Interrogo le tue fotografie. Autobiografia poetica – di Annelisa Alleva
Ho cominciato a pubblicare le prime poesie su rivista nel 1983, ma parecchio più tardi, nel 1996, ne ho raccolte alcune in un volume[1]. Tante, la maggior parte, sono rimaste nel cassetto per anni.
Ho preso a scrivere poesie più regolarmente dopo la laurea, quando sono andata con una borsa di studio a Leningrado nell’anno accademico 1981-1982.
Ero stata anche a Praga nell’inverno 1978, e prima a Brno, in Moravia, nell’estate del ’78.
Il ricordo del periodo vissuto nella casa dello studente che si chiamava “Vetrník kolej” (“La girandola”, perché stava in alto, e vi tirava un vento forte), a Praga, è presente in «Una stanza per ogni due ragazze»:[2]
Una stanza per ogni due ragazze
nel lungo corridoio del collegio,
a Praga. La compagna dalla bocca
fulva di carota, che rientrava con
il solito cappello alto all’antica.
Libuše accanto, scoiattolo biondo
iscritto al terzo anno di filosofia.
Krisula, dalle vestaglie di raso,
che si comprò una coppia di piumini
prima di tornare a Alessandropoli.
Brigitte di Dresda al piano di sotto,
per la quale cucirono con l’oro
su un nastro le compagne i loro nomi,
e la posta per lei si accumulava,
senza che nessuno la prendesse. […]
Leningrado è presente nella sezione “Pietroburgo la pallida” all’interno della raccolta Istinto e spettri[3], per esempio qui:
Tornavi in collegio la sera
e la tua porta era chiusa.
Allora chiamavi: ”Valja!”,
affacciata sulla rampa delle scale.
“Arrivo!”, rispondeva la compagna,
interrotto il tè col figlio del rettore
della sua cittadina, e rombava giù,
sul grembiule lo scialle rosso dei capelli,
sui denti l’oro dell’ipocrisia,
fra consigli, chiacchiere e raccomandazioni
porgendoti la chiave. […]
Sulla riva del lago di Ohrid viene tirata in secco la barca descritta in questa poesia, tratta da Aria di cerimonia[4]:
Guizza come lenza impennata all’improvviso un lampo,
risuona sull’acciottolato della spiaggia un tuono,
tirato in secca a fatica. […]
In mezzo vi correva la lettura di tanta poesia russa attraverso una figura di professore poeta molto speciale: Angelo Maria Ripellino.
La mia poesia di quel periodo è visiva, concreta, e allo stesso tempo metaforica. Qualche volta non è un solo oggetto a rappresentare un sentimento, uno stato d’animo, ma una serie, che crea una scena interamente metaforica.
Così avviene in due poesie:
Nelle mie preghiere intravedi
il reticolato di una gabbia, e ti allontani
affidandomi al chiavistello dell’attesa.
Non capisci che quando sarà l’ora
sputeremo l’anima come un cucù.
L’orologio ci lascerà fuori dalla porta,
e non avremo più dove volare.[5]
Per sfuggire a questa pena
annodo strisce di lacrime
che lascio scivolare nella notte.
Aggrappata scendo anch’io
lungo le guance, dopo aver limato
col singhiozzo ciglia silenziose.
Ha due piccole finestre la mia cella,
due funi di pari lunghezza.
Per sfuggire a questa pena
orbite buie abbandono
nel cortile dell’aria.[6]
Ne L’oro ereditato:[7]
Dalla strada, la pioggia, sempre tornavo a te,
ma tu mi lasciavi alla porta.
Allora cominciai a pensare a un’altra casa.
Come la tua, però, doveva avere il ventre ampio,
con tante tasche, da poter contenere sigarette,
fogli, penna, soldi nella stessa giacca.
La biancheria, dall’antro aperto della bocca,
doveva essere stata da tempo ritirata,
e quella rimasta era ingiallita di fumo.
Avrei trovato altre poltrone morbide
sulle quali abbandonarmi di rado,
ma sempre dovevano essere più stanche
delle mie ginocchia. A un nuovo attaccapanni
avrei proteso le braccia, ma doveva essere alto
quanto basta a stendermi tutta, e saldo tanto
da resistere ai miei salti. Le finestre dovevano
guardare lontano, e restituire il cielo con l’azzurro.
Le tende pesanti. La luce sarebbe passata dalle mani,
dalla pelle trasparente. Così simile a te
doveva essere il mio amore, che ancora
una volta tornai a te, senza le chiavi.
Lo stato di prigionia è paragonato a un viso. È la sofferenza stessa a oggettivarsi e a fornire strumenti di evasione.
Un’altra:[8]
Ogni mattino i dubbi sul tuo amore.
S’aggrovigliano i vestiti stesi a sera.
Slabbrati invocano baci dalla sedia
ingannando l’attesa con un mimo.
L’adolescente è attore, ama interpretare più parti e qualche volta invertire i ruoli:[9]
Questa notte hanno montato il teatro
sotto le nostre finestre.
Io protestavo contro le voci.
Nel lenzuolo mi rivoltavo da spettro.
Poi mi sei apparso all’improvviso,
insinuandoti come un addetto.
Fra noi era il distacco della scena.
In vita amavi brillare
avvolto dalla penombra.
Io invocavo il riposo, tu la luce
artificiale della recitazione.
Anche oggi il tuo è il tempo dell’attore.
Oppure:[10]
Stanotte ho sognato
che mi chiamavi da New York.
Per un istante la situazione
si era capovolta: eri tu
che tremante mi cercavi
solo per sentire la mia voce. […]
Lo smarrimento amoroso è un gioco in cui si tenta di coinvolgere l’altro, o gli altri.
Ancora da L’oro ereditato:
[…] Col filo imbastivo
una maschera che ti piaceva.
E ora la tua fine da guitto, a Carnevale.[11]
Aspetta, ho ancora da dirti qualcosa,
ogni giorno mi viene in mente
un nuovo nome col quale firmarmi.
Oggi, ti prego, giochiamo a fare
tu lo zar Ivan, io il principe Kurbskij.
Tu avresti lo stile ampolloso e solenne
di Ivan, appreso dai testi sacri nell’infanzia,
io invece… io vorrei scriverti
come una moglie barbaramente imprigionata:
“Mio signore, mio tutto, Vi scongiuro…”,
ma questa volta ho deciso
di essere il fiero principe Andrej Kurbskij.[12]
M’incantava la sobrietà di quelle vetrine.
Di nascosto camminavo nelle sue scarpe enormi,
mi specchiavo in giacche abbondanti,
camicie dalle maniche rimboccate; […][13]
Non capisco perché la fatina
che ti prenota i biglietti d’aereo
nella sotterranea agenzia di un grattacielo
non sia capace di trasformarmi
in un oggetto tascabile, ridurmi
al punto da annullare la tariffa. […][14]
Le maschere sono libresche, derivano da esperienze di lettura. La Tat’jana puškiniana di Onegin, per esempio, non è solo una ragazza di provincia, sognatrice, ma anche un’eroina condizionata dalla lettura dei romanzi sentimentali dell’epoca. Leggendo si prepara all’incontro con Onegin. Allo stesso modo Anna Karenina (che in una delle prime versioni del romanzo si chiamava Tat’jana), dopo aver incontrato Vronskij s’immerge nella lettura di un romanzo, e Tolstoj accenna al fatto che, se non si fosse suicidata per amore, sarebbe potuta diventare una scrittrice.
