Editoriale del numero 9, “Nel campo di Giobbe”

Editoriale del numero 9, “Nel campo di Giobbe”

10 Agosto 2023 Off di admin

EDITORIALE N. 9 (giugno 2023, in uscita)

Voltaire riteneva che il male avesse tre forme. Il male metafisico – e cioè la coscienza della limitatezza e dell’imperfezione della natura umana – che noi, travolti dal narcisismo illimitato della società dello spettacolo, non sappiamo più cosa sia; del male fisico – le malattie e la morte – abbiamo fatto esperienza negli ultimi anni, benchè sia difficile stabilire fino a che punto di male solo fisico e naturale si trattasse e non anche politico e sociale; il male morale, che è l’ingiuria e la violenza che umani compiono su altri umani, lo stiamo ora sperimentando nella guerra per procura che avviene poco oltre i nostri confini. Una forma di male che Voltaire ritiene la peggiore e così descrive:

«Ecco i campi di battaglia in cui degli imbecilli hanno invaso la terra di altri imbecilli…Che ne è e che m’importa di umanità, carità e modestia, e di temperanza, saggezza, devozione, mentre una mezza libbra di piombo tirata da seicento passi sconquassa il mio corpo, e muoio a vent’anni fra tormenti indicibili, circondato da cinque o seimila moribondi, mentre i miei occhi aprendosi per l’ultima volta, vedono la mia città natale distrutta dal ferro e dal fuoco, e i suoni percepiti dalle mie orecchie sono grida di donne e bambini che spirano sotto le rovine…»[1].

Ognuno può giudicare dell’attualità di queste parole, che riattualizzano la protesta di Giobbe, l’unico testo della Bibbia che Voltaire nel Dizionario filosofico definisca «uno dei più preziosi di tutta l’antichità».

La guerra è un male morale perché non si limita a distruggere e mutilare i corpi, ma perché priva chi è ad essa incatenato dello spirito e dell’anima, riducendolo a cosa; secondo Simone Weil, bisogna in questo senso distinguere la sventura dal dolore fisico e dalle sofferenze che ci provengono dalla natura:

«La sventura rende Dio assente per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una cella immersa nelle tenebre. Una sorta di orrore sommerge tutta l’anima. Durante quest’assenza non c’è nulla da amare…Per questo coloro che precipitano nella sventura gli uomini impreparati a riceverla uccidono delle anime…La sventura indurisce e dispera, perché come un ferro rovente imprime fino in fondo all’anima quel disprezzo, quel disgusto che giunge alla ripugnanza di se stessi, quel senso di colpa e di squallore che il crimine dovrebbe logicamente produrre, e che non produce. Il male abita nell’anima del criminale senza essere percepito. Lo è invece nell’anima dell’innocente sventurato. Accade come se lo stato d’animo che per essenza si addice al criminale fosse stato separato dal crimine e annesso alla sventura; e persino in proporzione all’innocenza degli sventurati».

Queste parole sono scritte nel 1942, ed è ovvio pensare alla condizione degli ebrei reclusi nei campi, che riportano alla mente della Weil il lamento del Libro di Giobbe. Quando un ordine simbolico si incrina, quando i valori del passato sono ancora vigenti ma contestati e svuotati, quando una crisi della presenza travolge le categorie consuete della coscienza, allora la figura di Giobbe risorge e riacquista attualità. L’indicibile quasi incomprensibile avvilimento della vittima di fronte al carnefice costituisce il complemento demoniaco della morte fisica: perché qui il padrone, diversamente da quello hegeliano, non vuole asservimento e riconoscimento di sudditanza da parte della vittima, ma il suo annientamento, il suo transito nel non-umano. L’aspetto più inquietante di questa situazione è che essa atrofizza qualsiasi capacità di ribellione, anche ove questa fosse possibile, creando così quella zona grigia, quel senso di colpa, descritti e patiti così a fondo da Primo Levi:

«un altro effetto della sventura è quello di rendere l’anima sua complice a poco a poco, iniettandole il veleno dell’inerzia…E questa complicità intralcia ogni sforzo che egli potrebbe compiere per migliorare la propria sorte, giunge persino a impedirgli la ricerca dei possibili mezzi per essere liberato, e qualche volta addirittura il desiderio stesso della liberazione».

