Fantasmi mediatici e voyeurismo di guerra – di Alvise Marin

Fantasmi mediatici e voyeurismo di guerra – di Alvise Marin

10 Novembre 2022 Off di Francesco Biagi

Solo chi la vive sul proprio corpo e nella propria anima, può fare esperienza reale della guerra, ovvero può avere «esperienza diretta del Reale in quanto opposto alla realtà sociale quotidiana»[1]. Un’esperienza lesionante e desertificante, fatta di boati assordanti, dell’incendio e del crollo della propria casa, dell’odore e la vista del sangue di corpi feriti o ammazzati, della fame e della sete, di quel Reale traumatico che venendo prima di qualunque ragione può consegnarci a una follia senza ritorno, della sospensione delle abitudini di vita, della disintegrazione del paesaggio interno ed esterno e della costante sofferenza, legata a una condizione di inermità assoluta e d’incapacità di vedersi proiettati verso un qualsivoglia futuro, inchiodati come si è all’orrore del presente, nel quale spira incontrastato l’alito della morte. Chi invece la osserva al riparo di uno schermo televisivo o di un computer, come noi, ne può fare tutt’alpiù un’esperienza mentale, emotiva, spettacolare ed estetica, avendo sempre ben presente che nessun proiettile potrà colpirci, che nessuna bomba potrà far saltare in aria la nostra casa, che la nostra vita non è in pericolo e che dunque non saremo mai coinvolti realmente in quegli eventi. Davanti ad uno schermo non possiamo fare alcuna esperienza reale di quanto vediamo, perché quest’ultima è possibile sempre e solo a partire dal preciso punto (punctum) nello spazio e nel tempo, in cui si colloca il nostro corpo, e non attraverso una visione ubiquitaria e un tempo reversibile, come quello proprio dei media.

L’esperienza della guerra coinvolge corpi e menti nell’hic et nunc nel quale si svolge, laddove invece il mezzo televisivo, fin dalla sua comparsa e oggi, a fortiori, i nuovi media, abolendo quei limiti a cui è vincolato il corpo umano, trasportano lo spettatore in luoghi lontani nel tempo e nello spazio, facendolo anche assistere ad eventi invisibili a occhio nudo. I contenuti che possono entrare potenzialmente nell’orizzonte della sua “esperienza” si dilatano infinitamente. Sembra però che più che mettere a contatto il soggetto con sfere di realtà altrimenti irraggiungibili, i nuovi media tendano a modificare il concetto stesso di realtà.

Già Benjamin negli anni Trenta riferiva, a proposito della stampa, della sua produzione di un effetto di realtà, dove il vero evento era la notizia dell’evento e non tanto l’evento stesso. Questa autoreferenzialità della notizia, la sua dissociazione dall’evento reale, di cui avrebbe dovuto essere latrice, producevano l’apparenza ma anche la possibilità di una strana inversione temporale tra i due, quasi che l’evento stesso per accadere dovesse essere prima riferito dalla sua notizia. I mezzi di comunicazione succedutisi alla stampa hanno reso sempre più concreta questa possibilità: «[…] più che ampliare i confini del nostro ambiente percettivo, i media costituiscono il nuovo ambiente in cui viviamo (o almeno una sua parte cospicua). Il fatto che qualcosa sia mostrato dai media è un fatto in se stesso, che va al di là del ‘fatto’ cui il messaggio che ci arriva rimanda, e dà forma al nostro ambiente quotidiano»[2].  La realtà, da questo punto di vista, non possiede più un’esistenza autonoma, ma viene fatta essere dalla ripresa televisiva; ciò che non appare sullo schermo televisivo, semplicemente non è. Se possiamo parlare di un’esperienza che sedimenti nell’uomo che sta davanti ad uno schermo, è quella dello spettatore, che vede e conosce molte cose, senza mai avere alcuna presa su ciò che ha visto; egli è esonerato dall’agire e dai rischi che esso comporta: «Se si tratta di esperienza, è un’esperienza in qualche modo sbilanciata: la presenza del corpo, l’interazione con l’ambiente fisico, il ‘fare’, sono ridotti ai minimi termini; al contrario, si ampliano i contenuti di ciò che veniamo a sapere, che possiamo immaginare, o al cui suono possiamo ‘vibrare’. Sapere, immaginare, vibrare emotivamente hanno sempre fatto parte dell’esperienza – in ciascuna delle sue accezioni – ma mai si erano sganciati a questo modo dal fare, dal rischiare – almeno un po’ – in prima persona, dal fatto che il soggetto provi attivamente la propria ‘presa’ sul mondo»[3]. L’esperienza da spettatore di un evento, mi fornirà maggiori informazioni rispetto a quella che mi coinvolge direttamente, ma sarà un’esperienza disincarnata, alla quale manca la presenza reale del mio corpo, sul quale l’evento stesso si possa iscrivere, rendendola propriamente mia.

