L’OLTRE DELL’INCOMPIUTEZZA- di Alvise Marin

L’OLTRE DELL’INCOMPIUTEZZA- di Alvise Marin

7 Ottobre 2024 Off di Mario Pezzella

1.

L’incompiutezza è l’attributo del divenire di un processo, non di una sostanza, di ciò che è in movimento, non di ciò che è in stasi, dell’essere temporale dell’esser-ci (Da-sein) non dell’essere nella sua verità (aletheia) che lo rischiara, è il fermo immagine in una sequenza di Muybridge, che continua virtualmente a scorrere anche dopo, è ciò che cristallizza in un punto spazio temporale, la corrente continua di ciò che accade. L’incompiutezza permette di ricominciare sempre daccapo, lasciando un margine in-compiuto, che apre al circolo ermeneutico, che da questo resto, retroagisce, ri-fondando e ri-creando ciò che, ad ogni passaggio, si ritrova sempre uguale e allo stesso tempo sempre diverso. L’eterno ritorno della differenza che, in un movimento d’impossibile saturazione dell’orizzonte semantico, approssima tangenzialmente quest’ultimo, lasciando sempre dopo di sé i segni di una semiosi infinita. L’incompiutezza non è un arresto, ma un ricominciamento che rilancia, attraverso la reversibilità del tempo, il divenire delle cose e con esso, la loro innocenza e impermanenza. Il resto infinito che l’arte, nella sua strutturale incompiutezza, custodisce, è ciò che alimenta tanto la falsa infinitezza di un’oscillazione che chiude l’alternativa ermeneutica in un circolo vizioso, quanto l’apertura che rende disponibile l’improbabile accadimento di un evento che, spezzando la coazione circolare, impone un decentramento al processo, secondo un movimento eccentrico, dapprima ellittico e via via, spostandosi anche lungo la terza dimensione, spiraliforme.

Ciò che è incompiuto è eterno, in quanto l’incompiutezza ne custodisce il mistero, conservandolo come parte di un Tutto, che in sé mantiene la protensione verso il suo compimento. L’incompiuto ha di fronte a sé un tempo infinito, quello che ancora gli rimane per l’impossibile suo divenire tale. Come frammento, esso necessita di un’archeologia che scavi nel futuro dell’opera incompiuta, per tracciarne una storia volutamente mai accaduta. Una storia latente, dis-velando la quale, il frammento si compone e-staticamente in una figura, che nella sua istantanea fuggevolezza, dà la misura dell’insostenibilità della visione dell’illimité. L’incompiuto rimanda al di là del suo orizzonte, facendosi custode di un’ulteriorità che rimane tale perché entrambi, appartengono a quello «spazio originario del senso, Um-greifende, che consente alle cose di essere e di sussistere secondo un significato» (Galimberti, 1977). In questo senso la presa (Be-griff), di ogni significato è parziale e sempre esposta al suo superamento che la rende cifra aperta all’evocazione dell’Um-greifende, nell’oltre. La stessa verità balugina quindi nell’oltrepassamento immanente dell’incompiuto, svanendo però all’istante, una volta che un nuovo significato l’abbia trattenuta e dis-velata, ovvero portata alla luce dal suo nascondimeneto (a-letheia), perché la verità non può essere fissata, ma solo e-vocata. Da questo punto di vista ogni arte non può mai concludere, perché sempre aperta alla verità, che nel suo darsi nascondendosi, accenna a un’ulteriorità, che non possiede mai un orizzonte ultimo.

L’incompiutezza dell’opera d’arte è anche accettazione del limite della finitezza, la quale allo stesso tempo, nel rispetto e nella custodia del Tutto, è anche trascendimento immanente che apre a tutti i possibili. L’opera d’arte incompiuta è erratica, è come un sentiero che, interrompendosi, svia (Chiodi, 1968) e in questo sviamento percorre altri sentieri, tutti diversi e tutti ugualmente tesi ad annodare il finito con l’infinito, rimandando sempre a un oltre. Un oltre che non diventa mai la meta, se è vero che, come la stessa filosofia insegna, si «può solo indicare il terminus a quo, o direzioni, sentieri, percorsi. Non mete, né terminus ad quem» (Veca, 2011).