Dietro le mie poesie è presente il romanzo, inteso come lettura di romanzi, elemento narrativo intrinseco alle mie poesie, e anche come avventura.
Nei versi che seguono, rievoco la vita della scrittrice cinquecentesca Isabella Morra:[15]
[…] Invocavi il padre, il suo cavallo o battello,
ma lui non ti rispose. Non accorse, non usò
da messo il polverone degli zoccoli ferrati.
Mai capisti che era lui il tuo Barbablù.
Come nella fiaba di Perrault, a te, Isabella
Morra, era proibito usare solo una chiave,
penetrare solo in una certa stanza,
pena: il sangue. Invece schiudesti l’amore.
Lei, nella fiaba, fu salvata dai fratelli;
tu in loro, dai nomi shakespeariani,
trovasti i tuoi guardiani efferati.
Puškin, nella vita, morrà a seguito di un duello nel 1837, ma aveva già descritto la morte per duello di Lenskij, personaggio antagonista di Onegin nel suo romanzo in versi Evgenij Onegin.
Tommaso Landolfi, che si era formato sui romanzi russi soprattutto dell’Ottocento, e sui poeti da lui tradotti, tendeva a emulare l’elemento romanzesco, modellandosi in vita, per esempio, sul giocatore dostoevskiano.
Immedesimazione nella lettura e innamoramento hanno in comune l’immaginazione, che trasfigura la realtà.
Ne L’oro ereditato:[16]
Qualche volta mi mostri il mattino
per richiuderlo sotto chiave
in uno scrigno polveroso.
Come un cieco, bendata, io cammino,
senza concedermi che uno sguardo sbieco.
La luce, quei denti da mastino.
Ancora:[17]
[…] Manicomi di chilometri, sugli occhi il velo
dell’esilio, le caviglie strette in ceppi.
Isolati dalla giovinezza e privati dei difetti
angeli eravamo, solo angeli.[…]
Nell’opera in versi e in prosa Marina Cvetaeva descrive l’amore sempre come un sentimento pervasivo, totalizzante. Sonečka Gollidej, protagonista de Il racconto su Sonečka, era una sua amica attrice. Sonečka, che teme di non vivere a lungo, è una giovane donna che ha più bisogno di amare che di essere amata, e lo riafferma continuamente. Marina Cvetaeva registra:[18]
«Amare, amare… Che cosa pensava quando diceva tutto il tempo così: amare, amare?… […] C’è amore – c’è vita, non c’è amore…».
Oppure:
«Ah, Marina, quanto amo – amare! Quanto amo follemente – amare io!»
In Marina Cvetaeva il bisogno di amare, come affermazione di se stessi e forma estrema di vitalismo, si sposa con il più astratto mito eroico dell’assenza, della distanza. Pubblica la sua prima raccolta, Album serale (1910), a diciotto anni. Fra i suoi miti romantici letterari di adolescente era la cosmopolita Marija Baškirceva, morta giovanissima di tubercolosi a Parigi, autrice del famoso Journal. Ispirata dalla sua poesia «Il discepolo», del 1921, scrissi la Lettera in forma di sonetto[19] un pomeriggio di ottobre del 1985. Ecco l’attacco di Marina Cvetaeva:[20]
Essere il tuo bambino dalla testa chiara,
– Oh, attraverso tutti i secoli! –
Dietro la tua porpora polverosa nell’austero
Mantello trascinarmi del discepolo.
La mia Lettera comincia così[21]:
Un mantello di tela grossa,
più grande di tante misure.
Io v’inciampo dentro per starti al passo,
e mentre mi rialzo già ti ho perso […]
Il senso metaforico della distanza, in questo caso distanza d’età, diventa distanza sociale, di casta, e ricrea per un istante l’antica civiltà egizia.
Ne L’oro ereditato[22]:
So che le diverse età sono chiuse fra loro
come le caste al tempo degli antichi egizi.
“Vi manca il patrimonio della memoria
nostra più remota”, sembra gridare un alto
dignitario, sbarrando la porta d’ingresso.
Ma, ecco, sento un passo trascinarsi
in biblioteca, diverso dagli altri, e due labbra
sbattere involontariamente; un vecchio
professore avanza curvo, con gli occhiali,
lo sguardo ottuso e sprezzante. […]
In questa poesia, dove il tempo ha ruolo di protagonista, la vecchiezza è intesa come decadimento fisico in contrapposizione con la giovinezza; la biblioteca è luogo d’incontro e scontro generazionale, e la negazione, l’impossibilità prende la forma di un’antica società rigidamente gerarchica; vi riecheggia l’atmosfera delle poesie di Costantino Kavafis.
Cito la conclusione di «Prima che il tempo li guastasse» di Kavafis:[23]
[…] Forse il destino
s’è rivelato artista, spaiandoli proprio adesso
prima che il fuoco si spegnesse che il Tempo li guastasse.
Immutabilmente saranno l’uno per l’altro
il bel ragazzo di ventiquattro anni.
In Aria di cerimonia:[24]
[…] Sei rassegnato al tempo, compratore
di fronte all’aumento della farina.
Ventinove anni, un anatema. L’età
dei fantasmi preferiti di Kavafis.
Ventinove. Sotto l’amido delle lenzuola
il materasso conta ventitré ombelichi.
La mia poesia rivendica in quel periodo la giovinezza e il voler permanere in essa come un diritto, che implica il rifiuto del mondo disincantato degli adulti.
Nella Lettera in forma di sonetto:[25]
[…] È vero? Dunque chi soffre
ascolta le pene del suo cuore, più tardi
quelle altrui, e chi parla ha la pelle
più dura del somaro? Il romantico
è bambino, l’adulto corazzato?
Dov’è la verità, dove l’artificio?
Devo scegliere subito che cos’è meglio,
o mi è ancora consentito di aspettare?
L’ossessione di rimescolare le carte attraverso il travestimento a un tratto riprende. Sono proprio le carte, le lettere di una corrispondenza, simbolo del ricordo, ad essere trasfigurate.
Ne L’oro ereditato:[26]
[…] Dove hai messo le mie lettere d’amore?
Hai ceduto alle fiamme quel colloquio?
Le hai distrutte, o dimenticate in un trasloco?
Hai voluto trasformare il mio rogo?
In nere farfalle i miei bianchi colombi?
Parla, anima, fai parlare le tue fotografie.
Oppure in Istinto e spettri:[27]
Mie lettere d’amore a te,
denti da latte, fiori di campo
dai petali leggeri senza gambo
còlti da mani inesperte e offerti,
che lasciavo, palpitanti, a te
aprire. Mie lettere d’amore a te,
mie come i capelli dei miei neonati,
come i loro orecchi segrete,
tue come parole da te scaturite,
che dal bicchiere lacerato tu bevevi.