 

Secondo Jean Baudrillard, la contaminazione tra realtà e media, in riferimento alla guerra, era già presente nel conflitto del Vietnam, dal quale Francis Ford Coppola trasse il suo Apocalipse Now: «Coppola fa il suo film come gli americani hanno fatto la guerra – in questo senso è la migliore testimonianza possibile – con il medesimo eccesso, il medesimo dispendio di mezzi, il medesimo mostruoso candore… La guerra come devastazione, come fantasia tecnologica psichedelica, la guerra come una successione di effetti speciali, la guerra diventata un film ben prima di essere girato». Della guerra del Vietnam, Apocalipse Now risulterebbe essere «una sua estensione con altri mezzi, il completamento di questa guerra incompiuta e la sua apoteosi… un superfilm che completa l’effetto spettacolare di massa di questa guerra. Nessuna reale distanza, nessun senso critico, nessun desiderio di “presa di coscienza” in relazione alla guerra»[4].

Ai tempi della prima guerra del Golfo (1990-1991), si assiste a una forte sovraesposizione mediatica della guerra, anche se al tempo le immagini che Peter Arnett della CNN commentava, erano al più quelle dei traccianti notturni dei razzi lanciati dalle navi americane o degli obiettivi colpiti dai bombardieri in soggettiva. Una guerra che assomigliava più alla simulazione di un videogioco, con gli unici giornalisti presenti sul campo, embedded, e nella quale scontri a fuoco, feriti e cadaveri non comparivano: «una guerra asessuata, chirurgica, war processing, nella quale il nemico si presenta come un bersaglio sullo schermo di un computer»[5]. Una guerra che iniziava a coinvolgere lo spettatore in diretta, con la sua spettacolarizzazione, e nella quale «l’intera umanità si è seduta davanti al piccolo schermo della sua televisione per poter godere del più cruento degli spettacoli. E la guerra è stata trasmessa perciò in diretta nelle case di tutte le persone come se si trattasse del più innocente e piacevole degli show televisivi. Ha nascosto così la sua natura tragica e violenta dietro la luccicante e fascinosa rappresentazione mediatica»[6].

La guerra alla quale noi oggi stiamo assistendo in Ucraina, dopo i progressi tecnologici fatti dai mezzi di comunicazione di massa negli ultimi vent’anni, lo sviluppo planetario di internet e dei social media e la moltiplicazione dei dispositivi in grado di scattare foto e video e di condividerli in tempo reale in rete, è senz’altro la guerra più mediatica di sempre. Questo profluvio ininterrotto d’immagini e parole che dal suo scoppio hanno inondato tutti gli schermi, ha fatto si che la massa spettatoriale che siamo diventati dopo decenni di esposizione mediatica, sia stata assorbita da queste immagini in un continuum emotivo che l’ha rimbalzata da un orrore all’altro, spesso senza che si sviluppasse una riflessione critica su quanto si stava vedendo allo schermo. Del resto, stando a quanto scriveva il politologo Giovanni Sartori nel suo Homo videns, negli anni novanta il potere assorbente delle immagini televisive aveva già apportato una mutazione all’apparato cognitivo umano, tale da rendere obsoleto il linguaggio scritto quale strumento di comprensione della realtà e da ridurre l’esperienza dello spettatore “a un vedere senza capire”.

