La temperie moderna sullo sfondo de L’uomo senza qualità – di Alvise Marin
La parabola del moderno, il cui delinearsi lasciava intravedere esiti trionfalistici, tende invece a chiudersi con un momento terminale di crisi. Quest’ultima si manifesta nel cambiamento della percezione che l’individuo ha di sé, ma altresì nel modificarsi del tessuto connettivo della società. L’uomo tende a non cogliere più il proprio Ego come il centro delle proprie azioni e queste ultime, orfane di un autore, gli accadono suo malgrado e lo sorprendono quasi non gli appartenessero. Eccentrico rispetto ad un centro che non c’è, egli cerca la sua vera identità nel rifrangersi di quest’ultima negli innumerevoli ruoli che la società gli confeziona addosso. Società, che del resto, è diventata un palcoscenico, sul quale si avvicendano ruoli, idee e visioni del mondo diversi, nessuno dei quali possiede però la forza di impadronirsi della scena; di qui il continuo stato di sommovimento in cui essa si trova e la sua tendenza a destrutturarsi.
Se questa è la temperie in cui langue la modernità dei primi decenni del Novecento, questo è anche il panorama della Vienna descritta da Robert Musil nel suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità. Ulrich, il personaggio principale del romanzo, è proprio un uomo come quello descritto sopra e la società in cui vive è proprio sul punto di disgregarsi.
Per spiegare questa trasformazione sociale e mentale, è necessario partire, in ambito filosofico, dal soggetto cartesiano, il quale nasce radicando la sua certezza nel Cogito e pensandosi nella sua unità sostanziale. In Cartesio il soggetto è l’autore dei propri pensieri e delle proprie azioni ed è dotato di un centro inamovibile.
A partire da Locke diventa però indifendibile l’idea di soggetto in quanto sostanza. Nel Saggio sull’intelletto umano del 1690, egli dimostra che noi non possiamo presupporre se non delle relazioni tra stati di coscienza e quindi la fondazione verticale del soggetto si trasforma in una struttura in divenire, un filo temporale che è il filo della memoria: c’è soggetto e quindi identità personale solo se io ricordo di essere la stessa persona che ero dieci anni fa, ma se questa memoria si interrompe, a causa di uno choc o di una malattia, per esempio, io non posso dire di essere la stessa persona di prima. In Hume la sostanza del soggetto arriva a destrutturarsi in un fascio di percezioni che non implicano alcuna continuità nel tempo.
Con Kant ed Hegel il soggetto avrà diversi ed esorbitanti sviluppi attraverso la sua articolazione trascendentale e poi assoluta. Ma con il pensiero idealistico il soggetto diventa autocoscienza e non è più, quindi, una sostanza, ma un’attività, quella del ricongiungimento della coscienza con se stessa.
L’inconsistenza dell’idea del soggetto, in quanto legata a qualcosa di unico (cogito, memoria, fascio di percezioni, autocoscienza), è un pensiero che si fa strada, a partire dal fallimento dell’idealismo, con Schopenhauer. Egli non pensa che nell’uomo esista un Io, un soggetto che pensa e agisce fondandosi su se stesso, ma una forza anonima, un potere senza nome che lo pensa e lo agisce. Per Schopenhauer l’Io è come una voce che rimbomba in una cava sfera di vetro; questo rimbombo è una completa alterità, è quella volontà di vivere che ci fa agire come i personaggi della commedia dell’arte, in cui abbiamo un canovaccio già tracciato, che dobbiamo riempire con minime variazioni.
Il tardo Schelling a sua volta contrapporrà al cartesiano Io penso (Ich Denke) l’Esso pensa (Es Denkt), dove non sono io che penso, ma c’è qualcosa di impersonale, di neutro in me stesso che pensa, che non sono io.
L’apparizione di Nietzsche sulla scena filosofica porterà alla dissoluzione completa del soggetto cartesiano e ai tardi esiti della modernità: “Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione ‘io penso’, ho una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile, come per esempio, che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un ‘io’”1. Se per Nietzsche il soggetto cartesiano non è più il fondamento del proprio pensiero, del proprio interpretare, in quanto esso stesso prodotto di quell’interpretare, se esso si rivela una mera unità fittizia prodotta da una consuetudine linguistico grammaticale e se l’interpretare stesso non abbisogna di un soggetto che interpreti, allora egli può dire che “forse non è necessario assumere un soggetto unico; forse è altrettanto permesso assumere una pluralità di soggetti, la cui fusione e lotta stiano alla base del nostro pensiero e in genere della nostra coscienza”2.
Anche Freud, l’altro grande “maestro del sospetto”, assieme a Nietzsche e Marx, arriverà a smascherare le pretese assolute della coscienza e a spostare il baricentro dell’uomo in regioni sconosciute dove la sua sicurezza viene meno. La sua è però una critica all’ideologia della modernità, alla cui identificazione tra sistema e attore, società e cittadino, contrappone la rottura tra individuo e sociale. Da una parte sta il piacere, dall’altra la legge, due mondi così in opposizione da rendere impensabile il loro stare assieme. Il suo è un attacco nei confronti della coscienza e dell’Io: “la psicoanalisi non può far consistere l’essenza dello psichico nella coscienza, ed è invece indotta a considerare la coscienza come una delle qualità dello psichico, che può aggiungersi ad altre qualità ma che può anche rimanere assente”3. Il rovesciamento operato da Freud, simile a quello di Nietzsche, pone il punto di partenza della sua analisi non nella coscienza, ma nell’inconscio, inteso come attività psichica profonda di cui la coscienza è solo un epifenomeno, una membrana esterna a contatto con la realtà. Il soggetto diventa per loro un campo di forze in larga misura sfuggenti al controllo della coscienza: “l’io penso viene, in questo spazio, confrontato a ciò che altrimenti pensa: all’esso pensa delle pulsioni e del corpo”4. Il soggetto dunque si trova inscritto nel corpo e nella sua grande ragione di cui la coscienza è solo uno degli aspetti accessori.
Quando Ulrich pensa che “probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo, ma è in ribasso da secoli, è giunta finalmente all’Io”5, questa riflessione è possibile in tanto in quanto ha alle sue spalle quello svolgimento filosofico descritto. E’ poi fuori di dubbio, che la lettura del fisico e filosofo Ernst Mach, sul quale Musil scrisse la tesi di laurea, abbia influenzato la sua visione dell’uomo moderno, se per Mach “l’Io non è un’unità sostanziale, ma soltanto l’unità pratica di elementi sensibili più fortemente connessi tra loro e meno connessi con altri, unità che ha un valore semplicemente orientativo e biologico”6.