Ogni opera è sempre incompiuta nella misura in cui convoca lo spettatore a completarla secondo il suo singolare punto di osservazione. Ogni opera di fronte allo sguardo dell’Altro, sfonda la sua incompiutezza, allargando il suo orizzonte semantico in molteplici direzioni che risultano altrettante garanzie di libertà. Il non-finito dell’opera, lascia ancora tempo al caos per completarla, ovvero per distruggerla e rigenerarla, come vedremo attraverso il modus operandi dell’artista tedesco Anselm Kiefer. L’incompiutezza è incompletezza, è lasciare vuota una casella come nel gioco del 15, affinché si dia il circolo ermeneutico che fa ruotare i significanti. Saturare lo spazio dell’opera senza lasciare un vuoto, significa decretarne la morte, laddove è proprio il taglio che ad esempio in Fontana la vivifica e la rende aperta.

L’incompiutezza dell’opera d’arte è talvolta necessaria a esprimere l’inesprimibile, come nel caso dell’ultima opera incompiuta di Michelangelo, la Pietà Rondanini, che nelle forme marmoree non ancora perfettamente modellate, lascia trasparire una fragilità nel Cristo e un dolore nella madre, che superfici perfettamente levigate trattenerebbero in sé per l’eccessiva bellezza, laddove è invece la scabrosità e l’informità di alcune superfici dell’opera, i lineamenti incompiuti dei corpi e dei volti, che ne trasmettono con più intensità i sentimenti delle due sacre figure.

 

2.

L’uomo è strutturale apertura allo «spazio originario del senso» nella sua infinitezza, ragion per cui «il significato di tutte le cose del mondo è racchiuso nell’uomo stesso», ma allo stesso tempo, non essendo il suo orizzonte di vita infinito, «tutte le cose e tutto nel mondo è incompiuto, per l’uomo» (Dostoevskij, 1994). La vita dell’uomo si ferma sempre per strada, non raggiunge mai un’ultima meta, in quanto la finitezza del tempo che gli è dato da vivere e la metonimia propria del desiderio, che ne sposta sempre avanti ogni possibile compimento, fanno si che egli non si dia se non come in- compimento. La morte funziona in lui come un polarizzatore, che curva l’illusoria linea della sua vita, secondo una polarizzazione in apparenza circolare, «Una delle mie grandi angosce – diceva Reb Aghim – fu quella di vedere, senza poterla fermare, che la mia vita si arrotondava per formare un anello», ma in realtà ellittica, perché il ritorno verso la propria origine, comporta sempre una diffrazione eccentrica, «Quando il cerchio gira, […] la sua identità a sé riceve una impercettibile differenza che ci permette di uscire efficacemente, rigorosamente, cioè discretamente, dalla chiusura» (Derrida, 1982), come aveva ben inteso anche Eliot: «Non smetteremo di esplorare, alla fine di tutto il nostro andare, ritorneremo al punto di partenza, per conoscerlo per la prima volta» (Eliot , 2000). Al termine del tempo che ci è dato vivere, torneremo nel luogo dove è cominciata la nostra vita, ma non lo riconosceremo, perché il tempo nel mentre, ci avrà reso immemori e pure perché la conoscenza, sia essa reminiscenza come nel mito platonico della metempsicosi, oppure declinata al futuro anteriore come in Lacan, è sempre après-coup.

 

L’uomo non può avere esperienza diretta della propria morte, ma solo di quella dell’altro, perciò non può farne esperienza in prima persona, ma solo per interposta persona. Sarà per questo che illusoriamente «spesso all’uomo sembra che la vita duri eterna, e invece svanisce come neve e lascia molte cose incompiute» (Kenkō, 2016)? Oppure, seguendo Heidegger, accade quando egli fa suo il modo inautentico di morire, quello che, appartenendo all’anonimia del Si, ovvero a nessuno, se da un lato permette all’angoscia di trasformarsi nella più tranquillizzante paura, dall’altro però porta a mancare l’appuntamento con la propria morte, non essendosi assunta la possibilità di essere più propria dell’esser-ci, quella del suo essere-per-la-morte, morte alla quale l’esser-ci si trova esposto fin da quando gli accade di esser-gettato nella vita? La paura, alimentando per opposizione la speranza, conduce a posticipare di continuo, anzichè ad anticipare, l’assunzione dell’essere-per-la-morte, creando quell’illusione di una vita che non finisca mai, responsabile dell’incompiutezza di molte delle cose intraprese. Viceversa, l’angoscia davanti alla morte, che è angoscia «davanti al poter-essere più proprio, incondizionato e insuperabile […] e che non dev’essere confusa con la paura davanti al decesso, […] in quanto situazione emotiva fondamentale dell’Esserci, costituisce l’apertura dell’Esserci al suo esistere come esser-gettato per la propria fine», l’anticipazione della cui assunzione rende la nostra morte un evento unico e irripetibile, vera pietra angolare attraverso la quale traguardare la stessa nostra vita, restituendole singolarità e autenticità. Del resto noi siamo già da sempre la nostra morte in quanto autentica modalità esistenziale: «La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. “L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire”» (Heidegger, 1978).

