Il lavoro morto dell’identità – di Stefano Rota

Il lavoro morto dell’identità – di Stefano Rota

20 Ottobre 2024 Off di Francesco Biagi

 

Non, non je ne suit pas où vous me guettez, mais ici d’où je vous regarde en rient.”

M. Foucault, L’archéologie du savoir

 

“Vita che produce la vita”: così Marx, come ricorda Sandro Mezzadra, definisce il concetto di lavoro nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Si tratta di una definizione importante per introdurre quello che si pretende argomentare qui e come in minima parte già fatto in passato: la centralità della vita nella sua interezza come ambito di produzione e di sfruttamento e la funzione che vi svolge l’identità.

È un concetto che sta alla base dell’elaborazione teorica foucaultiana sulla biopolitica, sui rapporti di potere che si articolano non sulla vita, ma “al livello della vita”, sulle dinamiche che conducono all’auto-assoggettamento. Pierre Macherey lo riprende e lo espone in Il soggetto produttivo. Da Foucault a Marx. Parlando delle “istituzioni di assoggettamento” nella società industriale, Macherey dice che queste hanno, per Foucault, un duplice ruolo, quello di “estrazione-segregazione-sfruttamento e di inclusione-formazione-adattamento”. Per meglio descrivere questo passaggio, il filosofo riprende le stesse parole di Foucault: “la prima funzione [dell’assoggettamento] era quella di sottrarre il tempo, facendo sì che il tempo degli uomini, il tempo della loro vita si trasformasse in tempo di lavoro. La seconda funzione consiste nel far sì che il corpo degli uomini divenga forza lavoro. La funzione di trasformazione dei corpi in forza lavoro corrisponde alla trasformazione del tempo in tempo di lavoro” (corsivo mio).

Sulla base di queste osservazioni relative a corpo e tempo, si intende proporre l’identità come il prodotto finito del processo costitutivo del soggetto, come un “effetto di potere” con una specifica funzione rappresentativa. Questa consente al soggetto di “parlare” e al tempo stesso di “essere parlato”, nel suo rapporto con le norme e le istituzioni che rendono riconoscibili e vivibili quelle stesse norme.

Ed è ancora sulla stessa funzione di corpo e tempo che si crea nel soggetto – sempre secondo Macherey – una “seconda natura […] che non sarebbe ‘naturale’, […] ma prodotta, creata, costruita da zero […]”. Istituendo questa seconda natura, il potere delle norme “si connota per la capacità esorbitante di cui dispone al fine di produrre ciò a cui si applica, cioè i soggetti produttivi il cui assoggettamento assume di conseguenza l’aspetto di un autoassoggettamento”.

Mi sembra si possa sostenere che esista un legame tra l’identità e quella seconda natura “costruita da zero”. Il sistema veridizionale che la interpella secondo logiche confessionali appartenenti tanto all’ambito religioso quanto a quello penale fa sì che l’identità si strutturi attorno alla domanda “dimostrami chi sei, a cosa sei disponibile”, come punto di articolazione tra soggetti e norme. In questo senso l’identità assume la funzione di una rappresentazione di sé, mettendo in gioco un’alterità prodotta all’interno delle norme, da cui trae e allo stesso tempo dona visibilità e “veridicità”. Questa relazione a doppio mandato consente di definire l’identità come “lavoro morto” nel processo produttivo del soggetto, una posizione che trova nella cooperazione il suo punto di forza e la propria condizione di possibilità.

Per arrivare a dare un senso compiuto a questa che costituisce l’ipotesi di base di quanto viene qui presentato, è necessario percorrere la terminologia marxiana per identificare corrispondenze tra i termini più usati e più conosciuti di Marx nella sua interpretazione e descrizione del processo produttivo capitalistico, da un lato, e gli elementi che punteggiano il processo di produzione del soggetto e quindi la forma di rappresentazione racchiusa nell’identità, dall’altro.

Uso come punto di partenza la definizione di capitale costante, con cui si intende “la massa dei mezzi di produzione” usati nel processo produttivo. Trattando qui di un processo che ha come fine la produzione del soggetto non riferito a un ambito specifico (fabbrica, scuola, ospedale, carcere, ecc.), si intende associare al capitale costante l’insieme delle norme che, nella loro estensione verticale e orizzontale, definiscono il perimetro al cui interno si produce il soggetto. Come ogni altro capitale costante, anche questo richiede un elevato investimento, che si struttura in fome diverse. Sono quelle che definiscono il sapere nella sua articolazione sinergica in ambiti differenti, le architetture che lo rendono visibile e vivibile, le formazioni politiche e sociali che lo trasformano in regimi di verità.

Sull’altro versante, possiamo identificare il capitale variabile con l’individuo nella sua accezione più ampia, colui che, sempre secondo il lessico marxiano, è in possesso di un bene inalienabile. Se nel processo di produzione capitalistica questo bene è dato dalla forza lavoro di cui egli dispone, qui possiamo definirlo come il proprio corpo e la propria vita. Si tratta di un bene composto da una vastità di elementi che interagiscono con i diversi ambiti che le norme producono, nutrono e da cui traggono legittimità. Su questa base si può intendere la produzione del soggetto né come un blocco unico, né come qualcosa che avviene una volta per tutte. Questo ha delle implicazioni di notevole importanza per la funzione dell’identità.