Le immagini di questa guerra hanno invaso le nostre case, suscitando ondate di orrore profondo e di commozione generale. Immagini che ci hanno emozionato, ma che allo stesso tempo hanno perso subitaneamente il loro potenziale emotivo, sostituite in breve da altre di diverso genere, senza che le emozioni destate si cristallizzassero in un sentimento duraturo, in grado di produrre una qualche azione concreta. Questa volatilità emotiva delle immagini mediatiche può essere legata da un lato, secondo quanto scriveva negli anni cinquanta del secolo scorso Günther Anders, a proposito degli avvenimenti trasmessi in TV, al fatto che «si sa, certamente, che ciò a cui si è assistito or ora è realmente successo or ora, nello stesso momento in cui lo si è visto sullo schermo; ma il fatto è che lo si sa soltanto; il sapere rimane però senza vita […] perciò anche la nostra emozione rimane piccola e immaginaria; considerevolmente più piccola persino delle emozioni suscitate in noi dalle catastrofi meramente fittizie che hanno luogo sul palcoscenico»[7]. Dall’altro all’obsolescenza accelerata delle immagini veicolate dai media, la quale induce assuefazione e dipendenza in noi quali consumatori d’immagini. Siamo già assuefatti all’immagine appena vista e in attesa di riceverne una nuova, in un circolo vizioso che alimenta la nostra dipendenza.

L’ininterrotta produzione e riproduzione mediatica di immagini e la loro circolazione e ricombinazione infinita configurano di continuo, però, il tradimento della realtà, attraverso una galleria di volatili simulacri, nella quale il «simulacro non si scambia più con del reale, ma si scambia in sé, in un circuito ininterrotto a cui non appartiene affatto la referenza»[8]della realtà. La conseguenza è che le immagini da un lato, sembrano diventare più reali della realtà, più vere del vero, ma dall’altro portano con sé un alone d’irrealtà e di finzione, piuttosto che di vacuità. Secondo Günther Anders, questo accade perché le immagini che riceviamo dai media non sono immagini nel senso tradizionale del termine, in cui «l’immagine seguiva il suo soggetto, quale riproduzione o monumento, per richiamarne il passato». Nelle immagini trasmesse, il “dislivello temporale” si annulla ed esse «compaiono in simultaneità e sincronia con gli eventi rappresentati». Questo comporta una “ambiguità ontologica”, per la quale «gli avvenimenti trasmessi sono al tempo stesso presenti e assenti, al tempo stesso reali e apparenti, ci sono e al tempo stesso non ci sono: perché sono fantasmi»[9]. La conseguenza di questa ambiguità tra essere e apparire è quella di produrre “una serietà non-seria o una seria non-serietà, cioè uno stato di oscillazione e di fluttuazione, in cui la distinzione tra serio e non-serio non ha più valore, e nel quale l’ascoltatore non può nemmeno porsi la domanda: in qual modo la trasmissione lo riguardi (se come essere o come apparenza, come informazione o come fun) oppure in che veste egli debba ricevere la fornitura che gli è stata consegnata (in veste di essere politico-morale o in veste di consumatore di beni voluttuari)[10].

I palinsesti televisivi, nella loro giustapposizione di telegiornali, dirette televisive, talk show, serie, film e pubblicità, espongono lo spettatore a un caleidoscopio di stimoli frammentari, di percezioni puntuali e discontinue. Davanti allo schermo televisivo egli può solo voyeuristicamente osservare ciò che accade nel mondo. Anche Mario Pezzella ricorda che è improprio chiamare immagine quella che vediamo nello schermo televisivo, in quanto l’immagine propriamente detta porta con sé il ricordo di un passato o la speranza e il desiderio di un futuro e rivela sempre la  presenza assenza di ciò o di colui che è evocato. L’immagine televisiva è in verità un simulacro di una presenza immediata e produce la contemporaneità tra l’oggetto e la sua visione, «l’immagine riaffermava la differenza e la distanza di quanto in essa veniva evocato; il simulacro mi attrae in una identificazione immediata, in cui perdo ogni capacità di riflessione e sono assorbito – per così dire – nell’abbacinante presenza dell’allucinazione»[11]. E il simulacro, da un lato «s’impone con un’autorità apparentemente incontestabile» tale da farlo sembrare, nella verità della sua evidenza, più reale del reale, dall’altro sconta l’irrealtà della sua evanescenza spettrale, attraverso la sua permutabilità infinita.

Questa ambivalenza ontologica deriva dal montaggio di immagini e messaggi mediatici, in quanto entrambi, secondo Baudrillard, «risultano già da una selezione, da un montaggio, da una ripresa» della realtà, ovvero da una sua simulazione, nella cui «logica iperreale di montaggio, il processo contraddittorio del vero e del falso, del reale e dell’immaginario, è abolito». La formula di Marshall McLuhan, Medium is message, per Baudrillard significa che «è in effetti il medium, il modo stesso di montaggio, di sceneggiatura, d’interpretazione, di sollecitazione, di ingiunzione da parte del medium, che regola il processo di significazione»[12].

