Poesie di Francesco Nappo e Clio Pizzingrilli
FRANCESCO NAPPO
A CLAUDIO *
“parlar cantando, non cantar parlando”
un altro Claudio disse
*
Nei laschi silvani un riparo
è il diradare degli alberi.
Il quieto mancarsi protegge e
promette l’aperto alle fratte.
Sopra quel monte vicino ad Ascoli
avevi ospizio di tavelle e
tavolame, secondo il ricordo
che del passato in noi si compie al modo
che il volto d’un altro smemora,
misericorde, il nome suo e delle
cose per cui il suo vivere fu uno
ed indimenticabile per noi.
E con Francesca vidi il Tronto che
annotta tra sue ripe ascolane
balenare per le frasche declivi.
Era lo stesso fiume che avevo
nominato, bambino, alla colonia
adriatica presso San Benedetto,
ma non lo sapevo e non lo dissi
a Francesca quando parlai al telefono
con lei che stava lontano da me,
a Napoli, in quella lunga sera
del nostro amorevole patire.
**
Quello che tu consegni, anche a chi resta
sordo al tuo bilenco poetare
di mesta e gaia apocalisse,
ribelle solitudine filiale,
quasi accecante discernimento,
è ciò per cui mi sei tra i giusti
umiliata ed offesa vittoria.
Mentre per acque estuarie le imagini
degli alberi al vento della foce si
confondono, giunge il respiro salso
dell’onde reduci del mare,
a salvamento di perdute cose.
Confido non abbia altro nitore
l’imaginare mio di sé liberto,
di nulla per figure allegoria,
ch’ultimo suoni e giovevole sia.
Accettalo come offerente dono
che allo straniero ospite d’eguale
sorte mortale e gloria incognita
solo può offrire l’ospite più povero,
colui che accoglie nella sua dimora,
che sia modesta o magnificente,
benevolente e pia pur sempre.
***
Ti sia conforto l’arcade dolore
della mia infanzia, vela che strapoggia
alla riviera intatta dallo sguardo,
pace e luce di arresi pensieri,
meditare ideale e sensibile,
dacchè il perdono precede il giudizio
pur se mai lo rifugge per superbia,
Dio concedendo a noi, a noi che siamo
veste del corpo suo intangibile,
inapparente sé nell’apparire
che schiude scevra di morte l’anima
come la sera l’amor del glicine sui muri.
****
Posso lasciarti il dove non il quando
mi fu salute la parola giunta
per specchi d’un lùcere paràclito:
del supremo filare l’uva vaia
al sol postremo sui terrazzamenti
che folgorando andava per le viti
in aspèrgine di folgori purpuree
alla vangata terra bruna intrise,
m’è grato il novellare e lieto.
E, verbi gratia, ancora confessando:
in me parlò diurno quel boschivo
padule di risorgenze, estasi ria
del Bussento svenato in brade luci
dove incestiva il querceto tra
le sodaglie d’annegati fiori,
questo ancora ti voglio narrare
mito triste al cuore che intende.
* Claudio è il nome completo di Clio Pizzingrilli. Il Claudio che si nomina nell’epigrafe è Claudio Monteverdi.
***
CLIO PIZZINGRILLI – DA PENSIERO CRUDO
d’un tratto è apparso uno la cui apparsione tra noi era i
mpensata non sto adesso a precisare da qual lato
apparì anche se la precisazione gioverebbe a determinar
e di che formato fosse tempra
al momento invece più urgente è avanzare
che l’impensato corridore ha occhi internati come il gu
ardo di Klee che dele cose indaga il drento più che il fuori
e sensa cuore è ’l corpo né ombra sua figura aduggia
quando infatti accosto l’orecchio al petto posi
non ascoltai sbattimenti né di cardiaco fervore i sentimenti
quegli è dalla periferia dell’impé rialì zzamènto
una rimanenza un umano secondario un robespierrolâtre
ancora sempre in apparsione
viene ora qui imprevisto qual seguitatore di rivoluzione
sicché fececisi ’ncontro e oscuramente
d’un’acqua ci discorse di durata etterna
un’acqua ai uomini straniera che da’ profondi
traesi affondamenti la qual più fa non venir
ogn’altra sete
questo è il mio parnasetto – il nullum-alibi della rivoluz
ïone, la vampa ingiuriosa del rogo che Lenìn appiccò,
quandoche dalla grande uerra snudò il proletariato a
rovesciamento dello stato e dei padroni – e che felicità
che intelletto d’amore viene da quella sovversïone e tra
vasa nei mie’ vasi e si mescola a mie arie e penètra ne’
secreti mie’ pertusi e sabòta ogni vita solitaria e monta
appetiti immemorati se non che tutto omai è scorso ma
unqua requie m’ave e priego che nel’età a venire udire po
ssi il mondo un altro empito d’incendî e di rivolte che fia
materia a nuovo vivere e soavissimi parlari et ingegnosi
inchiostri e disputate stanze e beatissime testure ammèn
al’ora che mi vennero a carcerare io languiv
a a terra in un laberinto di tormenti per le m
olte patite ingiurie ché subito cadei in loro