Anche la scienza moderna fornisce il suo contributo alla disgregazione interiore dell’uomo moderno. La matematizzazione galileiana della natura e la sussunzione di quest’ultima all’interno di un paradigma quantitativo, sono decisivi per indurre il cambiamento della percezione che l’uomo pre-moderno ha di sé e di ciò che lo circonda. L’uomo che non calcola, che “vive in un mondo in cui la matematica è ancora elementare, non ha la ragione formata allo stesso modo di un uomo, anche ignorante, anche incapace per suo conto o incurante di risolvere una equazione o un problema più o meno complicato, ma che vive in una società piegata nell’insieme al rigore dei modi del ragionamento matematico, alla precisione dei modi di calcolo, alla retta eleganza dei modi di dimostrazione […] Tutta la nostra vita moderna è come impregnata di matematica. Gli atti quotidiani e le costruzioni degli uomini ne portano il segno, e non c’è nulla, fino alle nostre gioie artistiche e alla nostra vita morale che non ne subisca l’influsso”7.
L’astrazione operata dalla scienza moderna, scompone il continuum della totalità, in un insieme di parti discrete connesse da nessi causali, per il mezzo di sistemi di costanti e variabili forniti dalla matematica. Tutto ciò si riflette all’interno dell’uomo, il quale permuta il suo mondo intuitivo e unitario, della mera tipicità delle cose, per un insieme di cognizioni che, pur garantendogli precisione, previsione e parziale sicurezza, non riescono a ricomporre la sua unità perduta. In particolare, la scienza contemporanea a Musil, influisce sul processo di dissoluzione della società moderna attraverso il fallimento del suo tentativo di porsi come conoscenza epistemica.
Per l’Illuminismo esisteva un’unica modalità corretta di rappresentazione, che se scoperta, poteva garantire il controllo razionale del mondo, e a ciò si dedicavano le varie discipline scientifiche e matematiche. Nella seconda metà del XIX secolo, l’idea che vi fosse un’unica modalità possibile di rappresentazione, comincia però a vacillare. La rigidità categorica del pensiero illuministico trova sempre più detrattori e finisce per essere sostituita da sistemi di rappresentazione tra loro divergenti. La scienza, che nell’Ottocento, attraverso la sua visione meccanicistica del mondo fisico8, è ancora depositaria di un sapere certo e incontrovertibile, verso la fine del secolo entra anch’essa nella spirale del relativismo, insieme alle altre visioni del mondo. Anch’essa entra in una temperie fatta di frammentarietà, fuggevolezza e contingenza.
La scoperta e la costruzione delle geometrie non euclidee, nella prima metà del XIX secolo e quindi il delinearsi della possibilità di una pluralità di sistemi geometrici diversi, saranno i prodromi di un cambiamento dell’immagine tradizionale della scienza. Le difficoltà in cui si imbatterà il programma meccanicistico di quest’ultima, saranno seguite da alcune scoperte fondamentali tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
All’interno del dibattito epistemologico, Mach sarà uno dei primi a mettere in crisi la fede dogmatica nella conoscenza scientifica affermando che “tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di economizzare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti nel pensiero”9. Come scrive Musil, commentando il pensiero di Mach nella sua tesi di laurea, quello del concetto e della scienza è un compito pratico che consiste nel mettere ordine, allo scopo della semplice “conservazione, non diversamente da quanto accade per l’attività dell’organismo infimo”10. La scienza ha un carattere adattivo, che va compreso in seno alla teoria dell’evoluzione, e che permette un alleggerimento della memoria: “le leggi naturali hanno il compito economico di risparmiare la cognizione di meri fatti singoli. Questa cognizione bisognerebbe ricordarla per ogni caso individuale, la legge invece lega tra loro casi tipici mediante un pensiero”11. Se dunque la conoscenza scientifica12 è uno schema d’ordine delle esperienze, senza alcuna intrinseca necessità, bensì storicamente determinato e quindi modificabile, allora la scienza deve dimettere le sue pretese di verità, per immettersi nel flusso delle conoscenze relative.
Agli inizi del Novecento la teoria della relatività di Einstein13 rivoluzionerà a sua volta le fondamenta della fisica classica e più tardi il principio di indeterminazione di Heisenberg14, in seno alla teoria dei quanti, metterà in discussione l’assioma stesso dello svolgimento oggettivo degli eventi nello spazio e nel tempo, indipendentemente dall’osservatore.
La religione, da parte sua, a seguito dei processi di disincantamento e razionalizzazione del mondo, subirà quella secolarizzazione che le farà perdere la legittimità assoluta che possedeva, rendendola equiparabile ad altre narrazioni.
Anche l’economia, passata dal sistema latifondiario feudale a quello capitalistico, contribuirà a determinare la condizione dell’individuo e della società di inizio Novecento. La diversificazione della produzione, la nascita di nuove classi sociali e la loro limitata mobilità, riaprono quello spazio socio economico chiuso, che incatenava il singolo al suo destino sociale fin dalla nascita. L’individuo urbano in alcuni casi si trova nella condizione di attraversare steccati sociali che per secoli lo avevano incatenato e di svolgere professioni diverse, non vincolate dalla classe di appartenenza originaria. Da un lato l’apertura di uno spazio di libertà prima impossibile, inizia a consentirgli di scegliere, in maniera relativa, della sua vita. Dall’altro la sua immissione in un circuito sociale ridefinito e più complesso gli confeziona addosso una serie di ruoli sociali prima sconosciuti. Questa nuova possibilità dell’individuo urbano di poter scegliere della propria vita e del proprio destino, questa riappropriazione di sé, insieme a questa congerie di mondi sociali che lo identificano in modi diversi l’uno dall’altro, finiscono col disorientarlo. Non più vincolato ad un unico ruolo sociale, dalla culla alla tomba, l’individuo si trova drammaticamente esposto alla ricerca di un’identità non più garantita a priori.
Allo stesso tempo, per Marx, la reificazione dei rapporti sociali indotta dal capitalismo, confeziona una serie di “maschere di carattere”, che indossate dagli individui, li trasformano in persone, la cui identità si risolve nell’essere personificazioni di merci e il cui destino è legato a quello di queste ultime: “le persone esistono qui l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merce, quindi come possessori di merci. Troveremo in generale, man mano che la nostra esposizione procederà, che le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra”15
In merito all’impresa capitalistica, questa diventa possibile a partire da quel processo di razionalizzazione, che si realizza con l’introduzione di strutture logico-formali in ogni campo dell’agire umano, come ha ben spiegato Max Weber. La conseguenza è la ristrutturazione radicale dell’agire economico, dei rapporti sociali ma anche della struttura propria della prassi: ciò che conta nell’agire è solo il calcolo razionale dei mezzi in rapporto ai fini. Se dunque ciò che è decisivo nella struttura motivazionale di un’azione è il suo aspetto formale, le idee e i valori che prima motivavano l’azione per se stessi, per il loro contenuto, diventano tutti equivalenti.
Nel Romanticismo, l’esperienza veniva intesa come l’attraversamento di una biografia, come un percorso finalizzato alla realizzazione di un Sé. Era il processo attraverso cui il singolo si trasformava in un individuo autentico e corrispondeva alle fasi di un processo di individuazione.
