GAZA E IL FUTURO DELLA PACE TRA ISRAELE E I PALESTINESI – di Noam Chomsky
[Pubblichiamo, a cura di Giorgio Graffi, un articolo di Noam Chomsky del 16 luglio 2007 sulla questione palestinese, ancora oggi molto attuale]
La morte di una nazione è un evento raro e cupo. Ma la visione di una Palestina unificata e indipendente minaccia di essere un’altra vittima della guerra civile tra Hamas e Fatah, alimentata da Israele e dal suo alleato più importante, gli Stati Uniti.
Il recente caos potrebbe segnare l’inizio della fine dell’Autorità Palestinese. Questo potrebbe non essere uno sviluppo del tutto infelice per i palestinesi, considerati i programmi israelo-americani volti a renderla niente di più di un regime collaborazionista per sovraintendere al totale rifiuto di uno stato indipendente da parte di questi alleati.
Gli eventi di Gaza hanno avuto luogo in un contesto in via di evoluzione. Nel gennaio 2006, i palestinesi votarono in elezioni attentamente monitorate, giudicate libere ed eque dagli osservatori internazionali, nonostante gli sforzi statunitensi e israeliani di indirizzarle verso i loro favoriti, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas e il suo partito Fatah. Ma Hamas ottenne una vittoria sorprendente.
La punizione dei palestinesi per il reato di aver votato nel modo sbagliato è stata severa. Con il sostegno degli Stati Uniti, Israele ha intensificato la violenza a Gaza, ha trattenuto i fondi che era legalmente obbligato a trasferire all’Autorità Palestinese, ha rafforzato l’assedio e ha persino interrotto il flusso d’acqua verso l’arida Striscia di Gaza.
Gli Stati Uniti e Israele si sono assicurati che Hamas non avesse la possibilità di governare. Hanno respinto l’appello di Hamas per un cessate il fuoco a lungo termine in modo da consentire negoziati su una soluzione a due Stati, sulla falsariga di un consenso internazionale al quale Israele e Stati Uniti si oppongono, praticamente isolati, da più di 30 anni, con rare e temporanee variazioni.
Nel frattempo, Israele ha intensificato i suoi programmi di annessione, smembramento e accerchiamento dei cantoni palestinesi in Cisgiordania, che si stanno progressivamente riducendo, sempre con il sostegno degli Stati Uniti, nonostante occasionali lievi critiche, accompagnate da ammiccamenti e munifici finanziamenti.
C’è una procedura standard per rovesciare un governo indesiderato: armare l’esercito per prepararsi a un colpo di stato. Israele e il suo alleato statunitense hanno contribuito ad armare e addestrare Fatah a vincere con la forza ciò che ha perso alle urne, con un colpo di stato militare a Gaza.
Un resoconto dettagliato e documentato di David Rose su Vanity Fair è stato confermato da Norman Olsen, che è stato funzionario degli Affari Esteri per ventisei anni, di cui quattro nella striscia di Gaza e quattro nell’ambasciata USA a Tel Aviv, e poi è diventato coordinatore aggiunto dell’antiterrorismo presso il Dipartimento di Stato. Olsen e suo figlio hanno esaminato gli sforzi del Dipartimento di Stato per assicurarsi che il suo candidato, Mahmoud Abbas, vincesse le elezioni del gennaio 2006, e, nel caso questi tentativi non avessero avuto successo, per provocare un colpo di stato da parte dell’uomo forte di Al Fatah, Muhammad Dahlan. Ma “gli scagnozzi di Dahlan si sono mossi troppo presto”, scrivono gli Olsen, e uno sciopero preventivo di Hamas ha impedito il colpo di stato.
Gli Stati Uniti hanno anche incoraggiato Abbas ad accumulare il potere nelle proprie mani, un comportamento appropriato agli occhi dei sostenitori della dittatura presidenziale dell’amministrazione Bush.
La strategia è fallita, ma Israele e gli Stati Uniti si sono mossi rapidamente per volgere il risultato a loro vantaggio. Adesso hanno un pretesto per stringere la morsa sul popolo di Gaza.