L’esser-ci è caratterizzato esso stesso dall’incompiutezza e dalla mancanza, visto che il suo essere si dà temporalmente, facendone un ente storicamente de-terminato e finito, cosa che denota la non-eternità della sua vita. L’assunzione della sua singolare finitezza, come assunzione anticipata dell’invariante esistenziale del suo essere-per-la-morte, permette però all’esser-ci di trascendere la sua stessa incompiutezza, come ente che a differenza degli altri enti che in-sistono all’interno dell’orizzonte ontico del mondo, ec-siste ed ec-sistendo rimane aperto al suo trascendimento in seno alla compiutezza ontologica dell’essere.

 

Il passato non è mai passato e non lo si ritrova mai uguale nel tempo, ogni volta che riandiamo con la memoria ad esso. La luce che lo cattura facendolo emergere retrospettivamente dalle tenebre della memoria, lo rischiara di volta in volta con una tonalità cromatico affettiva diversa. Ed è il presente che fornisce al passato le sue tonalità, in funzione di un futuro che ha da venire. A partire dal presente il futuro è il passato che sarà. L’annodamento dei tre tempora irrigidendosi e allentandosi, chiude e apre il diaframma sul reale, in un movimento di sistole e diastole dell’anima, che corrisponde a quell’intermittenza sulla quale si fonda il valore delle nostre vite.

 

3.

La cifra dell’essere umano è l’incompiutezza, in quanto incompiuta è la sua stessa origine, che è posta sotto il segno della prematurazione: «si è chiamato l’uomo, come in effetti è, un parto prematuro. Egli viene al mondo più indifeso e incompiuto di qualsiasi altro animale, ha bisogno di un tempo molto più lungo per giungere alla maturità ed è per giunta minacciato anche da se stesso. Barcolla e commette errori che un animale giovane, nel suo habitat naturale, non commette mai […] Ma all’animale in fase di crescita viene anche molto presto imposto un arresto […] Gli animali ripetono necessariamente lo sperimentato modello di fabbricazione del loro corpo e della loro vita, per questo essi sono così caratterizzati, ma anche così vincolati nel loro essere. Gli uomini possono essere vincolati solo approssimativamente a questi elementi di fissità […] È una gran cosa che noi uomini si sia nati incompiuti non solo come bambini ma anche come specie» (Bloch, 2007).

All’origine incompiuta del cucciolo d’uomo viene in soccorso l’accudimento materno, che si protrae ben oltre quello degli altri primati, portando con sé il rischio di assorbire l’infante in un abbraccio che potrebbe rivelarsi esiziale, laddove questa sensazione di sicurezza e beatitudine infinita, non venisse spezzata dalla castrazione simbolica, che come Legge del Padre, sospinge il bambino a elaborare gli artefatti mentali e materiali con i quali sopperire alla sua incompiutezza. Nessun artefatto umano sarebbe mai stato possibile se non in presenza della mancanza strutturale che rende l’essere umano un disadattato, un senza ambiente, che è obbligato a costruirsene uno di artificiale, per poter sopravvivere. L’uomo è un essere strutturalmente de-ficiente, affetto da quella  manchevolezza che lo porta a essere sempre fuori di sé,  per rimanere in contatto con sé. Egli è il primo ad essere estraneo a se stesso, nella misura in cui è abitato intimamente da un’estraneità inconscia, da un’esteriorità opaca che supera ogni possibilità di padronanza e trasparenza, da una  estimità, come la chiama Jacques Lacan. Tutto quello che fabbrica, lo fa in vista della sopravvivenza individuale e collettiva, ma in maniera più decisiva e grazie alla struttura autopoietica del linguaggio, per ri-trovare allucinatoriamente, in ciò che realizza, le coordinate del soddisfacimento originario del suo desiderio rimosso e inconscio, a partire dal quale si fondano la civiltà e il suo Ego.