Le immagini mediatiche non cancellano la realtà in quanto tale, ma l’assorbono in un cono immaginario autoreferenziale, che non percepiamo più come immaginario, perché la loro tendenza a dissolvere  il referente reale, fa venir meno il termine antinomico, in opposizione al quale qualcosa si possa definire immaginario. Immaginario e realtà si con-fondono e tutto assume un diverso statuto ontologico rispetto alla realtà, con esiti de-realizzanti nei confronti di quest’ultima, che si trasforma in iperrealtà : con «il crollo della realtà nell’iperrealismo, nella reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo – pubblicità, foto, ecc. – di medium in medium la realtà si volatilizza diventando iperreale»[13]. La conseguenza di ciò è appunto che la stessa contraddizione tra realtà e immaginario viene a dissolversi, perché tutto è diventato iperreale.*

 

La turbolenza delle immagini ci aspira nella sincronia del presente, nascondendo feticisticamente la diacronia della storia e impedendoci di sviluppare una riflessione che necessiterebbe tempi più lunghi di quelli mediatici. La valenza delle immagini mediatiche è eminentemente estetico spettacolare, e a causa di questo, poco importa che siano finzioni o immagini reali, perché il medium che le veicola le transustanzia tutte in un registro, appunto, estetico spettacolare: “ogni aspetto della vita quotidiana mi viene proposto in una visione estetizzante, in una sorta di continua e trascendente sublimità. L’immagine più orrida mi chiede comunque una risposta contemplativa, senza possibilità di reazione attiva; l’immagine più seducente mi richiede comunque una distanza ascetica, senza possibilità di sedurre a mia volta […] L’immagine televisiva mi mostra un quasi-presente neutralizzato e cioè solo il suo simulacro devitalizzato”[14]. Potrebbe essere questa una delle ragioni per cui immagini come quella dell’attacco all’ospedale di Mariupol o dell’orrore di Bucha, hanno continuato a dividere l’opinione pubblica, in merito alla loro veridicità. Del resto, gli stessi media sembrano operare attivamente nel rendere sempre più labile il confine tra realtà e finzione, utilizzando tecniche digitali di rendering e morphing, e inserendo nei programmi, immagini mutuate da fiction e videogiochi. I social media amplificano tutto ciò, manipolando, decontestualizzando e ricombinando parole e immagini, in un folle patchwork digitale, che erode ulteriormente ogni referente reale.

Questa è la guerra dei selfie e delle fake, in cui droni e smartphone pur filmando, anche in tempo reale, ogni più piccolo accadimento, non rendono più certa la realtà che quelle immagini rimandano e questo perché “l’eccessiva prossimità dell’evento e della sua diffusione in tempo reale genera indecidibilità, una virtualità dell’evento stesso che lo spoglia della sua dimensione storica e lo sottrae alla memoria, facendo si che i giudizi di valore non siano più possibili. Siamo ormai e per sempre condannati all’incertezza perpetua sulle immagini. Solo il loro impatto ha importanza, nella misura in cui sono immerse nella guerra. Non c’è neanche più bisogno dei giornalisti embedded, i militari stessi sono immersi nell’immagine – grazie alla digitalizzazione, le immagini sono definitivamente integrate alla guerra. Ormai non la rappresentano più, non implicano più né distanza, né percezione, né giudizio. Non appartengono più all’ordine della rappresentazione né dell’informazione in senso stretto e, di conseguenza, la domanda sulla necessità di produrle, riprodurle, diffonderle, proibirle o anche la questione ‘essenziale’ di sapere se sono vere o false, diventano ‘irrilevanti’”[15]. I soldati si scattano selfie sul teatro di guerra, riprendono le loro azioni in diretta e filmano i cadaveri dei loro nemici, condividendo tutto sui canali social. La guerra già al fronte si trasforma in un grande e crudele spettacolo, nel quale i soldati/attori si esibiscono di fronte al vasto pubblico dei social media.

 

L’estetizzazione spettacolare delle immagini, colpisce anche le parole nella misura in cui, immersi nella Babele dell’infosfera mediatica, i significanti cominciano a fluttuare liberamente, disancorati dai loro significati, arrivando in alcuni casi a generare mostruosità semantiche, mentre immagini e parole si accoppiano e disaccoppiano, producendo pastiche surrealiste. All’interno dello spettacolo mediatico post-moderno, assistiamo all’infinita moltiplicazione prospettica dei punti di vista, immersi in un’atmosfera di seduzione e sensazionalismo al cui interno le stesse parole assumono lo statuto di simulacri.

