In occasione del centenario di “Storia e Coscienza di Classe”: la dialettica di natura e società tra György Lukács e Alfred Schmidt (prima parte) – di Francesco Bugli
Questo testo è dedicato alla memoria di Roberto Sassi (1960-2023)
Nell’influente raccolta di saggi Storia e Coscienza di Classe (dalla cui pubblicazione ricorre il centenario), György Lukács si pose un problema metodologico, ovvero se fosse possibile applicare alla natura il metodo dialettico nella formulazione engelsiana. La risposta secondo l’autore è sostanzialmente negativa, ed è già presente nel primo testo della raccolta intitolato Che cos’è il marxismo ortodosso?. Sappiamo che Storia e Coscienza di Classe è spesso considerato il testo fondatore del cosiddetto marxismo occidentale, incarnato da una rosa di autori che interpretano il pensiero di Karl Marx come separato da quello di Friedrich Engels su molte questioni cruciali, a partire proprio da quella metodologica. La separazione di cui parliamo riguarda cioè il metodo con cui si debba indagare natura e società: ciò non era scontato nella vulgata marxista del tempo che sarebbe confluita nel cosiddetto diamat di matrice sovietica. Il testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schimdt è a nostro avviso segnato da una profonda influenza del testo lukácsiano che lo porta a seguire la traiettoria del pensatore ungherese nella valutazione del pensiero di Engels. In questo articolo si traccerà quindi un ponte tra i due autori: un ponte relativo alla loro valutazione del pensiero engelsiano. Inoltre, verrà tenuta al centro la problematica ontologica, mostrando come essa sia declinata dai due autori in modi differenti.
- Storia e coscienza di classe: metodo e problemi nella conoscenza della natura e della società
A partire dal primo testo di Storia e coscienza di classe, Lukács poneva il problema della differenza di metodo da adottare nell’analisi della società e in quella della natura[1]. Lukács mutua il senso di questa differenza dal contesto culturale tedesco a lui contemporaneo: dallo storicismo e dal neokantismo, in particolare dalle figure di Wilhelm Dilthey e di Max Weber. Per Lukács il problema della dialettica si pone come metodo d’indagine del mondo storico-sociale: quella è infatti capace di riflettere le intime strutture di questo e risponde al corretto rapporto che, sulla scia di Marx, si deve impostare tra teoria e prassi. Si tratta di un punto di vista militante che tiene al centro la questione del punto di vista proletario, che è a sua volta questione centrale in SCC. Il punto d’avvio di Lukács è la conoscenza della realtà sociale. Questa è al contempo «una corretta conoscenza della società nella sua interezza» e condizione dell’affermarsi del proletariato inteso come classe rivoluzionaria[2]. In altri termini la teoria è qui concepita come strumento rivoluzionario, ossia come elemento necessario alla trasformazione della società e il metodo dialettico può essere il solo capace di fornire tale presupposto. Per Lukács tale metodo deve appunto essere quello indicato da Marx. Deve cioè rovesciare la dialettica hegeliana verso una dialettica materialista, che presenta già un punto di distinzione rispetto alla sua versione engelsiana. Infatti, secondo Lukács, Engels affermava che «la dialettica è il processo costante del fluido trapassare da una determinazione nell’altra, l’ininterrotto superamento delle contraddizioni”[3]. Tuttavia, in questo modo, continua Lukacs, «l’interazione più essenziale, il rapporto dialettico tra soggetto ed oggetto nel processo storico, non viene […] posto – come si dovrebbe – al centro della considerazione metodica»[4].
Il rimprovero fatto ad Engels è insomma quello di rimanere ancora una volta nell’astrattezza della fluidità dei concetti, di non considerare il dato della prassi, della trasformazione della realtà: di rimanere su un piano puramente metodologico, cadendo nella «separazione di metodo e realtà, di pensiero ed essere»[5]. C’è una certa cautela in Lukács, come si evince dal modo in cui è lui stesso a riprendere Engels in alcuni passaggi del testo, ma non c’è dubbio che è molto chiaro nell’affermare come Marx si esprima su simili questioni «molto più precisamente» dell’amico[6]. Pochi passaggi dopo, in una nota, l’autore sottolinea come per lui vi siano stati una serie di fraintendimenti che hanno portato al «fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura» e non lo circoscrive alla realtà storica e sociale, che è invece caratterizzata da quegli elementi che attingono intimamente alla dialettica: l’unità tra teoria e prassi e l’interazione tra soggetto e oggetto[7].