Il sogno trasfigura l’altro dopo la morte. Ne L’oro ereditato:[28]
Al risveglio una voce, la mia, ripete:
«È morto, è morto». Vengo dal mondo
dove s’ignora la legge della fine,
dove la memoria s’inceppa come a un vecchio.
Il sogno avvolgeva, ora il freddo mi scopre.
Però non eri tu, perché non ponevi barriere.
Somigliavi a colui che il mio desiderio
ricreava a occhi aperti, nel distacco,
e che solo gli incubi mi restituivano vero.
In un altro sogno:[29]
Eri fra le madie bianche di cucina
dell’infanzia, dalle ante
sempre socchiuse, scricchiolanti,
coi bordi ingrigiti, il mattarello
dentro, e la bilancia di rame pesante,
stampella immobile di carne
che si lascia baciare sulle spalle.
«Quando ancora così amerò tutta»,
pensava la bambina in quell’istante.
Il tempo spadroneggia comunque, in vita e dopo.
Nella poesia «Specchio»:[30]
Padrone che conserva il fiore
in glicerina. Voglio acqua! Se te la dessi morresti prima.
Non m’importa, ho sete! La parete del vaso si farebbe scivolosa,
imputridiresti.
Voglio acqua e morire.
Fammi consumare.
Odio le celle frigorifere. (Silenzio).
In Chi varca questa porta e altre poesie[31] si rinnova il mito di Teseo e Arianna, completato dal seguito: il rapimento di Arianna a opera di Bacco:
[…] Mi avevi ingannato,
profittando della mia fiducia di fanciulla.
Di notte il rantolo del mare me lo ripeteva.
Ridevano di me le civette. Del vento
Non sopportavo più le carezze insistenti.
non sopportavo più le carezze insistenti.
Da Bacco mi lasciai rapire, e ogni voce,
ogni elemento riprese la sua compostezza.
Il rivolgersi all’ombra con domande serrate e il tentativo di stringerla si ispira alla poesia classica latina:[32]
Perché mi sei apparso in sogno?
Eppure nell’abbraccio non parevi
polvere, non stringevo un’ombra. […]
I termini di paragone diventano entrambi concreti, tangibili; si crea un’osmosi fra soggetti animati e inanimati. Nella sezione omonima di Istinto e spettri:[33]
[…] Le vene
sul viso come latte attraverso
il cacao che scotta.
Ne L’oro ereditato:[34]
Alba di giovedì. Il vaso ha zigomi di figlia.
Nonostante la vita quotidiana sia presente nella poesia di quel periodo, e io mi rifaccia alla concretezza, molto viva nella tradizione letteraria russa – da Puškin, assertore di chiarezza e precisione, fino a Anna Achmatova e a tutti gli acmeisti in genere, e oltre – la poesia per me non è atto quotidiano, ma evento. L’atto quotidiano è il diario, o il lavoro di traduzione. Per evento intendo qualcosa che capita di rado, che si stacca dalla vita di tutti i giorni, un miracolo che però non sarebbe possibile senza lo sfondo dell’esercizio quotidiano. Scrivere è un atto di distacco dal resto. Ho sempre paragonato la scrittura all’atto di calzare un guanto da sera, anche se nella realtà non l’ho mai calzato.
In questo periodo, gli anni Novanta, ho spesso davanti agli occhi quel quadro di Gustav Klimt dal titolo «Le tre età», che si trova alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, e che rappresenta la donna nelle tre fasi della vita. Torna spesso, in queste poesie, l’avverbio «ora»:[35]
Ora stiro,
il ferro non brucia.
Ora cucino,
la pentola non rimbrotta.
Ora taglio i capelli corti,
le forbici non pungono. […]
Oppure[36]:
È venuto il momento del rossetto,
dentro gli occhi cosa vuoi bistrare.
Pennellare di rosso il pallore.
Il passato non è più onirico, ma reale. Lo scolaro irruento:[37]
[…] Mesi, giorni, ore, sempre più gialle, scivolose, febbrili.
Irrompevo nelle tue stanze come uno scolaro.
diventa una reale compagna di scuola:[38]
[…] col suo nome di battesimo da maschio
al femminile, allora di moda,
entrare in classe sconvolta alla notizia
di Luigi Tenco suicida, la salivazione
abbondante, e il petto che le piange
sotto il grembiule. […]
La stessa poesia si conclude:
Oggi vedo dentro un vetro
il neo a rovescio di chi mi vede.
Mi avvicino, senza averne troppo timore, all’oggettività; mi vedo non più mascherata, trasfigurata, ma come gli altri mi vedono realmente.
In questa fase è possibile anche vedere e riconoscere l’altro in quanto altro da sé, e accettarlo così com’è. L’innamoramento è la soglia dell’amore. Viene finalmente varcata la soglia intesa come palcoscenico teatrale, sulla quale fanno la loro apparizione i personaggi – così come ce la descrive Michail Bachtin – o tenda dietro la quale eroine spiano le tirate degli eroi nei romanzi di Dostoevskij.
Il corredo dell’altro è il suo passato. In un certo senso è proprio questa diversità a renderlo amabile, perché comunque stabilisce una certa distanza, che però non è totale, abissale, ma parziale.
In una poesia ritorna il colore rosso, del sangue, delle prime poesie, simbolo di una passione rinnovata, e del fuoco. Nell’incendio da cui fuggiamo è accatastato il nostro passato, corredo a tratti angoscioso. La passione può nascere solo dal simbolico falò dei ricordi. Si ama l’altro nel momento in cui questi si autoimmola. Il sacrificio accomuna le sorti.
Ne L’oro:[39]
Le scarpe mi facevano male al mattino
e tu non avesti niente da obiettare
a portarmi da Rosati
con gli zoccoli rossi e il vestito della festa.
Un’altra volta mi volesti regalare
un rossetto rosso fuoco.
Adesso gli zoccoli sono riposti nell’armadio,
perché la vicina non ne ama il rumore,
e il rossetto è utile ai nostri figli
per il trucco di Carnevale.
A quel tempo misuravamo con il passo
la via Flaminia, mano nella mano.
Camminavamo in fretta,
come se stessimo fuggendo da un incendio
appiccato da noi stessi.
Il colore rosso è legato al tema amoroso.
Ne La lettera in forma di sonetto è il sangue di lei e la porpora di cui lui si ammanta:
[…] Dal rosso calamaio ho attinto
parole d’amore innocenti,
e poi te l’ho spedito, vuoto. […][40]
[…] Il mio mantello è austero,
vedo solo la tua porpora innanzi.