Parole e immagini trasmesse dai media possono anche avere un potere performativo in grado di creare effetti di realtà, a partire da eventi completamente inventati, come il falso sbarco dei marziani annunciato nel 1938 da Orson Welles alla radio, che sconvolse migliaia di persone negli Stati Uniti o, più recentemente, la fiction mandata in onda dalla CBS, che raccontava l’invasione della California da parte degli alieni e che, nonostante l’avvertimento che ciò che veniva trasmesso non era reale, ha gettato migliaia di persone nel panico e indotto molte a caricare la propria famiglia in auto per fuggire il più lontano possibile[16].

La permutabilità reciproca tra finzione e realtà, risulta ad esempio evidente, nella singolare elezione a presidente dell’attore comico Zelensky, candidato di un partito che aveva lo stesso nome della fortunatissima serie televisiva in cui egli interpretava un uomo qualunque, che stanco della corruzione politica che imperversava in Ucraina, veniva inaspettatamente eletto alla massima carica dello stato. La sensazione che Zelensky, una volta eletto presidente, stesse recitando il sequel della sit com di cui era protagonista, con gli sceneggiatori della sua casa di produzione diventati i suoi spin doctor, si è rafforzata con questa guerra, nella quale scenografie e testi recitati nei suoi ubiquitari messaggi video, sembravano spesso quelli di una fiction studiata a tavolino per coinvolgere un vasto pubblico. Recitando mimeticamente parti diverse a seconda del contesto, l’attore/presidente Zelensky si è dimostrato in grado di volta in volta di toccare le corde più sensibili di ogni festival come di ogni paese, a partire dagli USA, presso il cui parlamento ha paragonato l’invasione ai danni dell’Ucraina, all’attacco subito dagli americani a Pearl Harbour e all’11 settembre. Per continuare al Bundestag con il riferimento alla caduta del muro di Berlino, e alla House of Commons, con una citazione di Winston Churchill. Fino ad arrivare all’esorbitante quanto improvvido confronto alla Knesset tra la situazione del suo paese e la Shoah, che ha provocato una levata di scudi da parte delle autorità israeliane, che hanno disvelato in questo modo, la trama seduttiva e strumentale dei suoi messaggi. Questa omogeneizzazione tra realtà e immaginario è già in opera da tempo in quanto, come già scritto, è la loro stessa contraddizione a essere venuta meno. La permeabilità della realtà all’immaginario ha reso possibile che “molte delle creature di cui si compone il mondo reale siano già state definitivamente sconfitte dai fantasmi mediatici, rappresentino cioè riproduzioni di simulacri, siano perfettamente simili a loro: la vittoria dei fantasmi ha già reso irriconoscibile la diversità dei contendenti”[17]. La realtà stessa si è fatta simulazione, modellata in anticipo da quella che Baudrillard chiamava la “precessione dei simulacri”. Come simulazione, la realtà non è più né contraffabile né rappresentabile, in quanto rimanendo chiusa nell’allucinante somiglianza con se stessa, diventa “ciò che è sempre già riprodotto. Iperreale”. La realtà non può più superare la finzione, in quanto “immediatamente contaminata dal suo simulacro […] è tutta la realtà quotidiana, politica, sociale, storica, economica, ecc., che fin d’ora ha incorporato la dimensione simulatrice dell’iperrealismo: noi viviamo già ovunque nell’allucinazione estetica della realtà”[18]. La realtà, confusasi con le sue immagini, con i suoi simulacri, “non ha più nemmeno il tempo di acquistare valore di realtà. Non supera nemmeno più la finzione, come si usava dire un tempo: essa capta qualsiasi sogno prima che esso acquisti valore di sogno. Vertigine schizofrenica di queste immagini seriali, senza contraffazione, senza sublimazione possibile, immanenti nella loro ripetizione – chi potrà dire dove sia la realtà di ciò che esse simulano?[19]. Non a caso, in occasione dell’attacco terroristico alle Twin Towers, si sentiva ripetere in continuazione: “sembra di essere in un film”, ovvero in qualcosa di già prefigurato, immaginato. L’evento però cortocircuitava “il patto implicito che noi ci si possa nutrire delle immagini senza passare all’atto”, con un acting out, che “prendeva in parola l’indifferenza tra immagine e realtà”[20], lacerando la rete dei simulacri stesa isomorficamente sul piano della realtà, per far emergere da un lato, secondo Baudrillard, la sfida assoluta di questo evento simbolico all’immaginario e dall’altro, aggiungiamo noi, l’eccesso di un non simbolizzabile Reale traumatico.