Un altro punto di distanza che Lukács vuole prendere da Engels riguarda la valutazione della prassi in relazione alla problematica della cosa in sé (il noumeno) nel pensiero di Kant. Per Kant il noumeno è l’oggetto della rappresentazione intelligibile, è l’oggetto che può essere pensato ma mai conosciuto in sé. Il noumeno non è derivabile dalla sensibilità e dall’esperienza. Le cose in sé (noumeni) vanno quindi distinte dai fenomeni prodotti dalla rappresentazione sensibile, che sono conoscibili e sottoposti alle “forme” a priori dello spazio e del tempo. Per Engels «la decisiva confutazione di questa stramberia filosofica […] è la praxis, cioè l’esperimento e l’industria», in cui la cosa in sé, il noumeno, diventa cosa per noi[8]. Lukács qui rimprovera ad Engels un uso scorretto delle categorie hegeliane di “in sé” e “per sé”, dove il primo termine significa che la cosa è data per noi mentre il secondo, «l’essere pensato dell’oggetto, significa al tempo stesso coscienza che l’oggetto ha di sé stesso»[9]. Inoltre, il fraintendimento di Engels avverrebbe sul terreno della mancata comprensione di Kant, per il quale la cosa in sé non è assolutamente un freno alla conoscenza scientifica sperimentale, e quest’ultima rimane sempre su un piano fenomenico e mai noumenico.
Lukács vede nell’esperimento qualcosa che attiene ancora ad un comportamento contemplativo, dal momento che si danno condizioni, per così dire depurate, sia soggettivamente che oggettivamente, da ogni perturbazione, in cui si possono osservare le leggi di natura nel loro svolgersi. L’industria è identificata da Lukács con l’agire del capitalista, che si percepisce come dotato di margini di manovra individuali, come agente consapevole, mentre in realtà è agito dai meccanismi economici che lo dominano, in quanto il rapporto sociale dominante avviene per gli attori sociali alle loro spalle nel modo di produzione capitalistico. Nell’industria, la questione attiene il ragionamento marxiano sulle charaktermaske[10]. Per Lukács come per Marx i singoli attori del sistema economico sono maschere di categorie economiche: sono agiti, e non agenti, dalle leggi coercitive della concorrenza. Nell’industria – scrive Lukács –il capitalista «non agisce, ma subisce l’azione, […] la sua attività si esaurisce nel calcolo e nella osservazione corretta dell’operare oggettivo delle leggi naturali sociali»[11].
Un punto centrale nella considerazione di Lukács è quello del posto dei dati empirici, fattuali, nell’elaborazione della teoria. È un punto che ci servirà a chiarire la questione della valutazione del metodo scientifico da parte dell’autore. Per lui non si danno fatti isolati: «i fatti sono appresi a partire da una teoria, secondo un metodo, sono stati strappati al contesto di una teoria»[12]. Non c’è factum brutum che tenga. I tentativi di contrapporre l’empirismo al metodo dialettico, per quanto riguarda la sfera storica e sociale, sono fallaci. Questa fallacia è il prodotto stesso della struttura sociale del capitalismo, che isola i vari settori e produce essa stessa parzialità, mentre la dialettica assume un punto di vista radicalmente opposto che è quello della totalità. Il punto è che lo stesso orientamento della struttura della società capitalistica porta a adottare il metodo delle scienze naturali, in cui i fatti appaiono, come tali, isolati in virtù della stessa struttura storicamente determinata del capitalismo. La specializzazione e la parcellizzazione delle scienze rompe il rapporto con la totalità, riproducendo la logica feticistica e irrazionale del modo di produzione capitalistico attraverso una formalizzazione metodologica che riproduce l’inversione del qualitativo nel quantitativo, proprio della logica del valore e della merce. Qui viene richiamata la distinzione hegeliana tra apparenza ed essenza dei fenomeni, che secondo Lukacs è centrale nel Capitale di Marx e nelle sue categorie, mutuate queste dalla Scienza della logica[13]. Al di là della datità immediata, i fenomeni – che si presentano isolati – vanno compresi dialetticamente; vanno «trovate le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza, e d’altro lato, ottenere la comprensione di questo loro carattere di fenomeno», riconoscendo così la stessa datità immediata come un prodotto della forma sociale capitalistica[14].