Anche se mi fa tossire la polvere
che solleva quando ti muovi,
come un’ala da tanto tempo non usata. […][41]
Nella raccolta Caratteri torna il sangue, che però è legato al tema del lutto:[42]
Davanti alla spiaggia di sassi di Nervi,
un giorno in cui il mare era tranquillo
strinsi forte il lembo inferiore del costume
intriso di sangue, e volli osservarlo
danzare opaco nell’acqua
resa lucente dal sale. Fu l’estremo
omaggio a mia madre, una purificazione
dopo il lutto. […]
Nel nuovo ciclo di poesie, Sogno chimico, scritto perlopiù fra il 2002 e il 2003, e che entrerà in parte nella raccolta La casa rotta[43], viene descritta la malattia. In queste poesie si può sentire l’influsso della poesia di Sylvia Plath, che tanto spesso identifica se stessa con la luna e le sue oscurità, e della bella raccolta La Fortezza d’Alvernia (1967) di Angelo Maria Ripellino, in cui è registrato il periodo di ricovero del poeta, affetto da tubercolosi, in un sanatorio boemo. Le poesie procedono col ritmo di un racconto diaristico, e sono popolate dai personaggi del sanatorio: malati, medici, infermiere, e i segni della vita di fuori, che si fa sentire. Qui è il giardiniere Mentzelius:[44]
Habet Islandia coloris ingentes ursos.
E noi avevamo il giardiniere Mentzelius,
basso, sferico, gli stivaloni alle orecchie nascoste dal basco,
Mentzelius che, intriso di birra dall’alba al tramonto,
batteva con passo guascone i sentieri.
Su stivali cavalca il turacciolo, il trollo rigonfio
dal basco sopra le orecchie, gli occhietti che saltano
come le pulci in un circo, s’aggruzza, sorseggia
la sua piccola vita di laido pagliaccio, il trascinabottiglie,
ma a casa possiede una Bibbia: muffita, vecchissima.
Anche nelle mie poesie appaiono nuovi personaggi: ricoverati, infermiere, il giardiniere:[45]
Entrano e escono dalla tua stanza
le scarpe bianche da fanciulla,
il nudo tallone di una, la penna
che sporge appuntata a una tasca,
la martingala della dottoressa,
la gala di una sottoveste che sporge
dal camice di un’inserviente.
La bottiglia a rovescio stilla una goccia
dopo l’altra, che rimbalza in un esercizio
di danza. Frinisce la sveglia dall’ottone
annerito, le auto vibrano
a destra e a sinistra sulla Cassia.
Riprendi il lamento sul tuo dolore,
rametto che oscilla, trampolino scosso.
Col cuscino diviso in due dal viso
hai preso il peso della farfalla.
Oppure:[46]
Lei non ricorda che anno sia questo,
ma quando sono nata.
Le passano il presente e glielo danno.
Non ricorda come già sua la stanza
con le nuvole azzurre alle pareti,
nessuna delle infermiere.
Un beauty case dalla fodera nera.
Le porto gli enigmi settimanali,
e quando scade il ricevimento
esco, saluto la centralinista
con le occhiaie, e in me è il sospetto
che anche lei si sia trovata un giorno
gli occhi scuciti, e poi abbia deciso
di fare da guardiana al vetro opaco,
lesta a sentire il richiamo della nocca,
a premere lo scatto,
a staccare il parente dal malato,
senza separarsi troppo dal letto
che offre soltanto il panorama
di nuvole serene, oblique
come raggi e come pioggia.
Nella sezione omonima de La casa rotta ricorre il tema di una casa occupata di prepotenza:[47]
La casa rotta è rotta, rotta,
come un moscerino vi fosse entrato
dentro, ma la porta era aperta,
e è rimasta a lungo aperta […]
che diventa desiderio di possesso inteso in senso più ampio, come forma di violenza esercitata sulla donna. Il tema della casa diventa denuncia femminile. Nelle poesie un super-io sprezzante, maschile, prende il posto di chi scrive e parla in prima persona. L’insensatezza della prepotenza trasforma gli oggetti di casa, in passato protettivi e rassicuranti, in strumenti d’imposizione autoritaria, che rende insufficiente, inadeguato il linguaggio corrente per la rappresentazione del mondo reale. Una disgregazione di certezze trasfigura la realtà e gli oggetti che ne fanno parte:[48]
[…] Se non firmi, non avrai niente.
Mi sono eletto a tuo tutore.
Ti ho tutelato da tutti i lati,
o, se vuoi, non mi sono importato.
Muovo io il contesto del tuo contestare.
Tu, del resto, eri nuda e propria.
E ora non calciare gli stivali
quando t’alzi dall’insonnia.
Sveglia, impugna la spada e alza
il braccio dei minuti dietro la schiena.
Marcia la mattina al rullo
della saracinesca. Stai sull’attenti!
Imita i libri stretti nei bottoni
dei titoli verticali.
L’elemento militaresco torna nel linguaggio, che viene deformato:[49]
Io devo scindere, certo, devo scinderer, ben detto.
Due fili alla posta, alla posta due fili.
Filobus, figli, filari, fistole, pustole, pistole, buste.
Io devo scindere dal busto.
Devo combattere contro chi mi vuole distruggerer
con la frusta.
Lui si sente il Padrino eterno e caduco
con il suo vocione impastato.
Lui parla con l’eco da rimbombo,
sempre dal fondo di una grotta
non guardata dal sole.
Führer all’occhiello di casa,
mi rimanda nel capanno del diario,
ma nel diario pulsa il momento.
Le minacce del super-io nominano il corpo, che ne resta smembrato. La violenza si trasforma pirotecnia verbale:[50]
[…] io ti sbudello, ti sgolo, ti spetto, ti spello,
ti scorporo, ti sfronto, ti sbocco, ti scollo,
ti sbraccio, ti spolmono, ti sfegato,
ti sgomito, ti spalmo, ti sgambo, ti scervello,
ti scapiglio, ti scoro, ti smento, ti spancio,
ti spiedo, ti scoscio, ti slabbro, ti sveno,
tiro la somma per la tua gola.
Il linguaggio impazzisce anche perché la super-voce è contraddittoria, allo stesso tempo conformista, fumettistica, burocratica e rivoluzionaria:[51]
[…] Lui telefona dallo Stato,
lui ti manda tante melettroniche in regalo,
lui te ne tira una fruttiera intera,
qui, status quo, qua, hic, et nunc,
viva Che Karenin, cioè, vero che, ecc. ecc., etciù.
«Che Karenin» è un ossimoro formato da «Che», il Che Guevara, eterna icona giovane rivoluzionaria, e il libresco Karenin, alto funzionario statale marito di Anna Karenina, tutto decenza e perbenismo, precocemente vecchio, per niente eroico, anche se in fondo nobile.
Nasce una riflessione sul tema del male, del delitto premeditato, che rimanda a I fratelli Karamazov:[52]
[…] L’unica che vuole è la cosa che non dice:
«Mitja ammazzerà il padre, Mitja».
Karamazov contro Karamazov,
sfrenatezza contro lo sfrenato,
rettile contro rettile,
patronimico contro patronimico,
come una Cassandra bastarda,
che devia lo sguardo e addita un altro nome.
