Dal ciclo “Lapide” – di Marina Cvetaeva
[Pubblichiamo alcune poesie di Marina Cvetaeva con la traduzione dal russo e nota di Annelisa Alleva.]
1
«Esco per qualche minuto…»
Al lavoro (caos lo chiamano
gli sfaccendati) il tavolo dimenticato,
discosta la sedia – dov’è andato?
Interrogo tutta Parigi.
Solo nelle fiabe e nei quadri
si ascende nei cieli!
La tua anima – dov’è andata?
Nell’armadio – a due ante come una chiesa, –
guarda – tutti i libri al loro posto.
Nella riga – tutte le lettere a vista.
Il tuo volto – dov’è andato?
Il tuo volto,
il tuo caldo,
il tuo dorso –
dov’è andato?
3 gennaio 1935
2
Invano con l’occhio – come con un chiodo,
la terra nera trapasso:
nella coscienza – più sicura di un chiodo:
qui non ci sei – e non ci sei.
Invano in un giro d’occhio
rovisto la volta dei cieli:
– Pioggia! d’acqua piovana secchio.
Lì non ci sei – e non ci sei.
No, nessuno dei due:
l’osso è troppo – osso, lo spirito troppo – spirito.
Dove sei – tu? dove – quello? dove – stesso? dove – tutto?
Lì – è troppo lì, qui – troppo qui.
Non scambierò te col vapore
e con la sabbia. Preso – come parente non ti
cederò per uno spettro e cadavere.
Qui è – troppo qui, lì – troppo lì.
Non tu – non tu – non tu – non tu.
Checché ci cantino i preti,
che la morte è la vita e la vita è la morte, –
Dio è – troppo Dio, il verme – troppo verme.
In cadavere e spettro – inscindibile!
non cederemo te per il fumo
dei turiboli,
i fiori
delle tombe.
E se da qualche parte tu sei –
è – in noi. Il miglior onore per voi
dipartiti è – disdegnare la scissione:
del tutto andato via. Con tutto – via.
5-7 gennaio 1935
Ci sono fortunati e fortunate,
che non possono cantare. A loro tocca
– versare lacrime! Per il dolore quant’è
dolce riversarsi in una pioggia a dirotto!
Affinché sotto la pietra qualcosa frema.
A me – la vocazione come una frusta –
nel mezzo del lamento funebre
il dovere a cantare – forza.
Così sul suo amico cantava Davide,
anche se a metà scisso!
Se Orfeo non fosse sceso nell’Ade
lui stesso, ma mandato la voce avesse
sua, solo la voce avesse mandato nel buio,
lui ritto sulla soglia superfluo –
Euridice dietro di lui
sarebbe uscita come sulla fune…
Come sulla fune e come alla luce,
ciecamente e per sempre.
Giacché, poeta, se la voce
ti è data, il resto – preso.
gennaio 1935
Marina Ivanovna Cvetaeva nasce a Mosca nel 1892. Trascorre un’infanzia principesca e scrive versi d’amore in russo e in tedesco a sei anni. Con la sorella Anastasija studiano in Svizzera e in Germania al seguito della madre, che va all’estero per curare la tubercolosi. Nel 1910 pubblica a sue spese il primo libro di poesie, Večernyj al’bom [Album serale]. Nel 1911 incontra Sergej Efron, bello, giovanissimo letterato ebreo, che diventerà suo marito un anno dopo, quando uscirà la sua seconda raccolta: Vol’šebnyj fonar’ [Lanterna magica]. Nel 1913: Iz dvuch knig [Da due libri], una selezione delle due precedenti raccolte. Nello stesso anno nasce la prima figlia Ariadna. Fra il 1913 e il 1916 compone il ciclo Junošeskie stichi [Versi giovanili], che vedranno la luce dopo la sua morte. Nel 1915 conosce il poeta Osip Mandel’štam. Nel 1917 nasce la seconda figlia, Irina, che morrà di stenti nel 1920 in un asilo dove la madre era stata costretta ad affidarla. Nel 1920 scrive la fiaba in versi Car-devica [Lo zar fanciulla], ispirata ai motivi del folclore russo, che sarà pubblicata nel 1922. Nello stesso anno lascia la Russia per raggiungere il marito, che si era schierato da subito contro i bolscevichi. Vive a Berlino, poi a Praga, e dal 1926 a Parigi. Nel 1922 pubblica a Mosca la raccolta Versty I [Verste I]. Nel 1923 a Berlino: Remeslo [Mestiere] e Psicheja [Psiche]. Nel 1924 scrive Poema gory [Il poema della montagna] e Poema konca [Il poema della fine]. A Praga esce nel 1924 il poema Molodec [Il prode], ispirato a una fiaba popolare russa. Nel 1925 nasce il figlio Georgij, detto Mur. Nel 1926, tramite Boris Pasternak, entra in contatto epistolare con Rainer Maria Rilke: nasce un carteggio intenso fra i tre poeti. Nel 1928 esce a Parigi la raccolta Posle Rossii [Dopo la Russia]. Gli Efron si trasferiscono continuamente