Ma l’incompiutezza dell’essere umano è figlia della stessa incompletezza del grande Altro, che non disponendo di un Altro dell’Altro che lo giustifichi, rimane abitato da una mancanza significante, da un buco, che si riverbera nel soggetto, la cui significantizzazione lascia un resto, che potremmo assimilare a un buco nella rete significante, al cui interno il soggetto stesso trova i significanti con i quali identificarsi, buco che occupa il suo centro, tant’è che l’uomo lo si potrebbe chiamare Lochmensch o hominis lacuna.

 

4.

Nel campo dell’espressione artistica contemporanea, le opere dello ieratico artista tedesco Anselm Kiefer, testimoniano dell’incompiutezza di ogni sua creazione, sempre colta da Kiefer in anticipo sul suo compimento, inumata e resa partecipe di quella ruota cosmica, all’interno della quale si compie l’eterno processo di creazione e distruzione della materia. Egli sottopone le sue opere a torsioni, combustioni, cancellazioni, distruzioni e stratificazioni che coagulano simboli e memorie del passato, attraverso l’azione creativa del presente che chiama a sé il futuro della sua distruzione. Nella fedele convinzione che «l’autodistruzione sia sempre stata la finalità più intima e più sublime dell’arte […] ma che qualunque forza abbia l’attacco, e quand’anche giunga fino all’estremo, l’arte sopravvivrà alle sue rovine” (Kiefer, 2018). Prospettiva cosmica, quella dell’artista tedesco, con il suo convocare gli elementi naturali a partecipare alla trasformazione delle sue opere, lasciate per anni nei container, messe in una vasca di elettrolisi, seppellite sottoterra, collocate all’aperto ed esposte alle intemperie, per poi essere esibite: “Mi affido alla natura, non perché porti a una redenzione, ma perché mi aiuti a completare il quadro” (Kiefer, 2018). Completamento avvicinato e differito, secondo un perenne ritorno dell’uguale che genera differenza, nel quale l’essere e il nulla si scambiano vicendevolmente e sincronicamente le parti.

Kiefer ama la poesia, il mito, che sia classico o nordico, la cabala, l’alchimia, la filosofia, l’astronomia, la religione che profonde in ogni sua opera, incastonata sempre in un momento della storia umana e cosmica.

Le opere di Kiefer vedono la luce a partire dalla loro distruzione, ovvero, più precisamente, nel momento della loro creazione esse contengono già in sé la loro distruzione, la quale ne è anche la loro rinascita, il che impedisce loro di giungere a un compimento de-finitivo, rimanendo perennemente e inesorabilmente in fieri. L’artista lavora tra cumuli di macerie, nella convinzione che quest’ultime «siano come il fiore di una pianta; siano l’apice radioso di un’incessante metabolismo, l’inizio di una rinascita» (Kiefer, 2024). La sua arte chiaroscurale lascia filtrare quel tanto di luce utile a fendere l’aria nella fessura di una rovina, facendo tralucere, per un istante, la immediatamente dileguantesi verità dell’essere delle cose (aletheia).

 

Se uno degli assunti filosofici di Andrea Emo era l’ontologica co-appartenenza di essere e nulla, Anselm Kiefer ha riconosciuto in questo pensiero la cifra della sua poetica artistica. Ancora nelle sue lezioni al Collège de France, prima di conoscere gli scritti del filosofo veneto, scriveva: «La realizzazione di un quadro è un costante avanti-e-indietro tra il nulla e qualcosa. Un’incessante oscillazione da uno stato all’altro» (Kiefer, 2018). Qui essere e nulla non sono due stati distinti che si succedano diacronicamente secondo un movimento che dal nulla conduca all’essere dell’opera finita, in quanto la loro oscillazione è un vero e proprio annodamento, tale da renderli sincronici e in fondo identici. L’essere e il nulla coincidono, sfumando istantaneamente l’uno nell’altro, come la luce filtra dalle tenebre delle rovine. In un’intervista su Art Tribune, Kiefer afferma che «in Andrea Emo non c’è una simile cronologia; l’essere è sempre la presenza del nulla stesso. Il nulla non è presente se non come essere. Andrea Emo dice che “l’essere e il nulla si trasformano nel momento. Uno si trasforma costantemente e ritmicamente nell’altro. Possono solo sembrare di esistere in una condizione di prima e di dopo”»1.