Il tema del delitto non si lega solo al romanzo ottocentesco, ma rimanda anche a fatti attuali di cronaca nera, di cui Dostoevskij, ai suoi tempi, era un lettore appassionato. Tornano alla memoria episodi di sequestro di minori letti sul giornale:[53]
Per settantanove giorni lì, sotto
il salotto di casa Dutroux, Sabine
tracciava una x sul diario di scuola
quando lui la molestava a dodici anni.
«Merci, Monsieurs», disse a chi la liberava.
Condannato a una luce di madreperla,
simile a un’alba, che annuncia il giorno,
simile a una luna che ti guarda fissa,
simile a un’insonnia che non dà sonno,
lei ripete al paguro: «Ecco, ecco la mia faccia.
Io non sono, te nonostante, diventata matta».
E gli scaglia una manciata di x.
Le creature violentate sembrano salvarsi col distacco di una fredda, concisa, simbolica annotazione dei fatti. La riflessione sull’infanzia altrui diventa strumento di esplorazione e riesame anche della propria. Torna il ruolo salvifico della scrittura di un diario negli anni d’infanzia:[54]
[…] e lei scongiura ditemi che cosa ho
e loro guardano con aria sicura
la siringa che schizza contro l’aria
della finestra che si affaccia
su una piccola piazza i fratelli
di ritorno da scuola gettano
le cartelle sul copriletto con furia
e lei comincia a tenere un diario
di tela verde come i taxi che si allaccia
e disimpara a camminare
e il pediatra àlzati come a Lazzaro
dopo la neve senza giochi a maggio
La riflessione sull’infanzia è un riesame del rapporto col padre, visto in Mesi nell’idillio dell’infanzia:[55]
[…] Mio padre
tornava a casa a quest’ora, la guancia
ruvida e fredda come una grattugia.
Quando sentivo salire l’ascensore correvo
in vestaglia all’ingresso e mi nascondevo
dietro la porta del salotto, per saltargli
in braccio prima che annunciasse il suo arrivo
con un tintinnio di chiavi.
Durante l’adolescenza la sua figura diventa un impaccio:[56]
[…] Il terzo in prima fila da sinistra,
coi pantaloni corti come tutti,
accovacciato sui talloni, ginocchia
in bella vista, è Giovanni,
che un giorno, quando gli raccontai
che sarei andata al luna park,
domandò: «Con chi? Con tuo padre?»
Le fotografie seghettate come denti
nuovi divennero strumento di attacco
e di difesa. Fui costretta a sottrarmi
all’idillio del sorriso in prendisole
al fotografo con l’apparecchio che scatta
la mia con la sua luce, con il suo fuoco.
Torna il motivo della chiave, simbolo di proprietà:[57]
[…] Il genitore ha nascosto la chiave di ferro
a tre buchi della piccola stanza, fiore
dai petali forati, nella sua borsa da dottore,
insieme con gli strumenti per misurare
la pressione e auscultare il cuore
accuratamente ripiegati. Il peso
gli ha reso una spalla dell’altra più bassa.
In Dita di vetro la figura del padre, nella sezione «Domiciliari», non sarà più vista come presenza-ostacolo, ma come uomo anziano assorto nelle sue proprie anacronistiche nostalgie:[58]
[…] la tua voce non dispera ma è stupita
da questa ennesima estinzione
Venivo da te e tu non mi hai visto
troppo assorto a cercare oltre il vetro
i simulacri della tua vecchia utilitaria
Il tema della prigionia adolescenziale è inscindibile da quello della casa. Il desiderio avversato di chiudersi a chiave in camera per trovare una libertà e crearsi una propria individualità è legato anche al senso del peccato, all’obbligo della confessione religiosa, a tutto un insieme di precetti poi rifiutati. Anche il prete è un’autorità maschile e giudicante:[59]
La mia adolescenza non toccare.
Non toccare le confessioni al prete
di colpe non mie. Lui sbadato,
seduto, un orecchio, io in ginocchio.
Duepaternoster e quattroavemarie.
Lui al buio, io contro la grata,
maschera contro lo scoglio.
Avrei pregato per stare al posto suo.
Avevo dietro qualcun altro in fila,
– dal rosone penetrava la luce del mare –
che poteva distinguere il mio bisbiglio.
Non so parlare tanto piano io.
Lui ritratto nel buio della sua conchiglia.
In questo esasperarsi e confondersi della lingua materna esce fuori il russo, che con il suo senso di straniamento fornisce immaginarie formule magiche, fondate sull’assonanza di parole fra loro sconnesse, glossolalie. Qui il soggetto assume una voce corale, e grida:[60]
Sono un riccio-bomba.
Baba, borodà, bubù.
Jagà, Jago, yogurt,
babà, Belzebù.
Abbiamo altre lenti,
noi eterni adolescenti.
Non si tratta di diottrie,
né di miopie,
né di strabie,
né di presbiterie,
ma di occhiali spenti.
Noi stacchiamo le spine,
premiamo le perette,
costruiamo dighe
per fermare la corrente.
Baba, borodà, bubù.
Jagà, Jago, yogurt,
babà, Belzebù.
«Baba» è la contadina russa ma anche la donna sposata, e in questo caso si lega a «Jagà». Baba Jagà è la strega delle fiabe russe. «Borodà», significa barba.
Il teatro ritorna nella poesia finale de La casa rotta:[61]
Corrono verso il palco per l’ultima volta
prendendosi per mano con il sorriso in volto:
lei, Stella, le mani tornate ai polsi mostra
per intervento dell’Avvocata nostra,
e l’altra, la gelosa, perfida matrigna,
si sfila la corona – torna lucida castagna
senza riccio intorno, l’arrosto della penitenza –
e con questa il suo ruolo di plumbea eminenza.
Corrono, corrono avanti e indietro gli attori,
mentre applaudono caldamente gli spettatori
non l’antica storia, ma la sua fine liberatoria.
Daniele Piccini ha scritto: «Annelisa Alleva scrive poesia dall’interno di un incantamento o di un’ossessione. Le sue composizioni sembrano lucide trascrizioni oniriche, in cui sonno e veglia, realtà e visione, oggettivo e psichico si confondono».
Una poesia dal tema apertamente onirico:[62]
Sogno di essere a New York,
la città dei coniglietti, tanti,
a scattare sull’attenti di metallo
all’ingresso degli immensi magazzini.
Osservo davanti a un hotel
i passanti che scorrono il menu
a voce alta, qualcuno entra dentro.
Io resto fuori, contro il muro,
come fossi entrata nei panni
sporchi di un personaggio di Giovanna. […]
Se la sezione omonima, che dà il titolo a La casa rotta, è legata al motivo dell’ossessione, la sezione «Castellane», tradotta in inglese, ha a che fare con l’incantamento.
Entrambi gli stati d’animo generano metafore diffuse. Ecco una poesia-metafora tratta dalla sezione «Castellane»:[63]
Ritornare a casa
come non fosse il castello,
come non fosse il silenzio
con quel maledetto vento.
Come fosse una casa d’estate
nella quale si capita d’inverno,
coi cappelli di paglia all’ingresso,
i bastoni da passeggio, le tende fiorate.