Con la Modernità, il dispiegarsi di una biografia come di un progetto coerente, dove il passato si stratifica progressivamente su di un presente che guarda al futuro, cosa ancora possibile all’uomo del Romanticismo, diventa molto più problematico. L’esperienza dell’uomo moderno si fa sempre più frammentata, cominciando a perdere progressivamente continuità e coerenza, per trasformarsi in una serie di vissuti giustapposti ed eterogenei che non vengono elaborati; la continuità biografica si perde in una serie di avventure sconnesse che non danno luogo a nessuna esperienza singolare.
L’analisi sociologica di Simmel, si svolge in una metropoli europea, che non è la Vienna che fa da sfondo all’Uomo senza qualità, ma la Berlino di fine Ottocento. Nella metropoli egli coglie quella complessa rete di relazioni sociali in cui avvengono interazioni transitorie, fuggevoli e casuali, che richiedono il coinvolgimento solo di frammenti di personalità.
Per Simmel l’avventuriero è una figura paradigmatica della modernità, la quale non rappresenta un personaggio fuori dal comune ma chiunque viva nella metropoli: “l’avventura, presa come tale, è indipendente da un prima e da un dopo […] Essa è priva di quella compenetrazione reciproca tra le parti confinanti che fa della vita un Tutto unitario. L’avventura è come un’isola nella vita che determina il suo inizio e la sua fine in base alle proprie energie formative, e non, come la fetta di un continente, in rapporto a quelle del suo al di qua e del suo al di là”16. Ma la trasformazione della vita in una successione di avventure è il contrario di ciò che è inteso nell’idea di esperienza come percorso. L’identità dell’uomo descritto da Simmel è discontinua, frammentata, plurale e quindi per molti aspetti simile a quella che si ritrova nel romanzo di Musil.
L’esigenza dell’uomo romantico di differenziarsi e di acquisire un’identità autonoma, distinta, coerente con inclinazioni che sono riconosciute essere uniche, si dissolve nella ricerca di una differenziazione senza sostanza. La personalità, nella sua costruzione, segue i mutevoli dettami e stilemi della moda riducendosi a una mera questione di stile. Secondo Frisby, Simmel coglie nella modernità “l’assenza di concrete esperienze (Erfahrung) derivate dall’interazione con un mondo esterno e dall’intervento in un mondo siffatto. Quest’ultimo è invece diventato un ‘mondo interiore’. In altre parole l’Erfahrung è stata ridotta a Erlebnis“17. L’Erlebnis è per Simmel esperienza discontinua, interiore, intellettualizzata. Come scrive Paolo Jedlowski “l’Erlebnis è esperienza nel senso di un dato della coscienza: in essa il mondo non è affrontato, ma risolto in una evidenza puntuale. Attraverso il suo concetto, ciò che si coglie è l’interiorizzazione del mondo all’interno di una coscienza, non il processo di trasformazione del mondo e di se stessi nella prassi, che era accolto nella nozione di Erfahrung […] D’altro canto, che l’Erlebnis dell’uomo moderno sia esperienza intellettualizzata significa innanzitutto questo: che il mondo a cui essa corrisponde richiede sempre meno la presenza e l’azione di facoltà corporee, e sempre più quella di facoltà intellettuali”18. Se ascoltiamo Simmel questo è il risultato di un adattamento dell’uomo alla vita moderna che per il sociologo è essenzialmente la vita della metropoli: “la base psicologica su cui si erge il tipo delle individualità metropolitane è l’intensificazione della vita nervosa, che è prodotta dal rapido e ininterrotto avvicendarsi di impressioni esteriori e interiori. L’uomo è un essere che distingue, il che significa che la sua coscienza viene stimolata dalla differenza fra l’impressione del momento e quella che precede; le impressioni che perdurano, che si differenziano poco, o che si succedono e si alternano con una regolarità abitudinaria, consumano per così dire meno coscienza che non l’accumularsi veloce di immagini cangianti, o il contrasto brusco che si avverte entro ciò che si abbraccia in uno sguardo, o ancora il carattere inatteso di impressioni che si impongono all’attenzione. Nella misura in cui la metropoli crea proprio queste ultime condizioni psicologiche – ad ogni attraversamento della strada, nel ritmo e nella varietà della vita economica, professionale, sociale – essa crea già nelle fondamenta sensorie della vita psichica, nella quantità di coscienza che ci richiede a causa della nostra organizzazione come esseri che distinguono, un profondo contrasto con la città di provincia e con la vita di campagna, con il ritmo più lento, più abitudinario e inalterato dell’immagine sensorio-spirituale della vita che queste comportano”19.
Il grande numero di incontri e di esperienze sociali nella metropoli è anche una delle cause della nevrastenia, una delle conseguenze principali della vita urbana: “La mancanza di qualcosa di definitivo nel centro dell’anima spinge a cercare una soddisfazione momentanea in sempre nuovi stimoli, emozioni, attività esterne; e così essa finisce per avvolgerci in quella confusa instabilità e irresolutezza che si manifesta ora come tumulto della metropoli, ora come smania di viaggi, ora come selvaggio incalzare della concorrenza, ora come incostanza specificamente moderna dei gusti, degli stili, delle convinzioni, dei rapporti”20. Questa ininterrotta sollecitazione di nuovi stimoli, che colpisce i sensi, dà vita, nel suo parossismo, a una personalità nevrastenica, incapace di tenere testa all’inesauribile varietà di impressioni e di urti. Nasce l’esigenza di creare una distanza tra noi e il nostro ambiente fisico e sociale. Questa distanza è per Simmel un “tratto della sensibilità” caratteristico dell’epoca moderna, “la cui degenerazione patologica è la cosiddetta ‘fobia del contatto’: la paura di venire a contatto con gli oggetti, una conseguenza dell’iperestesia, per la quale ogni contatto immediato ed energico provoca dolore”21. Si viene a creare una sorta di barriera tra le persone, che da un lato è una forma di adattamento dell’uomo ai cambiamenti intervenuti nella società, dall’altro una trasformazione indotta dalla stessa mutata natura delle relazioni sociali. L’esistenza urbana, espressione dell’oggettivazione dei rapporti sociali indotta dall’economia monetaria, necessita di “una barriera interna […] tra le persone, una barriera, comunque, che è indispensabile alla forma di vita moderna. Infatti l’affollamento incalzante e il disordine variegato della comunicazione metropolitana sarebbero semplicemente insopportabili senza una tale distanza psicologica. Poiché la cultura urbana contemporanea, con i suoi rapporti commerciali, professionali e sociali, ci costringe ad essere fisicamente vicini ad un numero enorme di persone, gli uomini moderni, nervosi e sensibili, sprofonderebbero nella più completa disperazione se l’oggettivazione delle relazioni sociali non determinasse una riserva e un confine interni”22. Questa distanza psicologica può assumere la forma estrema dell’agorafobia e della ipersensibilità, ma anche del cosiddetto atteggiamento blasé23.
