell’Assoluto nelle condizioni reali fissate da una situazione culturale; essa si esprime dunque in funzione di esperienze, di ambizioni e di paure, di malattie e di grandezze tipiche di uomini coinvolti, con i loro contemporanei, nel mondo che definisce un tipo preciso di scambi e di coscienza.[4]
In mezzo alle difficoltà del lessema cultura, nella nostra incerta sospensione, Michel de Certeau ci offre una delle sue tipiche affermazioni apodittiche, che rovesciano il punto di vista: «Una cultura è il linguaggio di un’esperienza spirituale». Ogni esperienza cerca il proprio linguaggio, e l’esperienza spirituale (come si può vivere dell’Assoluto in condizioni reali, cioè non scelte o costruite) lo trova tout court nella cultura che abita, fino a farsi fluidamente indistinguibile, intersecata, indistinta e frammentata; fino alla domanda su chi sia parassita di chi, se la cultura di un tempo e di un luogo non possano vivere senza delle spiritualità, o se le spiritualità non possano vivere se non storicamente segnate dalle culture.
Gli studi attualmente consacrati alla storia della spiritualità offrono a prima vista una panoramica abbastanza paradossale. Vi si oppongono due posizioni, i cui rappresentanti si collocano in posizioni opposte a quelle che potremmo supporre. Mossi da preoccupazioni religiose, gli uni sottolineano l’infelice scissione di cui testimoniano le spiritualità nei riguardi del «mondo» e delle culture contemporanee; tendono a cercare al di fuori del linguaggio «spirituale», e in ogni caso al di là di questa scissione, l’espressione autentica della vita spirituale. All’opposto, gli storici che si ispirano a metodi socioculturali non condividono questo punto di vista, a loro parere ancora impregnato di un dualismo dogmatizzante; nell’insieme di un linguaggio e nella coerenza di una società, le spiritualità sembrano loro piuttosto un emergere delle grandi correnti oscure e basilari che organizzano di volta in volta gli universi mentali. A ben guardare, da una parte come dall’altra uno stesso punto di fuoco attrae lo sguardo. L’ottica del presente definisce il rapporto con il passato. Ma bisogna anche riconoscere una preoccupazione di ordine spirituale. Ogni generazione intrattiene con le precedenti un dibattito di cui stabilisce essa stessa il terreno; il nostro potrebbe essere caratterizzato dai mille accessi possibili orientati verso una «antropologia» o una scienza dell’uomo.[5]
Ecco lo sguardo spiazzante: gli studiosi guardano con occhio rapace, per affermare una proprietà, cercando nel campo dell’altro i segnali della propria presenza per affermare un diritto, di comprensione e dunque di gestione. Ma de Certeau ci invita a spostare lo sguardo, a ignorare questi giochi di ragazzi intorno alle dinamiche del possesso, per vedere la vera questione in gioco: l’ottica del presente definisce il rapporto con il passato, un dibattito in cui ogni generazione definisce il terreno rispetto alle precedenti, e il nostro campo di gioco, secondo de Certeau, è quello di una scienza dell’uomo, una possibile “antropologia”, in un senso molto speciale.
Nella complessità globale del suo percorso, de Certeau proprio da questo nucleo incandescente offrirà un’ottica teologica della lettura ampia di un cristianesimo inclusivo e insieme determinato: laddove ogni generazione intrattiene un dibattito con il passato a partire dalla propria domanda e dal proprio terreno, una spiritualità cristiana si costituisce lì quando alcuni si fanno interrogare dall’evento di un passato perduto e inattingibile, come una frattura instauratrice[6]. Questa espressione indica, per de Certeau, quella “unione nella differenza” che consente di non limitarsi a domandare il linguaggio di una esperienza dell’Assoluto al passato con le domande del presente, ma di lasciarsi segnare (verrebbe da dire “arare”) da ciò che un evento perduto del passato ha permesso come possibile di diverso da sé per inverarsi e rimanere vivo.