Come se la strada dal cancello
non fosse di brillanti, ma solo di gelo.
Come se il daino che salta il recinto
nella sua grazia giovane e perfetta
potesse essere reale. Come potessi
correre gridando un nome
su per le scale larghe, poi strette, di legno.
Oppure:[64]
Lo specchio
sul camino della mia stanza
fissa all’alba il suo occhio
ovale, di daino, a distanza.
E anche:[65]
Quando risaliamo sulla macchina rossa
il sole tramonta, e non metto gli occhiali.
Il sole tramonta, tramonta il sole.
Giriamo e vediamo gli uccelli
agitare le ali d’oro attorno a un trattore
in mezzo a un campo d’oro.
Il cancello si apre e entriamo nel viale
dai grandi alberi secolari
col manto di muschio più lungo di loro.
Un gentleman tiene il cane
per il collare e sorride mentre passiamo.
Rosso, oro, verde, nero.
Oro, oro, oro.
I protagonisti della mia penultima raccolta poetica, Caratteri, sono tanti. Per caratteri s’intendono i personaggi, characters in inglese. Il titolo è dato dalla sezione «Caratteri», in cui dò voce in prima persona non più a un super-io aggressivo, ma a ragazze, donne incontrate anche per un momento in Russia, a scrittori classici come Tolstoj e Lermontov, a un falco vivo che va a posarsi sulla tomba di Tolstoj e infine a un cane, che fa parte di un gruppo scultoreo in bronzo a una fermata della metropolitana di Mosca.
La poesia dedicata alla fuga di Tolstoj:[66]
Leggevo i fratelli Karamazov
prima di lasciare di notte la mia casa.
Passai sul sentiero che corre fra i meli
e lasciai cadere chissà dove il cappello.
Makovickij, il dottore, me ne porse uno
di riserva, che teneva sempre con sé;
ordinai al cocchiere di attaccare i cavalli,
poi partii e non lo rividi più.
E quello si lasciò crescere la barba,
la gente lo trovava simile al padrone.
Lui ne andava maledettamente fiero.
Ero morto nella stanza del capostazione,
tornai a Jasnaja Poljana per i funerali.
E lui lì a fare il sosia, il pavone.
Dostoevskij, citato in un’altra poesia a proposito dell’uccisione del vecchio Karamazov, qui è riletto da Tolstoj in chiave mistica: Tolstoj nella sua fuga da casa coltivava infatti il progetto di rifugiarsi in un monastero.
Caratteri, tanti, vengono fuori dalla sezione «Epigrammi», per la quale mi ispiro agli epigrammi latini:
Mia moglie, mi dici, non deve sapere
che siamo stati al cinema insieme.
Ma lo sospetta, Entello, se ti ha cavato
i soldi dal sedere perché ci andassi solo.
Questa bugia la fai pagare a me.[67]
Traduci antichi epitaffi latini,
Timele, e stronchi i saggi sui giornali.
Più di tutto tu ami i funerali.[68]
Pisone, se ti scappa il frascatano
non sperare di trattenerti a Roma.[69]
Vesta, a chi nota la tua trasparenza:
«Macché! Nuda son peggio che vestita».
Sfili il velo con questo, e resti senza.[70]
Tu assomigli, Cesonia, al tuo Aiace.
Al saluto l’una e l’altro abbaia o tace.[71]
Altrettanti caratteri comprende la sezione «Haiku». Per esempio in «Homeless»:[72]
vomita vino
vomita vino rosso
«povero» dice
fa «bonjour, madame»
seduto su un gradino
siringa rossa
«OH FAME», ha scritto
sotto i portici
come a un’amante
soldi di rame
a terra nell’orina
non li toccare
in bocca al lupo
seduto su un canino
dice a chi passa
nella capanna
presso la basilica
la vecchia urla
L’incantamento invernale del castello, ispirato dal castello scozzese di Hawthornden, si trasforma nella Villa dei Pini a Bogliasco, in Liguria. La natura della costa ligure evoca le rocce ripide del paesaggio scozzese nei dintorni del castello, fra le quali scorre un fiume. I due luoghi, pur diversissimi, hanno in comune una certa segretezza piena di anfratti, che ne costituisce il fascino:[73]
Nervi, Bogliasco, Pieve, Sori, Recco.
Spuntava sempre più grande il promontorio,
e minaccioso, fino a Camogli,
dove, dal battello, potevi scorgere un monastero,
le case rade intorno coi panni stesi alle finestre.
Oltre la curva San Fruttuoso, Portofino, Paraggi,
Santa Margherita, che i locali chiamano Santa.
Davanti a Villa dei Pini lo scoglio del Cane,
mèta da sempre delle nuotate dei padroni.
Io non avrei avuto il coraggio d’immergermi,
neanche quello di guardare sotto con la maschera,
tanto era fitta la natura fuori: palme, cipressi, pini.
I gradini lasciavano immaginare in mare
una profondità repentina, un capofitto,
lo stesso precipizio del castello segreto, fra le spine,
che aveva ai piedi un fiume rossiccio.
Allo stesso modo in cui la sezione «Castellane» de La casa rotta si compone di una parte vissuta al presente e di una sul doveroso ritorno dall’incantamento alla realtà, così anche «Bogliasco», sezione di Caratteri, contempla uno sguardo immerso nel presente e uno distanziato e nostalgico. «Castellane» e «Bogliasco» descrivono soprattutto la difficoltà di tornare, rinunciando a un luogo-non luogo che ci ha visto felici.
Il rimpianto del luogo perduto in «Bogliasco» diventa riflessione sul tempo, sulla vita trascorsa:[74]
Procedevano di pari passo, legati
ma a distanza, sempre la stessa.
Lei lo seguiva confidando
nel suo cammino lento ma sicuro.
Poi un giorno lei si voltò indietro:
la tentava un tintinnio insistente,
ma la strada perlopiù era fatta.
Lui si voltava continuamente,
a controllare il suo rimpianto.
Erano ormai lontani entrambi,
non potevano sostare, né tornare
indietro, solo andare avanti.
Questa riflessione sul tempo si accompagna a una riflessione sullo spazio:[75]
Il mondo non è piccolo, come dice la gente,
ma infinitamente grande, e io non tendo
a rimpiccolirlo a mia misura, ma a volerlo grande.
In te come in poche altre creature è tutto racchiuso.
Tu stesso sei grande, un gigante.
In te spaesato amo il mondo, che anche tu ami.
Lui mi ha sempre salvato, in te è più grande.
Vagare nello spazio crea anche uno stato di perpetua nostalgia spaesante, che non ci fa sentire più a casa in nessun posto:[76]
La nostalgia è il peso di cui consiste,
il mare che lo nausea,
rende capace di resistere e mancare,
possiede come scrigno la chiave,
circonda come toga leggera,
fortifica e estenua.
Il tappeto della sua voce
quando scende e si posa.