I fatti vanno compresi come momenti della totalità e ricondotti alle loro connessioni dialettiche, la realtà è struttura in questo modo e tale processo non è una pura ricostruzione del pensiero ma attiene alla struttura della realtà stessa. Il metodo dialettico è quello del primato della totalità sui singoli momenti, se è vero come scriveva Hegel che il vero è l’intero. In questo caso però la totalità è quella marxiana dei rapporti sociali di produzione, caratterizzata dall’antagonismo tra forze produttive e rapporti di produzione. Il metodo dialettico si distingue da quello scientifico sul lato della contraddizione; quello scientifico è tale in virtù del principio di non-contraddizione, dove le teorie imperfette sono quelle che si contraddicono tra loro e come tali saranno riassorbite e riformulate all’interno di teorie più generali che determineranno la scomparsa della contraddizione stessa. Nella sfera storica e sociale, secondo Lukács, le contraddizioni «appartengono piuttosto inseparabilmente all’essenza della realtà stessa, all’essenza della società capitalistica»[15]. Per la logica dialettica le contraddizioni vanno considerate come necessarie, la loro soppressione potrà avvenire sul terreno dello sviluppo della realtà sociale, con il rovesciamento rivoluzionario della società stessa da parte del soggetto-oggetto agente e conoscente, ovvero il proletariato.
A questo punto Lukács afferma che «l’ideale conoscitivo della scienze naturali che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo ideologico della lotta ideologica della borghesia»[16]. Qui abbiamo l’estensione di categorie della natura alla società: categorie che vanno ad eternalizzare e naturalizzare il modo di produzione capitalistico. Lo stesso metodo dell’economia politica nel suo sorgere è tutto volto a negare le contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico e finisce per farne un’apologia, e a farsi strumento ideologico della classe dominante. I momenti di cui si caratterizza la totalità, non vanno negati per ritornare a un’unità indifferenziata, ma compresi come momenti fenomenici della totalità stessa, in quanto «si trovano l’uno con l’altro in un rapporto dialettico-dinamico»[17]: un rapporto che però non assume mai la forma della mera interazione causale tra due oggetti. L’intero determina i momenti come «forma di oggettualità di ogni oggetto della conoscenza; ogni modificazione essenziale […] si esprime come modificazione del rapporto con l’intero e quindi come modificazione della stessa forma di oggettualità»[18]. La conoscenza dialettica permette di comprendere «le forme feticistiche dell’oggettualità»[19]. Queste forme sono generate dalla realtà invertita del capitale, in cui le cose hanno caratteristiche di persone e le persone di cose. Per Lukács la forma dell’oggettualità è definita dalla forma-merce, che è il «problema centrale della società capitalista» e «la forma dominante del ricambio organico di una società»[20]: si tratta di forme che, nella loro interazione, si rivelano capaci di condizionarne il lato oggettivo e quello soggettivo. La conoscenza dell’oggettualità permette di scoprire il carattere transitorio, storico, dell’apparenza fenomenica delle cose e di sciogliere, tramite la prassi, l’inversione tra soggetto e predicato propria di una società alienata e dominata dalla reificazione.
Tornando al rapporto tra Marx e Hegel, Lukács ci suggerisce che lo snodo della loro differenziazione avviene sul terreno della realtà, delle forze motrici della storia: forze impossibili da identificare hegelianamente coi popoli e con lo spirito che agirebbe attraverso essi.
Hegel rimarrebbe dunque prigioniero, ancora una volta, dei dualismi tra pensiero ed essere, tra soggetto e oggetto. Lukács è convinto che in Hegel sia di nuovo presente «una mitologia del concetto» legata alla lettura dello spirito assoluto come motore della storia, mentre Marx ed Engels hanno restituito la determinazione materiale della vita degli uomini, nei rapporti reciproci tra loro e con la natura[21]. Se l’essere per Marx è essere sociale che va a determinare la coscienza e non viceversa, scopriamo questo essere come prodotto dell’uomo. Nella società capitalistica vige però una forma mistificata di realtà e oggettualità, in cui i rapporti sono percepiti come rigidi, esterni all’uomo, cosali e naturali, in virtù della struttura sociale stessa che è mistificata e alienata. La realtà stessa è prodotta dall’uomo, della sua attività sensibile e ciò significa «una presa di coscienza dell’uomo su sé stesso come essere sociale, sull’uomo in quanto – nello stesso tempo – è soggetto e oggetto dell’accadere storico-sociale»[22]. Solo con l’avvento del capitalismo l’uomo si rende conto della socialità dei rapporti che lo caratterizzano. Nel modo di produzione feudale l’elemento naturale è ancora prevalente. Il capitalismo invece, con il suo sviluppo, porta alla scomparsa «dei rapporti economici che hanno regolato direttamente il ricambio organico tra uomo e natura. L’uomo diventa – nel vero senso della parola – essere sociale. La società la realtà dell’uomo»[23].