Se la ragione (Vernunft) è un principio ordinatore delle esperienze, che intrattiene un dialogo con il senso di queste e non rinuncia al confronto col sentimento, viceversa l’intelletto (Verstand) è una capacità eminentemente logico combinatoria adatta al calcolo. Quest’ultima è anche la facoltà più superficiale e adattabile dell’essere umano. A detta di Simmel, nella metropoli assistiamo ad una ipertrofia dell’intelletto, in quanto questo organo ci permette un migliore adattamento a questo tipo di ambiente. È proprio questa maggior adattabilità dell’intelletto a spiegare la diffusione del “carattere intellettualistico della vita psichica metropolitana, nel suo contrasto con quella della città di provincia, che è basata per lo più sulla sentimentalità e sulle relazioni affettive. Queste ultime si radicano negli strati meno consci della psiche e si sviluppano innanzitutto nella quieta ripetizione di abitudini ininterrotte. La sede dell’intelletto, invece, sono gli strati trasparenti, consci e superiori della nostra psiche. L’intelletto è la più adattabile delle nostre forze interiori: per venire a patti con i cambiamenti e i contrasti dei fenomeni non richiede quegli sconvolgimenti e quei drammi interiori che la sentimentalità, a causa della sua natura conservatrice, richiederebbe necessariamente per adattarsi ad un ritmo analogo di esperienze. Così il tipo metropolitano – che naturalmente è circondato da mille modificazioni individuali – si crea un organo di difesa contro lo sradicamento di cui lo minacciano i flussi e le discrepanze del suo ambiente esteriore: anziché con l’insieme dei sentimenti, reagisce essenzialmente con l’intelletto, di cui il potenziamento della coscienza, prodotto dalle medesime cause, è il presupposto psichico. Con ciò la reazione ai fenomeni viene spostata in quell’organo della psiche che è il meno sensibile ed il più lontano dagli strati profondi della personalità”24.
Ma l’intellettualizzazione della vita psichica si interseca con altri fenomeni che hanno sede nella metropoli tra i quali l’economia monetaria. Simmel mette in luce la profonda solidarietà tra questi due aspetti della vita metropolitana. Come l’intelletto è un organo che non percepisce le differenze qualitative fra i fenomeni ed è indifferente a tutto ciò che è individuale, così il danaro, l’equivalente universale di tutte le merci, annulla le loro differenze individuali per tutte omologarle a quell’unico aspetto che è il loro valore di scambio. “Tutte le relazioni affettive tra le persone si basano sulla loro individualità, mentre quelle intellettuali operano con gli uomini come se fossero dei numeri, come se fossero elementi di per sé indifferenti, che interessano solo per il loro rendimento oggettivamente calcolabile. È in questo modo che l’abitante della metropoli si rapporta con i suoi clienti, con i suoi servi e spesso anche con le persone che appartengono al suo ambiente sociale e con cui deve intrattenere qualche relazione”25. La scomparsa della produzione per il proprio consumo, e di quella in cui committente e produttore entravano in contatto diretto, fanno largo alla produzione per il mercato. Quest’ultimo diventa un’arena in cui produttori e consumatori si affrontano in modo anonimo e oggettivo; questo fa sì che “il loro egoismo economico, basato sul calcolo intellettuale, non debba temere nessuna distrazione che provenga dall’imponderabilità delle relazioni personali”26.
Lo spirito moderno è uno spirito calcolatore, dove ogni attività nella vita quotidiana è misurata, calcolata e dove ogni differenza qualitativa soccombe al dominio della categoria della quantità. Ma esso è anche puntuale e altrimenti non potrebbe essere, previo un collasso immediato della vita della metropoli dove ogni cosa è legata e sincronizzata con l’altra. Queste diventano forme coercitive con cui irreggimentare la vita dell’uomo, espungendo tutti quei tratti non produttivi perché singolari, irrazionali o istintivi: “La puntualità, la calcolabilità e l’esattezza che le complicazioni e la vastità della vita metropolitana impongono non stanno solo nella più stretta relazione con il suo carattere economico-monetario e intellettualistico, ma non possono fare a meno di colorare anche i contenuti della vita e favorire l’esclusione di tutti quei tratti ed impulsi irrazionali, istintivi e sovrani, che vorrebbero definire da sé la forma della vita anziché riceverla dall’esterno come in uno schema rigidamente prefigurato”27.
L’apparire sempre nuovo delle merci intorpidisce i sensi, agendo su di essi come una sorta di choc, per cui noi siamo costretti a cercarne sempre di nuove per intensificare ancora una volta le nostre sensazioni. La moda verrà vista da Benjamin come l’eterno ritorno del nuovo. Essa è intimamente apparentata con il meccanismo di produzione delle merci e agisce da stimolo della domanda. Essa è allo stesso tempo l’eterno ritorno dell’eguale, che vestendo i panni sempre nuovi della moda, riesce a riprodursi. La moda è apparentemente nuova, essa simula la novità, etichettando il prodotto come nuovo, anche se in realtà non lo è.
Se Simmel aveva posto in luce la correlazione tra la vita nella metropoli e l’intensificazione dell’eccitazione nervosa anche Benjamin evidenzierà questo aspetto descrivendo la vita moderna come una serie ininterrotta di chocs: “verso la fine del secolo, comincia una serie di innovazioni tecniche che hanno in comune il fatto di sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco”. Il diffondersi di movimenti meccanici subitanei quali l’accensione di un fiammifero o lo scatto di un’istantanea da parte di un fotografo, come pure di esperienze ottiche “come quelle che suscita la parte degli annunci in un giornale, ma anche il traffico delle grandi città” vanno a modificare profondamente la struttura del sentire dell’uomo della metropoli. “Muoversi attraverso il traffico, comporta per il singolo una serie di chocs e di collisioni. Negli incroci pericolosi, è percorso da contrazioni in rapida successione, come dai colpi di una batteria. Baudelaire parla dell’uomo che si immerge nella folla come in un serbatoio di energia elettrica. E lo definisce subito dopo, descrivendo così l’esperienza dello choc, ‘un caleidoscopio dotato di coscienza’”28.
Lo choc di cui parla Benjamin è anche lo choc continuo del nuovo. L’apparire sempre nuovo del volto delle merci nell’ambito del loro scambio e della loro circolazione produce altrettanti chocs per il singolo, mentre il mondo delle cose diventa il mondo delle merci: “La cosa produce il suo effetto di estraneazione reciproca degli uomini solo in quanto merce. Lo produce attraverso il suo prezzo. L’immedesimazione nel valore di scambio della merce, nel suo sostrato egualitario: è questo il punto decisivo. (L’assoluta uguaglianza qualitativa del tempo in cui si svolge il lavoro che produce il valore di scambio è il fondo grigio dal quale si staccano i colori stridenti del ‘fatto sensazionale’)”29.