Ciò che è reso possibile di differente, nello scorrere del tempo, diventa la regola dello spirituale cristiano:
perché mai il suo presente, terra natale della sua esperienza di uomo e di cristiano, si rivela come un «altrove» rispetto all’insegnamento religioso, se non perché è nuovo, estraneo alle culture che hanno già saputo designare Dio? Il cristiano è proiettato in una regione di rischi e di nuovi inizi. In rapporto alle sue conoscenze religiose, è il suo «deserto», un deserto che oggi è la sua città e, in ogni caso, il luogo del cambiamento culturale. Da questo punto di vista, la distanza che separa il credente dalla sua teologia è il suo essere in anticipo su di essa, nel campo ristretto di una specifica esperienza particolare. Egli le affida un compito che lui stesso le indica. La frattura si misura con la sua stessa audacia. È il segno stesso di una fede che comincia a fare di una nuova mentalità il suo proprio simbolo, ma un simbolo ancora negativo, colto attraverso un’assenza o un ritardo della teologia, come essa appare dal luogo necessariamente ristretto, ma reale in cui si situa l’esperienza. Un’appartenenza umana si rivela adatta a diventare il linguaggio nuovo di una esperienza spirituale.[7]
Il gioco di specchi che si instaura tra passato e presente non è monodirezionale (le domande del presente sul passato), né semplicemente bidirezionale (la nostalgia del passato nel presente o la rimozione del passato reale da parte del presente): la frattura instauratrice della spiritualità cristiana assume l’una e l’altra logica, ma ne aggiunge una terza, la comprensione delle dinamiche che dal passato hanno condotto al presente come rese possibili dall’evento originario, come diverse da lui stesso per inverarlo.
Per questo, la spiritualità cristiana abita un’eccedenza, un anticipo di audacia, l’affidamento a tutte le differenze non ancora qui che potrebbero essere rese possibili: vivere dell’Assoluto nelle condizioni date dalla realtà significa vivere del desiderio.
Non si tratta di illusione o utopia: il realismo cristiano non sopporta l’autoinganno, né la vanificazione della necessità di trasformare i luoghi in spazi abitati; il desiderio (così ben espresso nella letteratura dei mistici dell’epoca classica in linguaggio amoroso) fermenta la mentalità comune per farne il proprio nuovo simbolo in modo negativo, nei termini di un’assenza, di un non ancora qui che diventa imprescindibile rendere possibile e reale.
L’illusione è altrove. Essa consiste nel voler frenare questo movimento, nel credere che sia diventato inutile o dannoso, nel volere fissare uno di questo «passaggi» indispensabili e considerarlo da solo come la verità di cui esso non è che un segno. Ciò rifiuta ad altri il diritto di rappresentare qualcosa nel corso di una evoluzione o di una tensione. Nega una reciprocità o un simbolismo dei segni. Rinchiudendosi nella sua propria testimonianza, l’esperienza contraddice ciò che pretende di testimoniare, e cioè la «somiglianza» nella «dissomiglianza», l’unione nella differenza, il movimento della carità. La tentazione è la fissazione. Là dove Dio è rivoluzionario, il diavolo appare fissista.[8]
In questo gioco di fratture multiple, è necessario concentrarsi anche su un’ennesima frattura, non disegnata da un arco temporale, ma dallo stesso modo di essere in sé della spiritualità:
la spiritualità si presenta con un carattere particolare. Si tratta dell’esperienza. «Scienza dell’esperienza», sapienza «pratica», letteratura de «l’esistenziale»: così essa circoscrive la sua specificità. Ma l’esperienza rischia di essere una determinazione equivoca. Non la si può capire come fosse propria della sola spiritualità, e neppure come se dovesse implicare un aldilà di linguaggio. Da un lato, questa esperienza è essa stessa definita dal tipo di espressione che vi si riferisce e che si distingue così da altre «scienze» (teologiche, filosofiche, fisiche, ecc.) in sé, tuttavia, indissociabili da una esperienza. D’altro lato, «l’ineffabile» che essa designa costituisce in realtà un discorso particolare, la spiritualità, che rifiuta altri linguaggi (quello teologico, per esempio), ma non ogni forma di linguaggio.[9]
Alle nostre orecchie di incerti postmoderni, la parola «esperienza» suona tanto logora quanto problematica, e le relazioni tra essa e le conoscenze ed essa e i linguaggi ci si rappresentano come un groviglio inestricabile. Eppure, proprio qui sta uno dei nodi decisivi per de Certeau quanto alla possibilità di una spiritualità cristiana: l’atto di smascherare l’insufficienza di ogni linguaggio di fronte al dire il vivere dell’Assoluto, ma insieme senza rinunciare a dire questa esperienza costituita proprio dal suo essere eccedente, ulteriore.