Inoltre, per Lukács l’elemento naturale è sempre socialmente condizionato: «la natura è una categoria sociale. Ciò che vale come natura ad un determinato grado dello sviluppo sociale, la struttura del rapporto tra uomo e natura ed il modo in cui l’uomo si rapporta con essa; quindi, il senso che la natura deve avere in rapporto alla sua forma ed al suo contenuto» attiene alle forme di mediazione della società[24]. Per Lukács la realtà sociale diviene intelligibile solo a partire dallo sviluppo del capitalismo, che produce una seconda natura. È qui che il proletariato, con la sua comparsa, si fa soggetto capace della conoscenza della realtà sociale come intero. Il bisogno vitale della classe operaia è quello di conoscere la propria situazione: conoscendo l’intero essa può orientare la sua azione. Questo processo è per Lukács il punto in cui coincidono teoria e prassi, e in cui nel punto di vista del proletariato «vengono a coincidere la conoscenza di sé e la conoscenza della totalità, ed esso, è al tempo stesso, soggetto ed oggetto della propria conoscenza»[25]. La conoscenza della realtà parte dal punto di vista del proletariato, in quanto in esso sono riassunte tutte le contraddizioni della società capitalistica. Il punto di vista situato è quello che permette la conoscenza dell’intero. La parte proletaria è parte per il tutto, sineddoche. Il punto di vista proletario sulla totalità si è formato sul terreno concreto della lotta di classe, come un percorso travagliato. Da esso si è formato il materialismo storico e dialettico[26] come strumento di conoscenza e, allo stesso tempo, di lotta. Lo scopo finale di tale lotta è il «rapporto con l’intero […] attraverso il quale ogni momento singolo della lotta mantiene il suo senso rivoluzionario»[27]: un senso che solo la dialettica come metodo può tenere al centro dell’azione che essa stessa guida. Il soggetto-oggetto coincidente nella figura del proletariato sarà capace di superare la contraddizione della realtà mistificata del capitalismo e le antinomie che caratterizzano il pensiero borghese.
- La prefazione “autocritica” del 1967: da “un hegelismo più hegeliano di Hegel” a un’ontologia dell’essere sociale
Nel 1967 Lukács scrive una nuova prefazione a Storia e Coscienza di Classe, con un forte intento autocritico[28]. Il punto di partenza è proprio la peculiare critica all’idea di marxismo come ontologia, sviluppata all’interno di Storia e Coscienza di Classe, che voleva engelsianamente il metodo dialettico applicabile indistintamente alle proprietà naturali e sociali dell’essere: posizione che, come abbiamo visto, è fortemente rigettata dallo stesso Lukács[29]. Analizzando il suo vecchio testo, Lukács sottolinea che la differenza sul metodo d’applicabile a natura e società fosse per lui centrale, e come la natura fosse da lui intesa primariamente come «categoria sociale […] nel senso secondo cui soltanto la conoscenza della società e degli uomini che vivono in essa sarebbe filosoficamente rilevante»[30]. Questa posizione rischiava di non dare il giusto risalto al perno marxiano della categoria centrale di lavoro, inteso «come mediatore del ricambio organico della società con la natura»[31]. Più generale quell’approccio non restituiva il naturalismo e il realismo dell’opera marxiana, che sottolinea il prius dell’oggettività naturale.