Il mondo sempre nuovo della modernità nasce quindi per Benjamin dal mondo delle merci. Egli si propone di indagare gli aspetti fondamentali dell’esperienza moderna cioè la sua discontinuità, la sua fuggevolezza e transitorietà e il suo essere una ininterrotta serie di chocs e di sensazioni sempre nuove e mutevoli. Anch’egli al pari di Simmel verifica uno slittamento dall’esperienza assicurata collettivamente ad una esperienza vissuta individualmente. Quest’ultima diventa un’esperienza interiore, un’esperienza vissuta (Erlebnis) in cui l’individuo si rifugia, sempre più incapace ad assimilare i dati del mondo che lo circonda per mezzo dell’esperienza (Erfahrung).
La mente dell’uomo moderno sottoposta incessantemente ad un bombardamento di stimoli si difende attraverso l’organo della coscienza. Qui Benjamin, molto vicino alle considerazioni di Simmel sull’ipertrofia dell’intelletto, trae dall’opera di Freud Al di là del principio del piacere questo concetto. La coscienza per Freud è un organo che para gli stimoli, li registra non permettendo loro di arrivare nelle zone più profonde della psiche; l’esperienza traumatica nascerebbe nel momento in cui questo schermo venisse eluso. Scrive Benjamin: “Quanto maggiore è la parte dello choc nelle singole impressioni; quanto più la coscienza deve essere continuamente all’erta nell’interesse della difesa dagli stimoli; quanto maggiore è il successo con cui essa opera; e tanto meno esse penetrano nell’esperienza (Erfahrung); tanto più corrispondono al concetto di ‘esperienza vissuta’ (Erlebnis). La funzione peculiare della difesa dagli chocs si può forse scorgere, in definitiva, nel compito di assegnare all’evento, a spese dell’integrità del suo contenuto, un esatto posto temporale nella coscienza. Sarebbe questo il risultato ultimo e maggiore della riflessione. Essa farebbe, dell’evento, un’‘esperienza vissuta’(Erlebnis)“30.
Se L’uomo senza qualità è immerso nello Zeigeist descritto sopra e il soggetto che ne è protagonista è un prodotto della modernità, questo trova conferma in quanto scrive il sociologo Peter L. Berger nel suo saggio Robert Musil e il salvataggio del sé, nel quale egli sviluppa una riflessione sul libro di Musil, che ne fa una vera e propria cartina al tornasole della soggettività moderna. Per Berger, fedele alla lezione di G. H. Mead, il Sé (il soggetto) è generato, senza alcun residuo, da un processo sociale. Secondo Mead “è il processo sociale stesso a essere responsabile della comparsa del ‘Sé’; non esiste un ‘Sé’ disgiunto da questo tipo di esperienza” e “la struttura unitaria del ‘Sé’ nella sua totalità rispecchia la struttura unitaria del processo sociale nella sua unità”31. Se la struttura della società non è unitaria, ma disgregata e pluralizzata, come nel romanzo di Musil, Berger mette in relazione questo fatto, con la presenza in alcuni personaggi del libro, di un Sé altrettanto disgregato e pluralizzato: il Sé e la società sono l’uno lo specchio dell’altra.
Ne L’uomo senza qualità, la società è percorsa da un insieme caotico di idee e di visioni del mondo, tutte egualmente impotenti ad assumere quel ruolo di guida necessario a fare della società un tutto organizzato. L’immagine speculare a questa è quella di un individuo come Ulrich, che sente dentro di Sé una pluralità di qualità e di progetti biografici alternativi, tutti ugualmente possibili, ma nessuno dei quali ha la forza di coinvolgerlo interamente fino in fondo. Egli è un uomo tipicamente moderno, consapevole della scomparsa del mondo antico della tradizione e di ciò che questa portava con sé. L’apertura di nuovi orizzonti di libertà che la modernità porta con sé lo trova impreparato, incapace di assumersi la sua responsabilità esistenziale in questo nuovo spazio aperto e indeterminato in cui non riesce a cogliere nessuna traccia, oppure troppe, su cui costruire la sua vita. La discontinuità del suo vissuto interiore non gli permette di dare coerenza e unità alla sua esperienza. Ulrich avverte inoltre lo scarto crescente tra sé e lo spirito oggettivato degli uomini nelle cose, che gli fa sembrare che ciò che accade non vada ascritto alla responsabilità dell’uomo, ma ad un sistema resosi esterno e autoreferenziale. In quest’ultimo sono le relazioni tra gli elementi che lo compongono ad avere la responsabilità impersonale di ciò che accade: “in altri tempi si poteva vivere da individuo con miglior coscienza di oggi. Gli uomini erano come calami di grano; Dio, il fuoco, la grandine, la pestilenza e la guerra li scuotevano forse con più violenza di adesso, ma tutti insieme, a città, a regioni, come campo; e quel tanto di movimento personale che restava in più a ogni singolo calamo era nettamente delimitato e se ne poteva assumere la responsabilità. Oggi invece la responsabilità ha il suo punto di gravità non più nell’uomo ma nella concatenazione delle cose”32.
Questa percezione che Ulrich e quindi l’uomo moderno che rappresenta, ha di sé, risulta pericolosamente vicina a quella di un malato di mente come Moosbrugger. Quest’ultimo è un folle omicida, la cui identità disintegrata insegue, metonimicamente, infinite correlazioni di senso tra le parole e quindi tra le cose che esse nominano. Il continuo richiamarsi di queste l’una con l’altra, lo proietta in un mondo deformato, delirante, dove il principio di realtà è continuamente eluso. Non più in grado di organizzare un universo di senso cosi’ complesso e instabile, pensieri e azioni si succedono in Moosbrugger quasi non gli appartenessero, lasciandolo perciò nella perenne innocenza di fronte a ciò che egli fa: “qualcosa pensava dentro di lui, contro la sua volontà. Egli diceva che i pensieri gli venivano già fatti”33. Moosbrugger vive in presa diretta, incarnandolo, il carattere s-terminato delle parole del linguaggio poetico, il loro essere infinitamente sfaccettate e reciprocamente interdipendenti, senza quella mediazione del concetto, che gli permetterebbe di de-finire, con esse, le cose e con ciò stesso di non estenuarsi nella loro ambivalenza e nel loro rimando infinito.
Ciò che Musil mette in luce, attraverso il carattere di questi personaggi, è quella caduta della barriera tra sanità mentale e follia, già presente nella teoria e nella clinica psicoanalitica, che fa si che la loro differenza, lungi dall’essere di tipo qualitativo, si articoli piuttosto, partendo da meccanismi comuni, lungo un continuum che va da un minimo ad un massimo di intensità.