Ma ci dà anche un senso di libertà poter passare da una lingua all’altra, come fuggissimo da una nostra identità troppo precisa:[77]
Poter passare da una lingua all’altra è come
avere carro, cocchio, cammello, camion,
ognuno con il suo autista, sotto casa tua,
ad aspettarti nella sua kefiah, scoppola, o parrucca.
E poi moribondo metterti a letto poliglotta.
Libero di tutti i luoghi comuni, dei come si deve.
Libero di prendere posto, di montare in groppa,
di sederti a cassetta e di filartela via
senza un arrivederci, un auf Wiedersehen.
Alla sovrapposizione di io e super-io ne La casa rotta segue in Caratteri l’invocazione di un dio benevolo e accessibile:[78]
Dio, liberami dall’odore stantio degli antenati,
se non le notti, dammi il giorno,
assumi fra i miei più cari un nome.
Se non pietà, un po’ di bonarietà.
Dio non barbuto, non accigliato,
senza gesti imperiosi nelle mani,
senza rimproveri, rifiuti,
Dio giovane e non canuto, sofferto
ma non in croce, non in cielo ma alto,
scendi ancora un po’ per avvicinarti a me.
Con la raccolta Caratteri cerco una lingua nuova, sempre più nitida, al fine di descrivere una condizione che perde gradualmente i connotati del racconto autobiografico per diventare semplicemente condizione umana.
Questo processo continua nell’ultima raccolta, Dita di vetro, pubblicata col testo a fronte in inglese.
Scritta in tempo di covid, la raccolta risente dell’importanza del corpo, delle precauzioni-restrizioni che a tutti venivano imposte, della precarietà del vivere. Come Caratteri, contiene al suo interno anche brevi prose: alcune antiche, risalenti a tanti anni fa, altre scritte in contemporanea col libro. Come Caratteri ha una sezione dedicata ai sogni, che qui, in Dita di vetro, s’intitola «Per strade avventurose». Gli argomenti non sono separati per genere – «Epigrammi», «Haiku», «Sogni» – ma uniti dall’argomento del tempo, e dalla transitorietà dell’esistere. In questa nuova raccolta sono assenti i segni di punteggiatura, a eccezione della maiuscola all’inizio di alcuni versi, che sottintendono una pausa, un punto.
La raccolta comincia con la sezione «Il corpo», un corpo che necessita di cure e che viene esaminato in modo molto ravvicinato:[79]
Conosco il suo petto
Ha un aspetto infiammato
come guance di fanciulla
e piccole irregolarità della pelle […]
Dal corpo si passa alle strade oniriche, e poi a «Le belle statuine», il gioco in cui ci si deve immobilizzare all’improvviso, com’è successo in tempo di pandemia. Le statuine sono viste in uno spazio più grande, nello spazio cittadino ora deserto ma che le ricorda:[80]
I ragazzi cinesi ballavano il tango ad alto volume
in un passaggio cieco davanti al Viminale
dove ormai non passa più nessuno
ma resta sempre acceso il neon
Parlo spesso del rione romano dell’Esquilino, in cui abito, che raccoglie abitanti e homeless di tante etnie, e anche animali, uccelli emigrati da lontano e nostrani:[81]
Un piccione pizzica un pezzo
di pizza rossa rovesciato
sul marmo spezzato del mosaico
La città conserva le sue abitudini, ma inutilmente:[82]
[…] si accendono verticali le insegne degli hotel
ma sulla strada non c’è traccia di cliente
Viene riportata la lingua italiana da chi la parla con difficoltà, perché viene da lontano,
e diventa protagonista del racconto, ma questa volta senza prepotenza:[83]
Io mai detto mia figlia questo no fare
Una volta voluto fare tatuaggio di anello
sul dito e io dire per prima volta questo no fai
Lei avuto paura questo no fatto
Mai io detto no prima
Man mano che il libro procede, la poesia diventa sempre più racconto, e la distanza fra poesia e brevi prose si accorcia:
D’estate una sera in cortile una voce roca
e matura con un accento marcato del sud
diceva al telefono quando sei tornato da me
tu però non mi hai detto che mi amavi[84]
Si erano conosciuti sotto lo stesso tetto a Londra
da una signora che dava le stanze in affitto […][85]
La casa, come luogo di tragedie segrete e private, resta importante, ma protagonisti ne sono gli altri.
Questo saggio, col titolo Qualcosa sull’oro, qui modificato, ampliato e aggiornato, è già apparso sul sito www.lietocolle.com, poi stampato sulla rivista «Ulisse», n.1, 2003, e tradotto in inglese col titolo Something about Gold sulla rivista online «Cardinal Points» nel giugno 2011.
Note:
[1] Annelisa Alleva, Mesi, Galleria Centofiorini, Civitanova Marche 1996, con dodici disegni di Ruggero Savinio.
[2] A.A., da «Una stanza per ogni due ragazze», Aria di cerimonia, Centofiorini, Civitanova 2000, con quattro acqueforti di Ruggero Savinio, p.27.
[3] A.A., da «Tornavi in collegio la sera», Istinto e spettri, Jaca Book, Milano 2003, p.46.
[4] A.A., da «Guizza come lenza impennata all’improvviso un lampo», Aria di cerimonia, p.23.
[5] A.A., «Nelle mie preghiere intravedi», L’oro ereditato, Il Labirinto, Roma 2001, con 2 gouache in copertina e sul retro di Titina Maselli, p.31.
[6] A.A., «Per sfuggire a questa pena», Istinto e spettri, p.20.
[7] A.A., «Dalla strada, la pioggia, sempre tornavo a te», L’oro ereditato, p.23.
[8] A.A., da «Ogni mattino i dubbi sul tuo amore», Istinto e spettri, p.16.
[9]A.A., «Questa notte hanno montato il teatro», Istinto e spettri, p.125.
[10]A.A., da «Stanotte ho sognato», L’oro ereditato, p.13.
[11]A.A., da «Tu eri per me Giuseppe Gatti», L’oro ereditato, p.56.
[12]A.A., «Aspetta, ho ancora da dirti qualcosa», L’oro ereditato, p.20.
[13] A.A., da «M’incantava la sobrietà di quelle vetrine», L’oro ereditato, p.48.
[14] A.A., da «Non capisco perché la fatina», L’oro ereditato, p.28.
[15] A.A., da «È arrivata la signora, ma la chiave», Astri e sassi, Atelier Arte, Matera 1999, p. 20.
[16] A.A., «Qualche volta mi mostri il mattino», L’oro ereditato, p. 26.
[17]A.A., da «Ma la tua specialità erano gli angeli», L’oro ereditato, p. 53.
[18] Il racconto di Marina Cvetaeva è stato pubblicato come Sonečka, Adelphi, Milano 2019, nella traduzione di Luciana Montagnani e a cura di Serena Vitale. La traduzione di questo e del brano seguente è mia.
[19] A.A., Lettera in forma di sonetto, Il Labirinto, Roma 1998, con quattro disegni di Bruno Ceccobelli.
[20]M.Cvetaeva, Qui è troppo qui, ne «Lo Straniero», anno XIX, n. 178, aprile 2015, p.80, traduzione di Annelisa Alleva.