Nell’oscillazione sincronica tra essere e nulla, la diade creazione/distruzione, porta alla luce le opere, le quali assumono sempre nuove forme, in sé mai finite. Kiefer è un alchimista che sta dentro al processo poietico dell’arte, trasmutando di continuo forme e materiali, e il suo scopo “non è il quadro finito ma il movimento, il flusso costante, il cambiamento perpetuo” (Kiefer, 2022). Il suo principio creativo è iconoclastico, distrugge immagini per creare nuove immagini, è distruzione creativa o creazione distruttiva, prendendo a prestito le due coppie di ossimori con le quali Joseph Schumpeter descriveva il modus operandi del capitalismo. La scala di Giacobbe, viene utilizzata dall’artista per esprimere la sua idea di arte: “L’arte compie continuamente fughe in avanti e passi indietro, sale e scende la scala di Giacobbe dell’evoluzione e quando la fortuna le arride allora le capita di raggiungere abissi insondabili” (Kiefer, 2018).

La ricerca archeologica che Anselm Kiefer compie dentro di sé, si estroflette in archeo-opere, che convocano nel tempora presente, quello passato e futuro, nella consapevolezza della loro co-appartenenza e del loro reciproco ri-chiamo: «Tempo presente e tempo passato/sono forse entrambi presenti/nel tempo futuro e il tempo futuro/è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo/è eternamente presente/tutto il tempo è irredimibile» (Eliot, 2000). Dalla tragicità della condizione umana non c’è mai né riscatto né redenzione, ma solo una pena e una «pratica infinita, che nell’artista si traduce nell’abnegazione della possibilità di un approdo definitivo. Il fallimento è sempre incombente, ed è la cognizione dell’incompletezza e della manchevolezza dell’essere umano»2. Un fallimento, che come mutamento, si fa motore della sua arte, nella tensione sempre rinnovata e sempre destinata a fallire verso la chef-d’ouvre: «è un processo continuo: i dipinti ritornano sempre in studio e ci lavoro nuovamente. Per questo ho bisogno del fallimento, in continuazione, questo è tutto un fallimento, per continuare a portare avanti questo processo, in ciò che avete definito macerie, io vedo lo spirito. E l’artista nel lavorare fa si che questo spirito si manifesti» (Kiefer, 2024).

Nell’ultima mostra di Anselm Kiefer, il cui titolo Angeli caduti, ne è anche il filo conduttore, c’è una sala, una delle più grandi del palazzo, occupata dall’installazione immersiva Verstrahlte Bilder (Dipinti irradiati, 1983-2023), composta da una singolare raccolta di sessanta dipinti che riempiono completamente le pareti e il soffitto. I «dipinti irradiati», sono stati collocati in un’apposita camera dall’artista per venire distrutti, scarificati e scoloriti da radiazioni al plutonio. La loro matericità manipolata, trasmutata, esplosa, dà conto del potere ctonio della sua arte, che si approssima a quello della natura, attraverso una distruzione creativa sempre pregna di nuove forme generate, distrutte e rigenerate: «La vera ebbrezza del fare arte, per Kiefer, non sta tanto nel costruire qualcosa, ma nel mettere insieme un processo di costruzione, distruzione e ricostruzione senza fine […] L’ebbrezza del distruggere per tendere verso il nulla. Il nulla, per Kiefer, non è il luogo di partenza della creazione: non c’è una sua opera che non affondi le sue ragioni in un riferimento culturale, storico o storico-artistico. Poi, inizia il viaggio verso il nulla. Il vero compimento dell’opera, per Kiefer, è quando essa si dissolve e non finisce appesa ad una parete»3. Al centro del pavimento della sala, è disposto un enorme specchio rettangolare, nel quale si riflettono i dipinti delle altre superfici. Si tratta della casella vuota, quella che permette a quest’ultimi di richiamarsi e rimandarsi l’un l’altro, coinvolgendo lo spettatore in una combinatoria materica, che dallo squadernamento della stanza, collassa nello specchio, come in un buco nero.

Assecondando o anticipando il divenire delle cose Kiefer, come un artefice che dalla sua fucina atelier, giochi con apparente innocenza con la materia di cui sono fatti gli affetti, i dolori, le tragedie e le speranze degli uomini, traguarda le miserie umane sullo sfondo dell’universo, con una lente che mette a fuoco nell’anima di ognuno noi, l’inermità e l’incompiutezza della vita umana, le quali si declinano nella «condizione di imperfezione esistenziale che tormenta questo grande artista»4.