Ma l’uomo non vuole rassegnarsi a questa situazione di frammentarietà, a questa irrelatezza tra le singole parti e cerca di ricostituire, in modi diversi, l’interezza del Sé. Per chi come il conte Leinsdorf o il generale von Stumm appartiene alla tradizione, l’unitarietà del Sé è un fatto scontato, ma per chi ha respirato l’aria del relativismo moderno, i modi per ricostruire l’integrità del Sé, come un tutto unitario, vanno dall’ideologia (i tentativi di personaggi come Hans Sepp, Lindner, Meingast, Feuermaul) alle eccentriche e pericolose ristrutturazioni del Sé apparentate con la follia (Clarissa, moglie di un vecchio amico di Ulrich, cerca di recuperare la sua unità interiore attraverso la follia della musica). Anche Moosbrugger tenta di tenere insieme il suo folle mondo. Il rapporto patologico con le donne, si nutre della sua incapacità di metaforizzare, che lo porta a ipostatizzare le parole, ovvero a scambiarle per cose: “Gli era già accaduto in vita sua di dire a una ragazza: -Bocca di rosa!- ma all’improvviso la parola cedeva nelle cuciture e succedeva qualcosa di molto penoso; il viso diventava grigio come la terra velata di nebbia, e su un lungo gambo si protendeva una rosa; allora la tentazione di prendere un coltello e di reciderla oppure di darle un colpo perché tornasse al suo posto in mezzo alla faccia era irresistibile”34. Quando l’energia per controllare queste forze centrifughe viene meno, allora il passaggio all’atto, con l’omicidio della ragazza, appare a Moosbrugger l’unico modo per ridare unità al suo mondo.
Lo sfondo del romanzo è quella metropoli moderna che era diventata Vienna nei primi decenni del secolo scorso. L’esperienza della vita urbana e le modificazioni cui va incontro l’identità del soggetto fanno si che quest’ultimo cominci a destrutturarsi in una serie di ruoli sociali che si giustappongono l’uno all’altro: “l’abitante di un paese ha almeno nove caratteri: carattere professionale, carattere nazionale, carattere statale, carattere di classe, carattere geografico, carattere sessuale, carattere conscio, carattere inconscio, e forse anche carattere privato; li riunisce tutti in sé, ma essi scompongono lui, ed egli non è in fondo che una piccola conca dilavata da tutti quei rivoli, che v’entran dentro e poi tornano a sgorgarne fuori per riempire assieme ad altri ruscelletti una conca nuova. Perciò ogni abitante della terra ha ancora un decimo carattere, e questo altro non è se non la fantasia passiva degli spazi non riempiti; esso permette all’uomo tutte le cose meno una: prender sul serio ciò che fanno i suoi altri nove caratteri e ciò che accade di loro; vale a dire, con altre parole, che gli vieta precisamente ciò che lo potrebbe riempire. Questo spazio […] è un vuoto spazio invisibile, entro il quale sta la realtà, come una piccola città d’un gioco di costruzioni abbandonata dalla fantasia”35. Musil è esplicito nell’affermare che questa molteplicità di “caratteri”, come li chiama lui, sono una costruzione sociale, la quale viene a condizionare anche quella parte di noi che è in ombra, l’inconscio, e quasi a mettere in discussione la presenza di una vita che si possa veramente dire privata. Ma ci dice che quel decimo carattere ci salva da una nostra omologazione a quel Sé sociale, che se accadesse, farebbe venir meno quel carattere unico e irripetibile di ogni essere umano. “La fantasia passiva degli spazi non riempiti” è dunque quello “spazio invisibile” che conserva la nostra unicità, impedendo a quella congerie di ruoli sociali di riempirci completamente, ma allo stesso tempo dischiude una libertà che non indirizzata produce un pauroso senso di vuoto. Questa fantasia permette di vedere la realtà come una sua costruzione cristallizzata.
Musil in definitiva pensa che tutti questi tentativi di ridare una struttura unitaria al Sé siano destinati al fallimento. Se esiste un modo per ricomporre i frammenti in cui il Sé si è decomposto, questo è quello di inscriverlo dentro una cornice di trascendenza: solo su di uno sfondo che lo trascenda, forse il Sé può ritrovarsi nella sua unità e quindi nella sua verità.
Il modo in cui Musil descrive la percezione che Ulrich ha di sé, si accorda perfettamente alla descrizione dei caratteri del soggetto moderno fatta da Peter L. Berger. Il soggetto moderno per Berger è parcellizzato in una serie di numerosi ambiti di esperienza ognuno dei quali portatore di stili, cognizioni, valori diversi e relativi a ciascun ambito; egli ristruttura di continuo la sua identità attraverso una riflessione permanente. L’uomo moderno si sottopone all’immane fatica di ridefinirsi continuamente, di tenere insieme i frammenti che lo compongono, attraverso una riflessione che sia in grado di fornire un senso unitario, a quel materiale disomogeneo e spesso in collisione di cui si egli si compone. Ulrich è il rappresentante paradigmatico dell’uomo moderno, la cui identità è un’identità aperta, interminata; egli è costretto, di fronte alla quantità di stimoli che la vita moderna gli offre, ad operare continuamente delle scelte, la sua condizione abituale è quella della autoriflessività continua. Le ragioni che albergano nella sua anima diventano molteplici come del resto i possibili orizzonti biografici; egli è l’uomo delle possibilità. Ciò può dare un gran senso di libertà ma anche un profondo senso di disagio. Se tutti i percorsi biografici diventano ugualmente plausibili quale sarà il mio criterio di scelta e quale la mia possibilità di svolgere una biografia che sia veramente la mia e non una scelta aleatoria tra possibilità tutte presenti e realizzabili? Ulrich si trova a brancolare nel regno del possibile e in una atmosfera di continua revocabilità di ogni progetto biografico. Il tipo antropologico che Musil descrive attraverso il suo personaggio principale è alla ricerca di un punto fermo dentro se stesso all’interno di un mondo che si è messo a girare a una velocità vorticosa e che in questo movimento ha coinvolto anche l’identità stessa dell’uomo. Egli è un uomo in progress, il quale, nella sua assunzione di identità diverse è, di seguito, “un ufficiale, un matematico, e uno sperimentatore psicologico-religioso. Ad ogni carriera possibile essendo connessi specifici ruoli e, naturalmente, delle idee e una moralità specifiche”36. L’idea di un autenticità del soggetto, di un vero sé, che animava l’uomo del Romanticismo viene messa in discussione nel romanzo.
Musil parla anche dell’anima dell’uomo come di un “gran buco” e di idealità e morale come dei mezzi migliori per riempirlo, Queste ultime diventano un vademecum per un’anima altrimenti indefinita e priva di riferimenti, visto che “l’intelligenza del tempo presente non aveva lasciato sussistere nemmeno un punto solido”37. Ma l’uomo, incapace di sostenere la tensione originaria dell’anima, non è in grado di vivere profondamente l’ideale, ma solo di mettere in atto le azioni necessarie per raggiungerlo. L’agire per l’ideale, ma non il viverlo, gli permette di sostenere quel fuoco originario dell’anima, altrimenti irresistibile.