La rottura del patto di simulazione e il passaggio all’atto, è anche quello che puntualmente accade quando un adolescente, immerso nella Babele immaginaria dei social media, imbraccia un fucile d’assalto ed esce da casa dei suoi genitori, per sterminare decine di uomini, donne e bambini.

Ma si potrebbe anche dire che sia quello che è accaduto il 24 febbraio, quando il passaggio all’atto della Russia, lacerava il circuito immaginario satellitare planetario che da settimane trasmetteva immagini di decine di migliaia di truppe russe ammassate al confine con l’Ucraina, facendo esplodere il Reale della guerra.

 

Susan Sontag evidenzia la commistione tra reportage e film di guerra e sottolinea il rischio di estetizzazione e relativa sensazione di inautenticità del primo: “la fotografia di guerra sembra riecheggiare, oltre che ispirare, le scene di battaglia ricostruite in importanti film di guerra, e ciò ha cominciato a ritorcersi contro l’attività dei fotografi. L’autenticità dell’acclamata ricostruzione dello sbarco a Omaha Beach durante il D-Day in Salvate il soldato Ryan era assicurata dal fatto che per realizzarla Steven Spielberg aveva utilizzato, tra le altre fonti, le fotografie scattate con immenso coraggio da Robert Capa durante lo sbarco. Al contrario, una fotografia di guerra che ricordi il fotogramma di un film sembra sempre inautentica, anche se in essa  non c’è nulla di costruito”[21].

Nel gioco di specchi delle immagini mediatiche della guerra in Ucraina, è lo stesso reportage video e fotografico che tende a non essere più garanzia di veridicità su quanto accade sul campo. Per Baudrillard la fiducia nel reportage fotografico di mobilitare l’opinione pubblica si fonda sull’illusione che “esista una realtà che le immagini ci restituirebbero fedelmente. Crediamo di vedere nella fotografia il riflesso del nostro mondo ma, al contrario, le immagini in tempo reale esorcizzano questo mondo mediante la finzione istantanea della loro rappresentazione – e non mediante la loro rappresentazione. Perché il messaggio si trasmetta, perché l’immagine abbia efficacia sensibile, c’è bisogno di un transfert sull’immagine, e che questo transfert sia perentorio. C’è bisogno, ancora e sempre, di una distanza – ma con i media e il tempo reale ci troviamo nella promiscuità totale”[22].

Secondo il filosofo francese, nelle società contemporanee si sviluppa una forma di violenza più sottile di “quella dell’aggressione, dell’oppressione, dello stupro, del rapporto di forza, dell’umiliazione, della spoliazione – la violenza unilaterale del più forte, ovvero la violenza dell’informazione, dei media, delle immagini, dello spettacolare. Violenze legate alla trasparenza, alla visibilità totale, alla scomparsa di qualunque segreto”[23]. Una violenza, quella dell’esibizione mediatica di questa guerra, che diventa oscenamente pornografica, nel suo rimuovere tutti i veli del pudore, lasciando in bella mostra cadaveri e corpi carbonizzati, indagando ed esibendo l’intimità delle persone, continuando a filmare senza posa il dolore e la sofferenza iscrittisi nei corpi e nei volti delle vittime del conflitto, analizzando, schematizzando e vivisezionando ripetutamente tutto ciò che accade. I media, nello stadio o-sceno dell’informazione, esibiscono quanto dovrebbe rimanere fuori dalla scena, per mezzo della seduzione di immagini più visibili del visibile, promuovendo la “dilatazione della visibilità di ogni cosa fino all’estasi. L’osceno è la fine di ogni scena e la prossimità assoluta della cosa vista […] E’ l’oscenità di tutto ciò che viene instancabilmente filmato, filtrato, riveduto e corretto sotto il grandangolo dell’informazione nel quale tutti i valori sono sovraesposti, in una sorta di estasi indifferente”[24].