L’essenziale non è un altrove, in un contenuto ancora da dire, ma proprio la spiritualità e una maniera di dire (e di fare) che riesce a mantenere questa sospensione aperta e la abita:
Si potrebbe forse dire che questo significa cogliere le cose solo a livello esteriore e considerare della spiritualità solo il superficiale, con quegli occhiali deformanti che sarebbero una sociologia delle religioni o una storia del solo «sentimento» religioso? Ma l’essenziale non è affatto fuori dal fenomeno, e quest’ultimo, d’altra parte, è la forma della coscienza; esso struttura l’esperienza dell’essenziale per i cristiani e per i mistici stessi. […] No, in ogni spiritualità, l’essenziale non è un altrove, esterno al linguaggio proprio del tempo. È questo linguaggio stesso che lo spirituale prende sul serio; è qui, in questa situazione culturale, che «prendono corpo» il suo desiderio e il suo rischio; è attraverso questo che trova Dio e lo cerca ancora, che esprime la sua fede, che sperimenta simultaneamente un incontro con Dio e un incontro con i propri fratelli reali.[10]
Quanto, noi umani acrobati di questo tempo, avremo bisogno di questa scienza della sospensione e dell’eccedenza, e in quante forme, spesso parziali o deformate, l’andiamo cercando in questi tempi incerti! Anche perché solo questa scienza consentirebbe di ritrovare un “noi” possibile, nel riconoscimento della comune constatazione di un vuoto (delle proprie conoscenze, competenze e appartenenze) che però è passibile di mostrarsi come luogo abitabile, e dunque di diventare uno spazio comune.
La frattura è una costante della spiritualità; essa è d’altra parte già riscontrabile nel privilegio accordato alla «esperienza». Certo, ciò che è specifico non è l’esperienza, ma il fatto che sia «spirituale». Più ancora, la frattura non è elemento isolabile nel linguaggio necessariamente collettivo della spiritualità. Essa appartiene allo «stile» di questo linguaggio. Essenzialmente, può essere una sorpresa a caratterizzare la frattura. Immanente al cammino spirituale, cresce con la arditezza della fede che Dio predispone, suscita e spiazza sempre attraverso una congiuntura umana. In forme diverse, l’audacia consiste nel voler andare fino al limite delle tensioni e delle ambizioni proprie di un tempo; nel prendere sul serio un tessuto di scambi per attendervi e riconoscervi l’avvenimento di Dio. Questo caso serio è l’origine stessa di uno squilibrio. La sorpresa sta nel fatto che compromettendo innanzi tutto la propria fede nel cuore di una storia umana, ci si trova a constatare un «vuoto», tanto da parte dell’insegnamento religioso che da parte delle attività e delle conoscenze, benché tutto ciò sia suscettibile di diventare, in una data situazione, il luogo stesso dell’incontro con Dio.[11]
Danzare intorno ad un vuoto diventa la possibilità di abitare un noi praticabile per questo tempo, in grado di salvaguardare tanto la centralità del soggetto (e del metodo, come dicevamo)[12], quanto il riconoscimento di un comune in una forma nuova, uno spazio del desiderio che si costituisce intorno ad un vuoto da rispettare.