Come Musil, anche Berger pensa all’anima (il Sé nel linguaggio contemporaneo), come a un “buco”” che, in quanto tale, risulta complementare alla costruzione sociale del Sé. Berger rimane poi indeciso se quella del “buco” sia una costante antropologica oppure una creazione della modernità: “Forse, il sé è stato sempre un ‘buco’, ma in tempi più antichi la gente ne era meno consapevole; o forse questa specie di ciò che potremmo chiamare Lochmensch (forse: hominis lacuna) è un’innovazione antropologica dell’epoca moderna”38.
Qui si prova a sostenere che il Sé come “buco” sia una costante antropologica che il moderno mette drammaticamente in luce e non una sua creazione tout court. Il Sé è sempre stato un “buco”, ma in epoca premoderna la profondità di quest’ultimo era occultata da un riempimento fittizio ed omogeneo quale quello di un destino sociale già scritto, di una identità assicurata a priori da un Io unitario, centro dell’agire dell’individuo e da un sistema di valori unico e incontrovertibile. La tarda modernità ha sgretolato l’unità del Sé, generando al suo interno diversi sé alternativi, ognuno con uguale diritto di cittadinanza; ma con ciò ha forse liberato l’uomo da un falso destino per avvicinarlo alla sua verità, che è quella di essere una voragine senza fondo, infinitamente disponibile a essere riempita. Se, come scrive Berger “il sé moderno si caratterizza per la sua apertura infinita”39, questa non è solo una peculiarità dell’individuo moderno ma è la stessa vera natura dell’uomo.
L’uomo della modernità costruisce la propria identità nel barare continuo con se stesso, occultando quei progetti biografici alternativi che potrebbero metterla in discussione. Ad un certo punto però non è più capace di barare con se stesso; sente drammaticamente l’incapacità di scegliersi l’identità tra quelle che gli si affollano dentro, perché sa che nessuna è più vera di un’altra, ma sono tutte ugualmente assumibili. Quando Ulrich parla di “vivere ipoteticamente” mette in luce l’insostenibile leggerezza e il continuo alito di revocabilità dei suoi pensieri e delle sue azioni, nessuna delle quali ha il peso sufficiente per diventare una certezza che gli dia un radicamento sicuro. Ma pensando in termini nietzschiani, questo non trovar mai riparo all’ombra di un’idea, e il disagio che ne consegue, non è forse il destino ultimo dell’uomo che non voglia tradire la propria natura più profonda? Laddove quest’ultima non gli permette di avere una fissa dimora spirituale se non fittizia e lo sollecita ad arrischiare continuamente la propria identità lungo sentieri diversi ma tutti ugualmente praticabili?
Berger mette in risalto la presenza nel romanzo di Musil di una specularità tra l’individuo moderno (di cui Ulrich è l’interprete più fedele) e la sua società, che va oltre la situazione di pluralizzazione e di relativizzazione interiore. Infatti lo stesso titolo del romanzo, che descrive in modo cosi’ aderente che tipo di uomo è Ulrich, si applica anche alla nazione in cui egli vive, l’Austria-Ungheria, la cui crisi di identità e la cui mancanza di un’unica idea che la rappresenti, traspaiono dalla babele di acronimi con cui sono identificate le sue istituzioni. Anche la rispettiva ricerca del vero Sé compiuta da Ulrich e dalla sorella Agathe, attraverso l’esperienza dell’altro stato e quella della vera idea di Austria compiuta dalla cosiddetta Azione Parallela confermano questa specularità.
La tensione insostenibile creatasi all’interno di quella polveriera che è lo stato austro-ungarico e l’impossibilità di tenere assieme una pluralità di mondi sociali in collisione tra di loro, fa anche si, che quando un evento tragico come la guerra, fa precipitare la situazione, questo venga salutato, almeno all’inizio, come una liberazione. Specularmente, questa può essere la stessa reazione che ha un individuo quando l’energia con la quale ristruttura di continuo la sua precaria identità viene meno e la follia dilaga in lui. Infatti il momento immediatamente successivo alla rinuncia a tenere assieme e a dare un senso unitario alle parti irrelate che lo compongono è un momento di grande liberazione. Le contraddizioni che si agitano dentro Clarissa, sembrano infatti apparentemente risolversi nell’incipiente follia musicale cui lei va incontro.
Per Ulrich tutto ciò che accade manca del carattere della necessità. Ulrich bambino scrive in un componimento scolastico: “Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso”40. A livello macroscopico il carattere aleatorio delle cose si manifesta nella transitorietà e relatività di ogni esperienza collettiva. Ma la mancanza di una intrinseca necessità delle cose, si palesa anche nella formazione casuale della personalità del singolo: “Negli anni della maturità pochi uomini sanno, in fondo, come son giunti a se stessi, ai propri piaceri, alla propria concezione del mondo, alla propria moglie, al proprio carattere e mestiere e loro conseguenze, ma sentono di non poter più cambiare di molto. Si potrebbe sostenere persino che sono stati ingannati; infatti è impossibile scoprire una ragione sufficiente per cui tutto sia andato proprio così come è andato; avrebbe potuto anche andare diversamente; essi hanno influito pochissimo sugli avvenimenti, che per lo più sono dipesi da circostanze svariate, dall’umore, dalla vita, dalla morte di tutt’altri individui; e solo in quel dato momento si sono abbattuti su di loro”41.
Ulrich pensa che quelli che sono ritenuti valori assoluti, siano in realtà funzioni di una determinata correlazione di significati; in particolare “i valori morali non sono quantità assolute ma soltanto concetti funzionali”42. La morale, come è intesa da Ulrich, è un equilibrio dinamico tra forze opposte, che richiede continuamente lo sforzo da parte dell’uomo per essere ristabilito. La morale corrente è la cristallizzazione di un processo che dovrebbe essere di continuo adattamento alle nuove e diverse esperienze dell’uomo.
Da parte loro, Ulrich e la sorella Agathe, compieranno un pericoloso tentativo di allargare la sfera dell’esperienza frammentata dell’uomo, animando nuovi nessi significativi, in grado di sporgere dalla realtà condivisa, alla ricerca di un radicamento sicuro del Sé. L’esperienza mistica cui approdano nei “dialoghi sacri”, ha però una sotterranea parentela con la follia, se come dice Ulrich, in questa esperienza “non c’è più un «orizzonte»; ogni cosa invece, non saprei come dire, viene a confondersi con te, senza linea di confine e se in essa […] le cose non stanno più in alcun rapporto fra loro, perché si tratta di un rapporto sconosciuto, del quale non abbiamo nessuna esperienza, e tutte le altre correlazioni sono smarrite”43. Il rischio è di perdersi nel mare dell’indistinzione totale dove anche l’incesto tra un fratello e una sorella può accadere. Musil nel romanzo lascia indeciso l’esito di questa esperienza mistica. E’ comunque certo che per lui questa sia l’unica strada possibile per tentare di uscire da quella malferma costruzione mondana che è l’identità di Ulrich. L’uomo non può sperare di trovare la sua vera identità tra le occupazioni in cui è coinvolto nel mondo; se una vera identità esiste, questa può essere rivelata solo in quella rischiosa regione del divino cui l’esperienza mistica dà accesso. Dal divino l’uomo ha preso congedo, ma al divino l’uomo deve tornare, perché questo è il solo sfondo che possa tenere a battesimo la nascita di un possibile vero Sé.