“Perseverare con un simile approccio nelle circostanze attuali è davvero un genocidio e rischia di distruggere un’intera comunità palestinese che è parte integrante di una totalità etnica”, scrive lo studioso di diritto internazionale Richard Falk, relatore speciale dell’ONU per la questione israelo-palestinese.
Questo approccio è da perseguire, a meno che Hamas non soddisfi le tre condizioni imposte dalla “comunità internazionale” – un termine tecnico che si riferisce al governo degli Stati Uniti e a chiunque lo assecondi. Affinché i palestinesi possano sbirciare fuori dalle mura della loro prigione di Gaza, Hamas deve riconoscere Israele, rinunciare alla violenza e accettare gli accordi del passato, in particolare la Road Map del Quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione Europea e ONU).
L’ipocrisia è sorprendente. Ovviamente, gli Stati Uniti e Israele non riconoscono la Palestina né rinunciano alla violenza. Né accettano gli accordi passati. Pur accettando formalmente la Road Map, Israele ha aggiunto 14 riserve che la svuotano. Per citare solo la prima, Israele ha chiesto che affinché il processo possa iniziare e continuare, i palestinesi debbano garantire la massima tranquillità, l’educazione alla pace, la cessazione delle provocazioni, lo smantellamento di Hamas e di altre organizzazioni, e altre condizioni; e anche se riuscissero a soddisfare queste richieste praticamente impossibili, il governo israeliano ha proclamato che “la Roadmap non stabilirà che Israele deve cessare la violenza e le provocazioni contro i palestinesi”.
Il rifiuto della Road Map da parte di Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, è inaccettabile per l’immagine che l’Occidente ha di sé; per questo motivo è stato occultato. I fatti sono finalmente diventati di dominio generale con il libro di Jimmy Carter, Palestine: Peace not Apartheid, che ha suscitato un fiume di abusi e tentativi disperati di screditarlo, ma nessuna discussione di rivelazioni come queste, per quello che mi risulta.
Mentre ora è nella posizione di schiacciare Gaza, Israele può anche procedere, con il sostegno degli Stati Uniti, ad attuare i suoi piani in Cisgiordania, aspettandosi la tacita collaborazione dei leader di Fatah che saranno ricompensati per la loro capitolazione. Tra le altre misure, Israele ha iniziato a sbloccare i fondi – stimati in 600 milioni di dollari – che aveva illegalmente congelato in reazione alle elezioni del gennaio 2006.
L’ex primo ministro Tony Blair verrà ora in soccorso. Per l’analista politico libanese Rami Khouri, “nominare Tony Blair inviato speciale per la pace arabo-israeliana è qualcosa come nominare l’imperatore Nerone capo dei vigili del fuoco di Roma”. Blair è l’inviato del Quartetto solo di nome. L’amministrazione Bush ha subito chiarito che è l’inviato di Washington, con un mandato molto limitato. Il segretario di Stato Rice (e il presidente Bush) manterranno il controllo unilaterale sulle questioni importanti, mentre a Blair sarebbe consentito occuparsi solo dei problemi di costruzione istituzionale.
Per quanto riguarda le prospettive a breve termine, secondo il consenso internazionale, la soluzione migliore sarebbe una soluzione a due Stati. Ciò non è affatto impossibile. È sostenuto praticamente da tutto il mondo, compresa la maggioranza della popolazione statunitense. Ci siamo andati vicini, una volta, durante l’ultimo mese della presidenza di Bill Clinton: l’unico allontanamento significativo degli Stati Uniti dal rifiuto estremo negli ultimi 30 anni. Nel gennaio 2001, gli Stati Uniti hanno offerto il loro sostegno ai negoziati di Taba, in Egitto, che hanno quasi raggiunto un accordo prima di essere annullati dal primo ministro israeliano Ehud Barak.
Nella conferenza stampa finale i negoziatori di Taba hanno espresso la speranza che, se fosse stato permesso loro di proseguire il lavoro comune, si sarebbe potuto raggiungere un accordo. Gli anni successivi hanno visto molti orrori, ma la possibilità rimane. Lo scenario più probabile sembra purtroppo tendere al peggio, ma gli affari umani non sono prevedibili: troppo dipende dalla volontà e dalla scelta.