[21] A.A., Lettera in forma di sonetto, strofa I, p.9.
[22] A.A., da «So che le diverse età sono chiuse fra loro», L’oro ereditato, p.24.
[23] C.Kavafis, da “Prima che il tempo li guastasse”, in Cinquantacinque poesie, Einaudi, Torino 1968, p. 123, traduzione di Margherita Dalmàti e Nelo Risi.
[24] A.A., da «È passato tanto tempo da quando io», Aria di cerimonia, p. 24.
[25] A.A., da Lettera in forma di sonetto, strofa XII, p. 22.
[26] A.A., da «Interrogo le tue fotografie», L’oro ereditato, p. 70.
[27] A.A., «Mie lettere d’amore a te», Istinto e spettri, p. 120.
[28] A.A., «Al risveglio una voce, la mia, ripete:», L’oro ereditato, p.76.
[29] A.A., «Eri fra le madie bianche di cucina», L’oro ereditato, p. 25.
[30]A.A., da «Specchio», Istinto e spettri, pp.22-24.
[31]A.A., da «Per resistere alla solitudine di Nasso», Chi varca questa porta e altre poesie, Il Bulino, Roma 1998, p.18.
[32]A.A., da «Perché mi sei apparso in sonno?», Chi varca questa porta e altre poesie, p.19.
[33] A.A., da «Lo specchio ti calma, seduto sul comò», Istinto e spettri, p.66.
[34] A.A., da «Chissà se ho assecondato il destino», L’oro ereditato, p.102.
[35]A.A., da «Ora stiro», L’oro ereditato, p.95.
[36]A.A., «È venuto il momento del rossetto», L’oro ereditato, p.91.
[37] A.A., da «Tu del tuo tempo volevi disporre da padrone», L’oro ereditato, p.68.
[38] A.A., da «Chissà se ho assecondato il destino», L’oro ereditato, p.102.
[39] A.A., «Le scarpe mi facevano male al mattino», L’oro ereditato, p.99.
[40] A.A., da L’oro ereditato, strofa V, p.14.
[41] A.A., da L’oro ereditato, strofa VII, p.16.
[42] A.A., da «Davanti alla spiaggia di sassi di Nervi», nella sezione «Bogliasco» di Caratteri, Passigli, Firenze 2018, p.21.
[43] A.A., La casa rotta, Jaca Book, Milano 2010.
[44] A.M.Ripellino, La fortezza d’Alvernia, Rizzoli, Milano 1967, p.19.
[45] A.A., «Entrano e escono dalla tua stanza», La casa rotta, p.22.
[46] A.A., «Lei non ricorda che anno sia questo», La casa rotta, p.32.
[47] A.A., da «La casa rotta è rotta, rotta», La casa rotta, p.38.
[48] A.A., da «Lo so, la serenità, la serenità», La casa rotta, p.67-68.
[49] A.A., da «La cuspide della A a mano», La casa rotta, p.60.
[50] A.A., da «Qualcuno non mi vuole bene», La casa rotta, p.56-57.
[51] A.A., da «L’ossessione si sfoga e non si sfoga», La casa rotta, p.59.
[52] A.A., «Smerdjakov, servo illegittimo», La casa rotta, p.41.
[53] A.A., «L’amore deviato è il senso della caccia», La casa rotta, p.66.
[54] A.A., «All’alba ti compare Iosif», La casa rotta, p.46.
[55] A.A., da “Novembre”, Mesi, p.22.
[56] A.A., da «Io rido, sì, sorrido», La casa rotta, p.50.
[57] A.A., da «Ho una porta dentro il corpo», La casa rotta, p.44.
[58] A.A., da “a mio padre”, Dita di vetro, Aragno editore, Torino 2023, p.161.
[59] A.A., «La mia adolescenza non toccare», La casa rotta, p.62.
[60] A.A., «Sono un riccio-bomba», La casa rotta, p.81.
[61] A.A., «Corrono verso il palco per l’ultima volta», La casa rotta, p.82.
[62] A.A., da «Qualcuno non mi vuole bene», La casa rotta, pp.56-57.
[63] A.A., «Ritornare a casa», La casa rotta, p.90.
[64] A.A., «Lo specchio», La casa rotta, p.91.
[65] A.A., «Quando risaliamo sulla macchina rossa», La casa rotta, p.88.
[66] A.A., «Leggevo i fratelli Karamazov», Caratteri, p.68.
[67] A.A., Caratteri, p.94.
[68] A.A., Caratteri, p.95.
[69] A.A., Caratteri, p.96.
[70] A.A., Caratteri, p.97.
[71] A.A., Caratteri, p.97.
[72] A.A., Caratteri, p.115.
[73] A.A., «Nervi, Bogliasco, Pieve, Sori, Recco», Caratteri, p.18.
[74] A.A., «Procedevano di pari passo, legati», Caratteri, p.15.
[75] A.A., «Il mondo non è piccolo, come dice la gente», Caratteri, p.21.
[76] A.A., «La nostalgia è il peso di cui consiste», Caratteri, p.13.
[77]A.A., «Poter passare da una lingua all’altra è come», Caratteri, p.17.
[78] A.A., «Dio, liberami dall’odore stantio degli antenati», Caratteri, p.24.
[79] A.A., da «Freddo dentro», Dita di vetro, p.35.
[80] A.A., I ragazzi cinesi», Dita di vetro, « p.87.
[81] A.A., «Altro piccione», Dita di vetro, p.99.
[82] A.A., da «Autunno a Via Torino», Dita di vetro, p.109.
[83] A.A., da «Ming», Dita di vetro, p.132-137.
[84] A.A., da «La terrazza interna», Dita di vetro, p.83.
[85] A.A., da «a una room mate», Dita di vetro, p.151.
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Annelisa Alleva è nata a Roma, dove vive. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Mesi, Chi varca questa porta e altre poesie, Lettera in forma di sonetto, Astri e sassi, Aria di cerimonia, L’oro ereditato, Istinto e spettri, La casa rotta, Nai-zust’/A memoria, uscita in italiano e in russo a San Pietroburgo nel 2016, Caratteri (Firenze, 2018) e Dita di vetro, Aragno Editore, Torino 2023. Ha tenuto molte letture in Italia e all’estero. Sue poesie sono presenti in antologia e tradotte in diverse lingue. Ha tradotto classici dal russo e curato un’antologia di poeti russi contemporanei. Di recente è uscito il volume di liriche di A. Puškin a sua cura: Poesie d’amore e epigrammi,Tomsk 2018, su iniziativa del Parco letterario di Puškin a Michajlovskoe, con cinque dipinti di Ruggero Savinio. Ha pubblicato la raccolta di saggi e ricordi: Lo spettacolo della memoria. Ha vinto il Premio Lerici Pea, il Premio Russia Italia, il Premio Sandro Penna, il Premio Bella Achmadulina, Premio Viareggio Giuria.
Immagine di copertina: Gustav Klimt, Le tre età della donna, 1905.