Se nonostante la sua consapevolezza che nessuna creazione artistica potrà mai assumere il carattere dell’eterno, Kiefer scrive che “l’arte sopravviverà alle sue rovine”, è perché quello che risulta eterno è lo sforzo per produrla, ovvero per crearla e distruggerla. La storia per Kiefer si compone di una serie di catastrofi, con le quali l’uomo si deve confrontare per potersi riscattare e giungere a una catarsi sempre di là da realizzarsi. Le estroflessioni creative dell’artista sono artefatti che custodiscono le ritenzioni mnestiche profonde di un’umanità dolente, che vanno riportate alla luce del sole, nella direzione del quale rivolgersi, come fanno i girasoli. La sua arte rimane un’arte incompiuta, non finita, mai finita, perché infinito è il movimento di approssimazione all’irrappresentabile, a quel Kakon che nell’incandescenza del Reale non può mai essere tematizzato ma solo evocato, attraverso quello scarto irriducibile, che è ciò che rende il suo processo artistico inesorabilmente in-compiuto.

 

5.

La vita è sempre incompiuta in quanto eternamente in fieri. La caducità sta inscritta in tutte le cose viventi e non viventi, come in questo secondo caso testimoniano tanto l’orizzonte dei ruderi dei templi greci o delle città romane sepolte dalla lava, quanto quello delle grandi cattedrali gotiche segnate dalle ingiurie del tempo o degli scheletri di palazzi moderni abbandonati.

La materia si rivolta continuamente su se stessa e nulla si compie, ma tutto si fa e si disfa, per poi differendo rifarsi. La compiutezza insospettiva Jaspers, che scriveva «ogni edificio troppo compiuto risulta sospetto», pensando alla mancanza di fondamento di ogni cosa e alla metafisica bara che lo voleva trovare occultandone l’origine. Se qualcosa di vero esiste nella vita, esso non si attinge attraverso l’adaequatio rei et intellectus, ma rimanendo per via. La verità non è posta alla fine, ma nel mentre, non si coglie come un risultato, ma come un processo, restando dentro quest’ultimo, per coglierne istantanei lacerti. La verità, laddove si voglia prendersene cura, non và stritolata tra le asfittiche mura di un concetto, ma lasciata libera di apparire e scomparire nel tempo, in attesa dell’istante opportuno (kairos), nel quale coglierla e lasciarla andare.

Jankélévitch, dal canto suo scriveva che la vita di un uomo è completa solo agli occhi di coloro che rimangono; il singolo, che diparte, rinuncia a conoscere la parola fine della sua esistenza. Ma l’incompiutezza è anche un lascito a chi viene dopo di noi, a quell’altro che porterà su di sé la fatticità del passato sulle ali in esso costruite per continuare a volare in direzione del futuro.

 

Note

1 https://www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2022/04/intervista-anselm-kiefer-mostra-venezia-

andrea-emo/

2  https://www.exibart.com/arte-contemporanea/anselm-kiefer-per-unarte-al-di-la-del-bene-e-del-male-intervista-a-

vincenzo-trione/

3 ibid.

4 ibid.

5 Intervista ad Anselm Kiefer per la mostra Angeli Caduti, Firenze Palazzo Strozzi 2024, https://www.youtube.com/

watch?v=vJ3GqhUATzk&t=74s

 

Bibliografia

Bloch E., Dialettica e speranza, Franco Angeli, Milano 2007

Chiodi P., Introduzione a Martin Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968

Derrida J., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1982

Dostoevskij F., dal quaderno di appunti per il secondo libro dei Karamàzov; citato in Dostoevskij F., I fratelli Karamàzov, introduzione di Igor Sibaldi, Mondadori, Milano 1994

Eliot T.S., Quattro quartetti, Feltrinelli, Milano 2000

Galimberti U., Linguaggio e civiltà, Mursia, Milano 1977

Heidegger M., Essere e tempo, UTET, Torino 1978

Kenkō Y., Ore d’ozio, SE, Milano 2016

Kiefer A., L’arte sopravviverà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano 2018

id., Lettera a Gabriella Belli in catalogo mostra Anselm Kiefer, Questi scritti, quando saranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce, Palazzo Ducale Venezia, Marsilio, Venezia 2022

Veca S., L’idea di incompletezza. Quattro lezioni, Feltrinelli, Milano 2011