Gli effetti della sventura sono in certo senso irreparabili: o perché instillano nella vittima una pulsione di morte che continua ad agire anche molto tempo dopo il trauma subito e lo tramanda di generazione in generazione, o perché produce un tragico rovesciamento delle vittime in carnefici a loro volta: «Anche in colui che, uscito dalla sventura, è tuttavia rimasto leso per sempre fino in fondo all’anima, persiste qualcosa che lo spinge a ripiombarvi, come se la sventura si fosse installata in lui alla maniera di un parassita, e lo dirigesse verso i propri fini»[2], come la coazione a ripetere considerata da Freud in Al di là del principio del piacere.

La scoperta della pulsione di morte procede in effetti dai traumi di guerra. Al di là del principio del piacere descrive la crisi dell’ordine simbolico che si sta sgretolando, e ne è anche un sintomo. Le due forze di Eros e Thanatos sono in qualche modo comunicanti: all’indebolimento dell’una avviene il rafforzamento dell’altra e viceversa. D’altra parte all’interno di Thanatos esiste una biforcazione significativa: la pulsione di morte può dirigersi verso se stessi, fino allo stato limite di ritorno all’elementare, che Freud chiama Nirvana. Ma questo desiderio di morte può rivelarsi intollerabile e rivolgersi all’esterno, in una pulsione aggressiva verso l’altro, o contro un nemico identificato come tale. Freud compie quest’ultima riflessione nell’Io e l’Es (1922) e poi nel Problema economico del masochismo (1924): «La libido ha il compito di mettere questa pulsione distruttiva nell’impossibilità di nuocere, e assolve questo compito dirottando gran parte della pulsione distruttiva verso l’esterno…La pulsione prende allora il nome di pulsione di distruzione, di pulsione di appropriazione, di volontà di potenza»[3].

Non è forse un caso che di recente, dopo aver vissuto per tre anni all’insegna esclusiva di Thanatos, in un ordine capitalistico incapace di elaborare psichicamente e simbolicamente la crisi, salvo trarne dove possibile profitto economico, la depressione profonda che ne è conseguita si sia rovesciata nello stato d’animo della guerra e dell’odio verso il nemico. Certo è una guerra per procura, fuori delle nostre frontiere: ma non ci si illuda, il miasma e l’inclinazione alla violenza stanno invadendo strati profondi dell’inconscio del collettivo, favorendo il risorgente fascismo e anche una microviolenza quotidiana, fatta di insofferenza, di intolleranza, di negazione dell’altro; fatta pure di una profonda e rimossa tristezza, innegabile, ma di cui ci si nega l’espressione e il linguaggio.

In una situazione come questa, compito intellettuale dovrebbe essere il riconoscimento radicale del male morale che sta dilagando, ma anche il tentativo di indicare qualche varco di speranza che non sia vana consolazione, e sia pure nella forma di un’utopia immaginaria. Alcuni dei saggi raccolti in questo numero tentano di farlo, col pudore e l’inadeguatezza inevitabili. Forse di fronte alle potenze che sembrano schiacciarci, di fronte al feticcio del capitalismo come dato di natura invalicabile, possiamo ancora lasciar risuonare le parole che Kierkegaard attribuisce a Giobbe:

«Il mistero, la forza vitale, il nerbo, l’idea di Giobbe è che egli, nonostante tutto, ha ragione…La sua passione della libertà non si lascia né soffocare né acquietare da una spiegazione sbagliata…le sue parole sono tali da testimoniare la forza di quella nobile umana franchezza che sa quel che vale un uomo, e sa che un uomo, per quanto fragile e facile ad appassire come il corpo di un fiore, tuttavia è grande nella sua libertà e ha una coscienza che neppure Dio può strappargli, nonostante gli sia stata data da Dio…La grandezza di Giobbe non è quindi nelle parole: ‘Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore»…ma in questa lotta che esaurisce tutte le lotte che l’uomo deve sostenere per giungere ai confini della fede e nel rappresentare una grandiosa insurrezione di tutte le forze più violente e più bellicose della passione»[4].

Passione utile, quella di Giobbe, non triste, ma volta alla cancellazione di un tristo esistente.

 

Note:

[1] Cit. in B. Baczko, Giobbe amico mio. Promesse di felicità e fatalità del male, manifestolibri, Roma, 1999, p. 76 e 77.

[2] I passi di S. Weil sono citati da “L’anima colpita dalla sventura”, in Attesa di Dio, Adelphi, Milano, 2008.

[3] S. Freud, Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978, p. 9.

[4] S. Kierkegaard, La ripresa, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 89-93.

(Immagine di copertina: Georges de La Tour, Giobbe e la moglie)