Ci sembra particolarmente rilevante per noi questo aspetto, e significativo per credenti come non credenti: il crollo di un noi sociale e civile, costruito intorno al pieno delle ideologie, non si offre solo come una rivincita dell’individualismo e del narcisismo.
Lo sguardo critico della spiritualità cristiana ci offre un’altra prospettiva, quella di un comune che si tesse in cerchio, intorno ad un vuoto, nel riconoscimento della vulnerabilità parziale della storia e nostra, e nell’obbedienza ad un futuro che si rende possibile.
Infatti:
Con questa doppia «frattura», appare dunque una dialettica non solo interna a ogni cultura, ma caratterizzata dall’incessante confronto delle sue forme particolari. La critica reciproca è la modalità di un incontro. I due momenti contradditori dell’esperienza designano un movimento che non può essere identificato con uno qualsiasi dei suoi termini o delle sue tappe. In ciascuno dei settori dove il cristiano riterrà di poter o dover localizzare la verità, il senso dell’altro è la verità che gli ricorda una reciprocità e che deteriora gli oggetti che egli successivamente si dà. La «delusione» è, in rapporto a ciascuno di essi, l’eco di questo confronto. La «frattura» è la forma che prende una dipendenza reciproca; è il contrario, forse il solo dato esprimibile, del cammino verso Dio.[13]
Se, in questo tempo, la spiritualità cristiana riuscisse a testimoniare, come una scienza dell’esperienza, la nostra reciproca interdipendenza come benedizione e a mostrarci che la nostra parzialità è una possibilità di futuro, allora non sarebbe solo il cammino verso Dio, ma anche il cammino per un mondo più umano.
NOTE:
[1] M. Zupi, Dispense di metodologia ad uso interno, Pontificio ateneo S. Anselmo.
[2] Per una comprensione generale del tema e dell’autore si raccomanda la lettura di C. Ossola, Introduzione a Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 9-34.
[3] Va sottolineato, perché è tutt’altro che irrilevante, che l’Autore usa sempre il termine “spiritualità” al plurale, il che risulta evidente in italiano solo quando il termine è preceduto dall’articolo; dunque, nelle citazioni va considerato sempre in significato plurale.
[4] M. de Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano, 2020, pp. 39-40.
[5] M. de Certeau, Debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano, 2020, p. 35.
[6] Si tratta qui di un nucleo centrale e generativo del pensiero di de Certeau, che richiederebbe ben altro spazio per essere affrontato. Si rimanda, per una prima conoscenza, al capitolo 7 di Id., Debolezza del credere, cit, pp. 163-197 intitolato proprio La frattura instauratrice. Si possono vedere anche L. Mantuano, Lo straniero o l’unione nella differenza. Sulla teologia di Michel de Certeau, «Asprenas», n. 42 (1995), pp. 21-36; Id., Esercizi di assenza: intorno alla definizione della mistica, in «Bollettino della società filosofica italiana», n. 172 (2001), pp. 15-28.
[7] M.de Certeau, Debolezza del credere, cit., p. 47.
[8] Ibidem, p. 50.
[9] Ibidem, pp. 44-45.
[10] Ibidem, p. 39.
[11] Ibidem, p. 45.
[12] «L’esperienza dei mistici è analoga a quella dei più audaci tra i loro contemporanei. Da parte sua, partito «come un uomo che procede solo e nelle tenebre», Cartesio scoprirà nel cogito la inneità attuale della Idea di Dio. E allo stesso modo che nei mistici, la forma dell’esposizione designa il contenuto: Cartesio presenta come una autobiografia intellettuale, «come una storia» personale, quel Discorso sul metodo destinato a ricostruire l’ordine di un universo a partire da una perceptio dell’infinito in me. I racconti biografici degli spirituali hanno una portata simile; sono ispirati dalla stessa questione radicale (quella del soggetto) e guidati dagli stessi criteri (esperienze che scandiscono il processo di una scoperta personale)”. Ibidem, p. 43.
[13] Ibid.