Una pornografia del dolore e dell’orrore, le cui immagini tentano di sollevare anche l’ultimo velo, al di là del quale traspare il traumatico e inguardabile “reale crudo”. E’ in quel momento che il Reale ritorna, ma nella “forma di un'(altra) apparenza” entro la quale “dovremmo essere capaci di distinguere il nocciolo duro del Reale che siamo in grado di sopportare solo se lo finzionalizziamo”[25], ovvero lo filtriamo attraverso l’apparenza di un ‘immagine.

I media di guerra sollecitano quel voyeurismo morboso e perverso dell’essere umano, che nel medioevo trovava soddisfazione nelle esecuzioni e nelle torture inflitte nelle pubbliche piazze e che oggi, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, trova di che soddisfarsi ad libitum. Quello stesso che induce alcuni automobilisti a fermarsi per guardare un incidente o un disastro, con il rischio di crearne a loro volta, o che incolla le persone a programmi televisivi conditi da dolore e sofferenza. Ma se siamo diventati voyeur di guerra, questo significa che non faremo mai nulla per fermarla, perché il voyeur non partecipa mai all’azione che contempla, ma ne gode in modo solitario, rimanendone al di fuori: “il traffico di immagini, anche le più violente, sviluppa un’immensa indifferenza nei confronti del mondo reale”[26]. Nella sua solitudine, il voyeur della guerra mediatica spia e gode della sofferenza e della morte a distanza, attraverso il buco della serratura del suo schermo.

 

I simulacri digitali dei media alimentano l’appetito del nostro occhio desiderante di consumatori seriali d’immagini. La loro ripetizione e variazione continua, confermano la disillusione della loro promessa di completezza e intrappolano in un virtuale circolo vizioso il nostro desiderio, del quale sfruttano la metonimica mancanza a essere. Quella mancanza a essere, di cui parlava Jacques Lacan, la quale appartiene strutturalmente all’essere parlante, che vede nell’oggetto immagine di fronte a sé, la causa del suo desiderio, quando invece quest’ultima sta alle sue spalle e lo sospinge da immagine a immagine senza potersi mai saturare, perché al fondo il desiderio, nella sua metonimica mancanza a essere, è “desiderio di ni-ente”. Questo significa che per quanto venga virtualmente nutrito dalle immagini dei media, continuerà a riprodursi, e questo perché la spinta che lo anima è un vuoto a-significante che nessuna immagine o significato è in grado di colmare.  All’interno di questo circo mediatico immaginario, nel quale l’immagine è diventata soverchiante rispetto a una parola fattasi a sua volta vuoto simulacro, l’infinità del desiderio, priva com’è di una struttura simbolica che la contenga e la strutturi, si fa “cattiva infinità”, attraverso una coazione a ripetere, che viene alimentata dalla sottostante pulsione scopica.

Quello che le immagini spettacolarizzate di un disastro o di una guerra catturano è appunto la pulsione scopica dello sguardo, che ci fa “sperimentare cosa siano la ‘compulsione a ripetere’ e il godimento al di là del principio di piacere: si vuole vedere, ancora e ancora, lo stesso tipo di scene ripetute fino alla nausea, e la misteriosa soddisfazione che ne traiamo è godimento allo stato puro”[27], scriveva Slavoj Žižek, commentando la reazione degli spettatori di fronte allo spettacolo del crollo delle Twin Towers. Questo può accadere perché “ciò che guardo non è mai ciò che voglio vedere[28], a significare che la funzione dello sguardo precede e diverge dalla visione dell’occhio. Mentre quest’ultima è la funzione di un organo, la prima è la funzione di un oggetto. Mentre la visione dell’occhio riguarda lo spazio geometrale del soggetto cartesiano, lo sguardo ha a che fare con la pulsione scopica, quale cascame di Reale. L’oggetto del quale lo sguardo è funzione, non è l’immagine che viene vista allo schermo, ma quell’oggetto piccolo (a), residuo di Reale che la castrazione simbolica lascia dietro di sé. Oggetto quindi pulsionale, del quale lo sguardo presentifica il reale della mancanza a essere, prodotta dalla castrazione, che alimenta il desiderio, tendendo allo stesso tempo all’aggiramento di quest’ultima; la pulsione scopica “infatti, è quella che elude più completamente il termine della castrazione”[29]. Puntando a eludere la castrazione simbolica, la pulsione scopica si fa pulsione di morte, attraverso la ricerca di un godimento dello sguardo, che “vuole ripetersi, al di là della volontà del soggetto, […] negando l’economia libidica dettata dal principio di piacere. Ciò che si ripete, infatti, può anche avere un carattere spiacevole”[30].