di casa in casa, di luogo in luogo. Marina è respinta dall’ambiente dei compatrioti e dalla “freddezza” francese. Cerca un’indovina per farsi consigliare da lei: il dubbio è se tornare o no in Russia. Nel 1937 Alja riparte per l’Unione Sovietica. Sergej Efron è coinvolto nell’omicidio di un agente della GPU sovietica, che in occidente aveva disertato, e anche in quello del figlio di Trockij. Esisteva infatti in Francia e in Svizzera una vasta rete di polizia segreta sovietica, legata a alcuni ambienti dell’emigrazione. Efron sparisce, Marina viene interrogata. Nel 1939 parte col figlio per Mosca. In agosto viene arrestata Alja, e anche Sergej. Nel 1940 incontra Anna Achmatova. Nel 1941 la figlia è al confino, e lei riesce a trovare saltuariamente lavori di traduzione. Nel 1941, a Elabuga, capitale della Repubblica Tartara, che aveva raggiunto col figlio seguendo l’ondata dell’evacuazione bellica, Marina trova lavoro – dopo averne fatto richiesta per iscritto in un biglietto diventato simbolo di un’epoca – come lavapiatti in una mensa locale. È ospitata in un’izba contadina, dove s’impicca la domenica del 31 agosto. Viene seppellita in una fossa comune. La sorella Anastasija va a Elabuga nel 1960 – prima non aveva potuto perché deportata – e fa mettere una croce e una piccola iscrizione sul lato del cimitero in cui riposa Marina Cvetaeva. Oggi lì esiste una tomba, diventata meta di pellegrinaggio.
Chi era Marina Cveteva? Amava il colore rosa, le gonne contadine, zingare, colorate. L’ambra scura. Si sentiva russa, ma antichissima, prealfabetica. Portava il trentotto di scarpe. Si vestiva con abiti alla Bettina Brentano von Arnim: con le maniche corte, dalla scollatura squadrata e abbottonati davanti. Scarpe da montagna coi lacci, chiuse. Un anello per ogni dito, ma non amava le proprie mani, che trovava tozze. E dovevano essere d’argento, perché l’oro è volgare. «Cinicamente voltairiana», la definisce in una lettera a un amico il marito Sergej Efron. «Tutto viene trascritto in un libro», ancora lui, nel definire la sua implacabilità di ascoltatrice, puro sismografo di se stessa. «In voi tutto è legge», le scrive l’amante Višnjak nell’ultima lettera. Marina si descrive incapace di salvare se stessa, di difendersi, come una creatura coerentissima nei suoi principi, nella sua purezza di ascoltatrice, e allo stesso tempo nella spietatezza verso di sé e verso il mondo. Spartana negli atti e nella scelta delle parole. Virile nell’accostare uomini e donne. Sola. Abituata a essere portata altrove fin da piccola, quando la madre andava in giro per l’Europa. Un padre vecchissimo e diventato importante, che l’aveva generata a settantacinque anni, in secondo matrimonio, già con due figli, e una madre infelice, molto più giovane, che aveva rinunciato al sogno di diventare pianista. Un probabile sogno ereditato da risarcire e da realizzare. Scrive le prime poesie a sei anni. Si sposa a vent’anni contro il volere paterno e a vent’anni nasce la sua prima figlia, Ariadna, Alja, che la descrive come una mamma insolita, con gli occhi verdi, il naso a gobbetta, e non amante dei bambini in genere, neppure quelli degli altri. «Delle sue carezze ti puoi ammalare», scrive in un lucidissimo resoconto a nove anni. A meno di trenta Marina lascia la Russia per l’esilio, nel quale vive come su un’isola di Sant’Elena. La sua frangia comincia a imbiancarsi. Perde tutti. Alja forse si salva col confino. Marina s’impicca a quarantanove anni a una trave del soffitto d’ingresso di un’izba contadina a Elabuga, ma spesso aveva parlato con solidarietà dei suicidi, li sentiva vicini. Voleva decidere tutto lei da sempre. Al figlio adolescente Georgij, Mur, che viveva con lei ma in quel momento era assente, lascia un biglietto in cui scrive, fra l’altro: Eto – uže ne ja. Questa cosa non sono più io. In tasca ha un quadernetto minuscolo di pelle nera coi gigli d’oro, con dentro l’appunto: «Mordovija», che era l’antico nome del Tatarstan, dove si trovava. Mur rifiuterà di vederla. Allo stesso modo Marina non aveva accettato la Rivoluzione. Aveva vissuto anni e anni contro, come carta vetrata.