La ricostruzione lukácsiana, della propria biografia intellettuale, pone a questo punto l’accento sulla sua collaborazione con l’Istituto Marx-Engels di Mosca tra il 1929 e 1930, che gli permisero la lettura dei cosiddetti Manoscritti Economico-filosofici del 1844. Qui, com’è noto, si trova la centrale differenziazione tra estraniazione (Entfremdung) e oggettivazione (Vergegenständlichung). Lukács descrive il vivo stupore che gli suscitò la lettura delle pagine di Marx, dove «l’oggettività come proprietà materiale prima di tutte le cose e di tutte le relazioni» è messa in chiara luce e l’oggettivazione è «un modo di naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l’estraniazione è un tipo particolare d’oggettivazione che si realizza in date circostanze sociali»[32].
Nel definire la propria impostazione, ai tempi della scrittura di Storia e Coscienza di Classe, Lukács dichiarò di essere stato seguace «di un hegelismo più hegeliano di Hegel» nell’impostare la questione del “soggetto-oggetto identico” e nell’identificarla con la figura del proletariato, perdendosi in una forma d’idealismo persino più esasperata rispetto a quella di Hegel. Tale enfasi era influenzata anche dal contesto storico e dalle tendenze politiche che agitavano l’autore durante il periodo successivo alla Rivoluzione d’ottobre, e finiva per riflettere l’«utopismo messianico del comunismo di sinistra di allora»[33]. Il problema centrale è quello dell’alienazione (Entäusserung) nel pensiero di Hegel. Hegel identifica l’alienazione con la posizione dell’oggettività, con il porre l’oggettività. Nell’interpretazione che Lukács ne dà in Storia e Coscienza di Classe, il “soggetto-oggetto identico” avrebbe dovuto superare l’alienazione, ma così facendo avrebbe superato anche l’oggettività naturale, sciogliendo le forme alienate dell’oggettività stessa e determinando con la fine dell’alienazione anche la fine della realtà oggettiva, in quanto entrambe erano poste sullo stesso piano. Se in Hegel «l’oggetto, la cosa […] esiste soltanto come alienazione dell’autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della realtà oggettività, quindi della realtà in generale»[34]. E questo genererebbe un esito irrazionalistico e idealistico (per altro rigettato dallo stesso Hegel nella sua critica a Schelling[35]). Qui viene evidenziato come «l’oggettivazione è effettivamente un modo insuperabile di estrinsecazione della vita sociale degli uomini»[36]. Non c’è giudizio di valore rispetto alla vita sociale in sé, ma solo quando i rapporti degli uomini tra loro e con la natura «ricevono funzioni tali da mettere in contrasto l’essenza dell’uomo con il suo essere, soggiogando, deformando e lacerando l’essenza umana attraverso l’essere sociale»[37]. Quando cioè «sorge il rapporto oggettivamente sociale d’estraniazione e come sua conseguenza necessaria, l’estraniazione interna di tutti i caratteri soggettivi»[38].
Altro snodo problematico per il Lukács “autocritico” è quello che attiene alla categoria della praxis. Se prima era direttamente correlata all’azione rivoluzionaria agente-conoscente del proletariato come classe per sè, è ora identifica immediatamente con il lavoro, col concetto marxiano di ricambio organico tra uomo e natura quale necessità eterna per la vita biologica e sociale degli uomini[39]. Secondo Lukács, che in quegli anni come abbiamo ricordato andava elaborando la sua propria ontologia come ontologia dell’essere sociale, il lavoro è sulla scia di Marx atto teleologico che presuppone il “rispecchiamento” – come presupposto ontologico della realtà oggettiva – nel pensiero: rispecchiamento che però trova verifica soltanto nella prassi[40]. Tornando alla valutazione del pensiero di Engels, Lukács mette al vaglio i due esempi sula “verifica” della praxis presentati in Storia e Coscienza di Classe, ovvero l’industria e l’esperimento. Il valore attribuito al lavoro, come praxis e criterio veritativo, è qui accolto dall’autore ungherese, ma solo come qualcosa di vero in prima battuta: qualcosa che però è incapace di sciogliere l’enigma kantiano della cosa in sé. Se “praticamente” qualcosa si dimostra vero a partire dalla teoria – sostiene Lukács – può anche “funzionare” nella realtà ma su presupposti teorici completamente errati. Inoltre, l’enigma noumenico, non è sciolto, perché Kant stesso affermava che la conoscenza sperimentale è fenomenica e mai noumenica. Dal Lukács di SCC, l’esperimento era considerato l’atteggiamento contemplativo per eccellenza. Ora lo identifica in un atto teleologico valido come prassi. Lo stesso si può dire per l’industria, che viene ora considerata come «sintesi di atti lavorativi teleologici, […] un atto teleologico e quindi pratico»[41]. La posta in gioco di questa autocritica riguarda la categoria di lavoro, che per Lukács non era ben posta al centro di SCC, dove venivano privilegiate «le strutture più complesse dell’economica merceologica evoluta»[42].