Questa dinamica strutturale del desiderio/godimento viene sfruttata appieno dal flusso delle immagini dei media, che adescano il voyeur mediatico, seguendo lo stesso copione del “discorso del capitalista, che non funziona più reprimendo la spinta pulsionale del soggetto, come nel freudiano disagio della civiltà, ma incitando in permanenza la sua soddisfazione integrale”[31]. Soddisfazione illusoria quella delle immagini mediatiche, che al pari di ogni merce, promettono un plus-godere sempre mancato, laddove a realizzarsi è invece sempre e solo un plus-valore. Le immagini merce assumono, nel loro statuto di simulacri, le vesti contraffatte di altrettanti oggetti piccoli (a), che catturando il desiderio, lo estenuano fino all’eccesso di una jouissance mortifera.

La viralità della violenza delle immagini e il carico tanatologico delle immagini della violenza di questa guerra, nella promiscuità e nel reciproco rispecchiamento di realtà e finzione, invocano le spoglie del nostro fantasma inconscio, che nello scorrere di quelle immagini, ricerca le coordinate fantasmatiche di un godimento originario, fattosi per loro tramite, godimento di morte. All’interno di questa coazione al godimento, la stessa ambivalenza tra realtà e finzione su quanto accade sul nostro schermo, rimarrà tale fino a quando non saranno i nostri stessi corpi a venire colpiti da un proiettile, ma forse allora ne rimarremo sorpresi e continueremo a non avere la certezza di un’esperienza reale, ma solo quella ambivalente e virtuale, garantita dallo schermo che abbiamo ormai incorporato dentro di noi e che, desertificando la realtà, ci ha precluso ogni possibile esperienza reale.

 

NOTE:

[1]   S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002, p. 11. Il riferimento qui è a Jacques Lacan, per il quale, se la “Realtà” è strutturata dalle coordinate simboliche del linguaggio, che le assegnano dei significati condivisi, il “Reale” è ciò che, nell’eccesso della sua violenza traumatica, soggettiva e oggettiva, interna ed esterna, non è simbolizzabile e quindi significabile.

[2]   P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 113

[3]   Ibidem, p. 119-120

[4]   J. Baudrillard, Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981, p. 89

[5]   J. Baudrillard, La guerra del Golfo non ha avuto luogo, articolo su Libération del 29 marzo 1991

[6]   V. Codeluppi, Jean Baudrillard. La seduzione del simbolico, Feltrinelli, Milano 2020, p. 60

[7]   G. Anders, L’uomo è antiquato vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p.171

[8]   J. Baudrillard, Simulacri e impostura, PGRECO, Milano 2009, p. 65

[9]   G. Anders, op. cit., pp. 152, 153

[10]  Ibidem, p. 162

[11]  M. Pezzella, Narcisismo e società dello spettacolo, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 37,38

[12]  J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 75-77

[13]  Ibidem, p. 85

[14]            M. Pezzella, op. cit., p. 36

[15]  J. Baudrillard, L’agonia del potere, Mimesis, Milano 2008, pp. 47,49

[16]  V. Codeluppi, Il tramonto della realtà, Carrocci, Roma 2018, p. 33

[17]  G. Anders, op. cit., pp. 166, 167

[18]  J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, op. cit., pp. 87, 88

[19]  Ibidem, p. 89

[20]  F. Carmagnola, La triste scienza, Meltemi, Roma 2002, pp. 68, 69

[21]  Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, nottetempo, Milano 2021, p. 93

[22]  J. Baudrillard, L’agonia del potere, op. cit., p. 50

[23]  Ibidem, pp. 37,38

[24]  J. Baudrillard, Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano 2011, p. 62 e ss

[25]  S. Žižek, op. cit., p. 23

[26]  J. Baudrillard, L’agonia del potere, op. cit., p. 39

[27]  S. Žižek, op. cit., p. 16

[28]  J. Lacan, Il seminario Libro XI, Einaudi, Torino 1979, p. 104

[29]  Ibidem, p. 80

[30]  F. Lolli, E’ più forte di me, Poiesis, Bari 2015, p. 25

[31]  A. Simoncini, Società della merce, spettacolo e biopolitica neoliberale, Mimesis, Milano 2022, p. 87

 

Immagine: J. Ensor, I giocatori