forze e quei senza meno m’incepparno men
andomi a carcerazione e già prigioniero di
miei prigionatori mi sopravenne la santa i
cona d’un garzone analfabeto di nome prop
rio Alëša ma chiamato cuccumella e che pre
gava a gesti e un giorno scivolò dala tettoia
mentre esseguiva l’incombenza di spalare la
neve e dopo poco morse e io apparecchiato g
ià a partir per la prigione io non mi partiva e
’l guardo o ver la mente aguzzava per ogni p
arte a cercar di una poesia che maravigliato a
veva un giorno di lontano appreso ma che pe
rò non mi veniva in seno e io l’addomandava
ma nessunamente essa mi arrispondeva e io m
i lamentava ma solo la mia voce si riproducev
a imperciocché i’ m’attacei e seguitamente m
’ammorzai e lasso grandini pel struggimento
stillai dagl’occhi da tanto grave smarrimento
immobile come un soprammobile stava una catta
ianca dinanti a un dumo in estesissimo dumeto
lì beato buono si pose a passare e venne a agguatalla
ma la catta non gli badò nessunamente incantata
a spettare avanti che l’oggetto uscisse di ricetto
frattanto molti dei fiori che prima non s’erano apriti
ora schiudevan le corolle e apparirô assaissimi colori
che il in magno bello morto der Reiter Macke più ha
saputo doppiare nel candente campo di Champagne
poi il sole s’è spostato a mezzo il cielo ed è venuto caldo
e dal’erba saglie un umidore che dai piedi del camminatore
s’effondeva sino al viso traverso tutto il corpo e beato buono
si strinse nele spalle al pensiero d’un’isoletta amena e leta
poi il sole s’è posato sopra la violata milizia dei monti
le erbe s’aveano accoperte di bistro e l’aque ingrigite
del torrente e de’ più brevi rivi e lì beato buono riprese
la via di casa e passando davanti al dumo vide la catta
immobile come soprammobile la catta ianca dinanti
inanti al dumo a vigilar l’oggetto a farlo catto
or che qui discorro vosco mi chiedo
che faccia stiate vedendo voi altri mei collocutori
però che non raccordo qual mi sia faccia
in passato non me l’ebbi mai chieduto
il chiedimento m’era affatto sconosciuto
già che m’ero conficcato non potersi avere faccia altra
altra nessuna per stanziarsi in questo mondo
il mondo ero io e lui conosceva me soltanto
quale suo beato e buono guardatore
tuttutti erano quanti erano soggetti overo oggetti
parti di mondo in attesa di mio conoscimento
compresi la mia fattrice e il mio fattore
compresa la mia druda compresi la penna
et il pennello con cui scrivo e pingo
compreso meus amicus ch’è nei cieli
or invece che discorro vosco mi vorrei
essere Briareo figlio di Urano e Gea
ekatoncheires e di cinquanta teste fatto
e di cambiarne una a inanti a ogni locutore
e con le cento mani lavar le macchie
e farmi mondi il corpo e l’alma e ’l core
o cancellare incerta lor disegnatura
ehi tu l’ombre m’ingombrano gl’interni alberghi né
mai se ne disgombrano libente torrei d’appresentar
mi in cielo e più migrar per piagge ostili ove vuotar
del’aque acri i rivi ma ’desso posso fermare il moto
e volgermi a quei in cui mi cogito ’desso che di lon
tano sono appena pena visibile e da presso nulla di
me si scorge ehi tu vorresti spingermi verso quell’a
mmasso di rottami mi basta una piccola spinta poi m
e la vedo io ehi tu correvo a perdifiato a ’bbracciarla
m’era ormai a due passi e finalmente l’ho ’bbraccia
ta essa però non una parola non un gesto frattanto s’
era smutata in torace d’alboro allora senti mi faresti
un po’ di posto qui drento questo tronco qual fossi d
riade me faceres remigrare almeno durante questo in
verno soltanto non c’è risposta ai mie’ omei non è il
caso d’insistere devo riprendere a dare albergo agl’e
mpii signoreggiatori a mormorare in eremitico ricetto
a mai fornir amare lasse ad aspreggiar quale Timone
il mondo ehi tu precipitàmi giù sotto come masso da
l’alte cime fin al’affonda valle tal ch’i’ possa a termi
ne di suo precipitamento scancellare mia assembranz
a e subita aver semblanza di Lieo è a dire il liberatore
Renato delle Carte afferma che qualora uno scritto
re concepisca un pensiero certo ed evidente eo ips
o cura cura di non esporlo senza l’envilupper de plusieu
rs obscurités* già che indubbiamente teme espone
ndolo in maniera semplice che la sua dignità possa
esserne inficiata così si legge nella Règle III conten
uta in una aspreggiata d’orgoglio raccolta di regole
per la direzione dello spirito e la ricerca della verità
*sensa di che la specie dei glossatori si sarebbe estinta
immagine: A. Macke, Zoologischer Garten, 1912