Occorre a questo punto analizzare alcuni elementi chiave dell‘Ontologia dell’essere sociale, sviluppata da Lukács dall’inizio degli anni Sessanta. Un punto centrale che ci preme sottolineare, in cui tornano tutti gli elementi posti in evidenza nella Prefazione del 1967, è legato al particolare rapporto che si viene ad instaurare tra natura e società in questa fase del pensiero lukácsiano. Per l’autore la differenza profonda tra queste due sfere attiene allo iato che intercorre tra le categorie di teleologia e causalità: la prima attiene al fondamento del mondo sociale, la seconda al mondo della natura. Per Lukács vi sono «tre grandi specie d’essere (natura organica, natura inorganica e società)»[43]. Queste specie però non sono scisse: il mondo naturale caratterizzato da processi inorganici e organici non conosce finalismo e anche il finalismo del mondo organico è “senza scopo”; mentre l’atto teleologico umano trova fondamento nella praxis identificata col ricambio organico tra uomo e natura, come atto tendente ad uno scopo, sorto dalla necessità della soddisfazione di un bisogno sociale. Il lavoro – che quel bisogno deve soddisfare – è per Lukács il «fatto ontologico fondamentale dell’essere sociale»[44]. Esso prende le mosse dalla conoscenza di fatti causali-naturali e li torce verso uno scopo, che a sua volta mette in moto altre causalità, oggetti e processi naturali. Vanno qui tenute in considerazione le tre specie d’essere che esistono contemporaneamente, intrecciate l’una all’altra, dove l’uomo appartiene simultaneamente sia alla natura che alla società. La concezione processuale di Lukács prevede che l’elemento naturale “arretri” di fronte alla pressione dell’uomo, ma l’elemento naturale come tale non è mai eliminato, è anzi il fondamento dell’essere uomo dove non si dà mai dualismo: «l’uomo non è mai […] da un lato ente sociale, umano, e dall’altro lato parte della natura; la sua umanizzazione, la sua socializzazione, non implica una scissione ontologica del suo essere»[45].
L’ultimo punto che ci preme sottolineare è legato alla valutazione del pensiero di Engels in relazione ad Hegel. Qui il disaccordo attiene alla mancata presa di distanza di Engels da Hegel che avviene sul terreno della logicizzazione dell’essere. Engels non parte dall’astrazione derivata dal passaggio dal concreto all’astratto[46]. Pretende invece di applicare uno schema astratto, auto-fondato logicamente, all’essere concreto, invertendo il processo reale dell’astrazione come concepito da Marx nel rovesciamento della dialettica hegeliana[47]. Il punto per Lukács è l’impossibilità di partire «dal concetto logicamente svuotato dell’essere e sviluppare un essere reale mediante una reversione ideale del processo di astrazione»[48]. Il concetto di “negazione della negazione” utilizzato da Engels nell’Anti-Dühring (e mutuato da Hegel) conduce ad uno schematismo che falsifica la realtà stessa, sussumendola sotto uno schema astratto, privo di base ontologica reale, peraltro indistintamente applicabile alla natura come alla società. Secondo Lukács questa legge generale «non è stata ricava da sviluppi dell’essere stesso ma da fuori, a partire da sfere completamente altre, è stata arbitrariamente applicata a ogni e qualsiasi essere»[49].