Note:
1 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano 19814, af. 16, p. 20
2 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, 40[42], in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1975, vol. VII, tomo III, pp. 336-337
3 S. Freud, L’Io e l’Es, in S. Freud, Opere 1917-1923, Boringhieri, Torino 1977, vol. IX, p. 476
4 F. Rella, Miti e figure del moderno, Pratiche, Parma 1981, p. 35
5 R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, p. 143
6 E. Mach, Die Analyse der Empfindungen, 19229, p. 23, riprodotta in N. Abbagnano, Storia della filosofia, UTET, Torino 19823, vol. III, p. 676
7 L. Febvre, Le problème de l’incroyance au XVI siècle, A. Michel, coll. “L’evolution de l’humanité””, Paris 1946, citato in A. Koyrè, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 1967, p. 97
8 “Si trattava sostanzialmente del progetto metodologico di interpretare tutti i fenomeni fisici (e quindi non solo quelli del moto ma anche quelli acustici, ottici, termici, elettrici magnetici) in termini meccanici – ossia come il risultato di forze attrattive e repulsive agenti fra particelle materiali invariabili e dipendenti unicamente dalla distanza – e di darne poi una spiegazione basata sulle leggi fondamentali della meccanica”. Cfr. L. Lentini, Il paradigma del sapere, FrancoAngeli, Milano, 1990, p. 38
9 E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Boringhieri, Torino 1968, p. 470
10 R. Musil, Sulle teorie di Mach, Adelphi, Milano 1973, p. 11
11 ibidem, p. 15
12 La scienza costruisce modelli con i quali simula la realtà; in essi la realtà stessa viene anticipata in uno schema d’ordine che ne semplifica la complessità. La scienza non si rivolge come la filosofia al Tutto ma ne analizza le parti. La sua duplicazione della realtà con modelli formali tuttavia è incapace, secondo il teorema di Godel, di giustificare se stessa; questo vuol dire che qualsiasi sistema formale che simuli la realtà è incapace di giustificare logicamente se stesso rimanendo al suo interno, ha sempre bisogno di presupporne uno più ampio che lo giustifichi e questo a sua volta di un altro ancora, all’infinito. Questo vuol dire che alla fine per spezzare questa catena infinita è necessario assumere dei presupposti dandoli per scontati e quindi appoggiarsi su quello che Husserl chiama “il mondo della vita”, quell’a-priori in cui affondano le radici della stessa scienza. Il mondo della vita (Lebenswelt) “è un regno di evidenze originarie. Ciò che è dato in modo evidente è, a seconda dei casi, ‘esso stesso’ dato nella percezione e cioè esperito nella sua presenza immediata, oppure è ricordato nella memoria”. Cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano 19877, p. 156. Dunque il mondo della vita è un mondo prescientifico, è il mondo dell’intuizione e dei problemi pratici a cui la stessa scienza attinge necessariamente, presupponendolo e sorgendo da esso. La scienza “presuppone un punto di partenza costituito dal mondo intuitivo della vita a tutti già dato […] Se la scienza pone certi problemi e li risolve, si tratta, già all’inizio e poi via via lungo il processo del lavoro scientifico, di problemi che si pongono sul terreno di questo mondo, che investono la compagine del mondo già dato, in cui rientra la prassi scientifica come qualsiasi altra prassi vitale. In questa prassi svolge un ruolo costante la conoscenza, la conoscenza pre-scientifica, con tutti i suoi fini, che essa, nel senso in cui li concepisce, raggiunge in generale in misura sufficiente a rendere possibile una vita pratica“. Cfr. ibidem, p. 150
13 “La teoria della relatività modifica le leggi della meccanica. Le antiche leggi non sono più valevoli allorquando la velocità di una particella in moto si avvicina a quella della luce”. Cfr. A. Einstein L. Infeld, L’evoluzione della fisica, Einaudi, Torino 19534, p. 256
14 “Nella fisica atomica – scrive Heisenberg – debbono essere fondamentalmente riesaminati il concetto di coincidenza spazio-temporale e il concetto di osservazione. In particolare, nella discussione di alcune esperienze, occorre prendere in esame quella interazione tra oggetto e osservatore che è necessariamente congiunta a ogni osservazione. Nelle teorie classiche, quest’interazione veniva considerata o come trascurabilmente piccola o come controllabile, in modo tale da poterne eliminare in seguito l’influenza, per mezzo di calcoli. Nella fisica atomica, invece, tale ammissione non si può fare, poiché a causa della discontinuità degli avvenimenti atomici ogni interazione può produrre variazioni parzialmente incontrollabili e relativamente grandi”. Cfr. W. Heisenberg, I principi fisici della teoria dei quanti, Boringhieri, Torino 19792, p. 13
15 K. Marx, Il Capitale, Libro I, Editori Riuniti, Roma 19945, pp. 117-118
16 G. Simmel, L’avventura, in Saggi di cultura filosofica, Guanda, Parma 1993, p. 16
17 D. Frisby, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, Il Mulino, Bologna 1992, p. 86
18 P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 103-104
19 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma 1995, p. 36
20 id, Filosofia del denaro, UTET, Torino 1984, p. 681
21 ibidem, p. 668
22 G. Simmel, Soziologische Aesthetik, in “Die Zukunft“, 17, 1896 in D. Frisby, op. cit., p. 98
23 “L’essenza dell’essere blasé consiste nell’attutimento della sensibilità rispetto alle differenze tra le cose, […] nel senso che il significato e il valore delle differenze, e con ciò il significato e il valore delle cose stesse, sono avvertiti come irrilevanti. Al blasé tutto appare di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di suscitare preferenze. Ma questo stato d’animo è il fedele riflesso soggettivo dell’economia monetaria, quando questa sia riuscita a penetrare fino in fondo”. Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, op. cit., p. 43
24 ibidem, p. 37
25 ibidem, p. 38
26 ibidem, p. 39
27 ibidem, p. 41
28 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, p. 110
29 id, Parigi. Capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 505
30 id, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, op. cit., p. 97
31 G.H. Mead, Mente Sé Società, Giunti, Firenze 1966, pp. 159-161
32 R. Musil, L’uomo senza qualità, op. cit., pp. 142-143
33 ibidem, p. 231
34 ibidem, pp. 231, 232
35 ibidem, p. 30
36 P. L. Berger, Robert Musil e il salvataggio del sé, Rubbettino, Messina 1992, p. 30
37 R. Musil, L’uomo senza qualità, op. cit., p. 811
38 P. L. Berger, op. cit., pp. 19, 20
39 ibidem, p. 20
40 R. Musil, L’uomo senza qualità, op. cit., pp. 14, 15
41 ibidem, p. 124
42 ibidem, p. 724
43 ibidem, p. 738
Immagine: Robert Musil nel 1930.