La negazione della negazione come categoria hegeliana è secondo Lukács «soltanto una determinazione ideale»[50]. L’uomo nel suo agire quotidiano si pone una domanda che determinerà il suo agire futuro. Ponendosi la domanda può rispondersi sia negando che affermando. Il piano della prassi umana però non ha che fare con categorie logiche, ma con la prassi stessa degli uomini: con il “sì” o il “no” degli uomini in situazione. La prassi è ontologicamente determinata, sia essa naturale o sociale o sia essa una loro mediazione. Per Lukács Engels è invece convinto che la negazione della negazione avvenga nella realtà, a partire dal mondo organico. È il celebre esempio del chicco d’orzo: «il chicco come tale muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta formatasi da esso, la negazione del chicco»[51]. Il problema attiene sempre alla logicizzazione dell’essere, dove il primato spetta al logico sull’ontologico. Attiene cioè all’inversione della realtà che fa derivare il concreto dall’astratto, dove lo schema hegeliano viene applicato alla natura e la natura diviene qualcosa di caricaturale e superfluo. Secondo Lukács il processo si comprende più facilmente «sulla base della coppia categoriale continuità-discontinuità» che sulla base del concetto hegeliano della «negazione della negazione»[52]. Questa coppia categoriale attiene infatti alla realtà, ai processi ontologici. «La continuità e la discontinuità – scrive Lukács – negli uomini erano di fatto operanti, sviluppavano e suscitavano forme ontologiche, moltissimo prima che il pensiero fosse in grado di immaginarsi il loro carattere di categorie»[53]. In altri termini, l’oggettività ontologica preesiste al categoriale logico.
Note:
[1] La raccolta fu mandata alle stampe tra la fine del 1922 (la prima prefazione è datata “Vienna, Natale 1922”) e l’inizio del 1923. Alcuni dei saggi erano apparsi originariamente sulla rivista “Kommunismus” pubblicata a Vienna, quelli scritti appositamente per la raccolta furono: La reificazione e la coscienza di classe del proletariato e Considerazioni metodologiche sul problema dell’organizzazione. Dopo il fallimento della repubblica dei consigli e l’instaurazione del governo reazionario di Miklòs Horty, Lukács ed altri esuli ungheresi si trovarono a Vienna in esilio. Lì esprimevano posizioni riconducibili alla tendenza dell’ala sinistra della terza internazionale. Per i dettagli si veda l’Introduzione del 1922 alla prima edizione e la celebre Prefazione del 1967, dove Lukács conduce un’autocritica molto pronunciata a Storia e Coscienza di Classe. La nostra edizione di rifermento è György Lukács, Storia e coscienza di classe, PGRECO, Milano, 2022, dove sono contenute sia l’Introduzione che la Prefazione. In questo lavoro evidenzieremo i mutamenti del pensiero di Lukács, a cui Storia e coscienza di classe divenne “estraneo”, come lo erano divenute le opere cosiddette “giovanili” (Teoria del romanzo, L’anima e le forme) durante la stesura di SCC (d’ora in poi così citato nel testo). Nel 1930 Lukács ebbe modo di collaborare con L’istituto Marx-Engels di Mosca e leggere i Manoscritti economico-filosofici di Marx. In seguito a ciò gli divenne chiara la differenza tra estraniazione (Entfremdung) e oggettivazione (Vergegenständlichung): differenza che lo portò ad un profondo ripensamento della sua opera. Su questo punto torneremo in seguito, ma si veda ancora la Prefazione del 1967.
[2] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 3.
[3] Ivi. p. 4.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 5.
[6] Ivi, p. 6.
[7] Ibidem.
[8] F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophi, citato in ivi, p. 172.
[9] Sono categorie della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Ivi, p. 173.
[10] «Delle persone qui si tratta solo in quanto personificazioni di categorie economiche, esponenti di determinati rapporti e interessi di classe». K. Marx, Il capitale, Libro I, Prefazione alla prima edizione tedesca, Utet, Torino, 2009, p. 76.
[11] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 175.
[12] Ivi, p. 7.
[13] Vedi la nota 10, sempre Ivi, p. 11.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 14.
[16] Ivi, p. 15.
[17] Ivi, p. 17.
[18] Ivi, p. 18.
[19] Ivi, p. 19.
[20] Ivi, pp. 107-109.
[21] Ivi, p. 25. Lukács, nonostante l’intento polemico con Engels, mantenne comunque l’accostamento trai i due pensatori e la definizione di marxismo come materialismo dialettico. Sappiamo che il materialismo dialettico si configurerà in un modo molto differente rispetto al punto di vista lukácsiano.
[22] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 27.
[23] Ibidem. Va notato che questa è una tesi centrale del testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schmidt: una tesi che fu criticata da Lucio Colletti nella prefazione italiana al testo.
[24] Ivi, p. 291
[25] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 28.
[26] Ci pare che Lukács in questo testo li usi come sinonimi. La direzione di tale dibattito è complessa e approfondita, per un breve riassunto vedi R. Fineschi, Marx, Editrice Morcelliana, Brescia, 2021, pp. 116-119.
[27] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 31.
[28] Questa prefazione non è stata sufficientemente analizzata dalla critica.
[29] Va ricordato che a partire dal 1960 l’autore stava elaborando a sua volta l’idea del marxismo come ontologia, ma su presupposti molto diversi rispetto a quelli di Engels. Si trattava infatti di un’ontologia dell’essere sociale sulla quale torneremo.
[30] G.Lukács, Prefazione del 1967, in Id., Storia e coscienza di classe, op. cit., p. LXX.
[31] Ivi, p. LXXI.
[32] Ivi, p. XCIV.
[33] Ivi, p. LXXII.
[34] Ivi, pp. LXXII -LXXIX.
[35] Ivi, p. LXXVIII. Vedi le annotazioni dello stesso Lukács.
[36] Ivi, p. LXXIX.
[37] Ivi, p. LXXX.
[38] Ibidem.
[39] Anche qui l’autore ha parole di feroce autocritica, definendo la sua vecchia idea di coscienza di classe come un che “dattribuito di diritto” al proletariato e non a un lavoro politico d’avanguardie, come sosteneva Lenin, secondo la tesi per la quale la coscienza di classe viene sempre dall’alto, dall’esterno dei rapporti antagonistici tra capitale e lavoro. Lukács considerava la sua vecchia posizione come idealistica e “miracolosa”. Cfr. ivi, p. LXXIII.
[40] Va ricordato che l’impostazione della questione da parte di Lukács prende di mira quelle interpretazioni che immaginavo la teoria del riflesso di matrice leniniana come qualcosa di “fotografico” e puramente gnoseologico, difatti come ricordato in questa prefazione «la praxis può soddisfare la teoria ed esserne il criterio solo perchè alla sua base si trova, ontologicamente, come presupposto reale, di qualsiasi posizione teologica reale, un rispecchiamento che si ritiene corretto nella realtà» Ivi, pp. LXXX-LXXXI. Confrontiamo qui due citazioni, la prima di Engels dal Ludovico Feuerbach «il mondo non deve essere concepito come un complesso di cose compiute ma come un complesso di processi» la seconda, come un’ideale risposta, di Lukács stesso «se non vi sono cose che cosa viene riflesso nel pensiero?». Crediamo che tale dibattito sia molto significativo anche nei riguardi dello sviluppo della fisica contemporanea, con le dovute differenze, sul piano di metodo, e di divisione disciplinare del lavoro, ci pare avvicinarsi alla posta in gioco nel dibattito tra Heisenberg e Einstein sul realismo scientifico, in relazione alle implicazioni epistemologiche della fisica quantistica. Per alcuni aspetti di questo dibattito con riferimento al marxismo vedi C. Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano, 2020, pp. 125-156.
[41] G. Lukács, Prefazione del 1967, in Id., Storia e coscienza di classe, PGRECO, Milano, 2022, p. LXXIV.
[42] Ivi, p. LXXV.
[43] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Volume I – Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, PGRECO EDIZIONI, Milano, 2012, p. 4.
[44] Ivi, p. 11.
[45] Ivi, p. 10.
[46] Per Lukács, Hegel «intende il processo di questa genesi per sua natura come una deduzione logica del concreto dall’astratto, finisce per non vedere le vere categorie evolutive dell’essere processuale, per mettere quindi lo sviluppo sulla testa e per interpretare la deduzione logica del concreto dall’astratto – deduzione che si verifica sempre post festum – come il processo vero e proprio». Ivi, pp. 128-129.
[47] Nel poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, Marx scriveva: «il mio metodo dialettico non è soltanto diverso da quello hegeliano, ma ne è l’antitesi diretta. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in un soggetto indipendente sotto il nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce soltanto la sua apparenza fenomenica o esterna. Per me, viceversa, l’Ideale non è che il materiale, convertito e tradotto nella testa dell’uomo». K. Marx, Il capitale, Libro I, op. cit. p. 87. Per una ricostruzione complessiva della questione si rinvia a R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi ad una rilettura, Carocci, Roma, 2006.
[48] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Volume I – Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, op. cit., p. 121.
[49] Ivi, p. 132.
[50] Ivi, p. 142.
[51] F. Engels, Anti-Dühring, citato in Ivi, p. 130.
[52] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Volume I – Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, op. cit., p. 130.
[53] Ivi, p. 142.