Norme, quindi, come dispositivo di governo che si estende dal sapere all’etica, all’economia, alla “società civile”, alla vita sessuale, a quella medicalizzata, a quella folle, esclusa o reclusa. Norme come capitale costante di una produzione, in cui il capitale variabile è dato da individui che mettono a disposizione il bene inalienabile di cui dispongono in quanto viventi.

L’individuo che ha posto la vita al servizio delle norme diviene oggetto delle tecniche di governo che producono assoggettamento e, contemporaneamente e su quella stessa base, diviene soggetto, con caratteristiche che dipendono dal rapporto (di potere) tra i due enti. Riprendendo la terminologia marxiana che descrive questo passaggio, si può associarlo alla trasformazione della forza lavoro in forza produttiva. Il corpo e la vita dell’individuo, nel momento in cui questo diviene oggetto/soggetto delle norme, cessano di avere la funzione che possedevano e assumono una forza che si fa produttiva e quindi produttrice di qualcosa che l’individuo singolo non può produrre, che non gli appartiene. È una forza che trascende il singolo e che trova la propria ragione d’essere nella combinazione delle vite e dei corpi che cooperano all’interno delle norme, volontariamente o meno, riproducendole in chiave governamentale.

La forza produttrice eccede, in potenza, la forza lavoro che l’operaio vende al capitalista. Su questa distinzione si fonda il modello produttivo che ha nello sfruttamento del primo da parte del secondo la sua ragione d’esistere: “[oltre al] valore corrispondente a quello della sua forza lavoro, [si realizza] una massa di valore aggiuntivo, un plusvalore, di cui il capitalista si appropria senza corrispondere alcun ‘equivalente'”. Nel processo al cui interno è prodotto il soggetto, il valore aggiuntivo, il plusvalore di quel “lavoro in più”, è il sostegno attivo che il soggetto stesso dà al dispositivo delle norme, al regime di veridizione che su questo si fonda. Se la soggettivazione, la produzione del sé, costituisce il lavoro vivo del processo produttivo che muove dalla combinazione di capitale costante (le norme e il sistema del loro assemblamento che si dispiega in ogni dove) e capitale variabile (l’individuo che mette al servizio del sistema delle norme la propria vita e il proprio corpo), il risultato di quel processo, la soggettività e l’identità che la visibilizza, si riversa nel ciclo produttivo con la funzione di lavoro morto.

Prima di descrivere questo punto, vediamo cosa si intende per lavoro morto nella teoria economica marxiana. Due brevi passaggi del libro di Macherey che analizzano il modo in cui Marx usa i concetti di lavoro vivo e lavoro morto aiutano collocare la questione in termini molto chiari. “Il lavoro morto è il lavoro finito, oggettivato, cristallizzato nel suo prodotto in cui la sua traiettoria si è conclusa”, scrive l’autore. Di fronte alla dinamicità insita nel lavoro vivo (“il lavoro in corso di esecuzione”), “il lavoro morto ha solo una dimensione statica”. Étienne Balibar, in una nota inviata a Macherey e riportata nel libro, fa un passo ulteriore: “La questione che interessa a Marx è quella ‘sproporzione’ crescente tra ‘lavoro vivo’ e ‘lavoro morto’ (o oggettivato), cioè il fatto che con lo sviluppo della ‘produttività’ capitalista, una quantità sempre minore di ‘lavoro vivo’ acquisisce la capacità di mettere ‘in movimento’ o ‘riportare in vita’, ossia di ‘riattivare’, una quantità sempre più grande di ‘lavoro morto’”. Sono due passaggi molto chiari su quale sia il rapporto che si viene a creare, per Marx, nel modello di produzione capitalista tra lavoro e valore. Scrive Marx nei Grundrisse: “Il valore è divenuto capitale e il lavoro è divenuto un mero valore d’uso di fronte a esso. In tal modo il lavoro vivo si presenta come un mero mezzo per valorizzare il lavoro morto, oggettivato, per infondere in esso un’anima vivificatrice e perdervi la propria”. Quindi – prosegue Marx – “ciascun capitale considerato per sé si risolve in lavoro morto oggettivato come valore di fronte al lavoro vivo”. Di fronte a queste definizioni, possiamo ricostruire il rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto nel processo produttivo che genera il soggetto basato sulla “sproporzione” di cui parla Balibar e la funzione dell’identità.

Soggettivandosi, l’individuo mette lavoro vivo nel processo, nella misura in cui la propria vita entra al servizio delle norme. Vi si riconosce e riconosce ciò che è “vero” (ma non necessariamente “giusto”) per sé e per le norme stesse. Questo valore del lavoro vivo incontra, “vivifica” il valore che è “divenuto capitale”, rappresentato dal lavoro morto, “perdendovi la propria anima”. Incontra una costruzione identitaria che lo precede, già costituita come lavoro morto, già divenuta parte del capitale costante, con cui si identifica vivificandola. Detto altrimenti, produce plusvalore, quel lavoro in più che alimenta le norme, che ne diviene parte attiva della loro riproduzione, parte costitutiva del capitale costante.

L’acquisizione di questa identità (etnica, economica, sociale, sessuale, culturale, religiosa, ecc.) consentirà al soggetto di metterla in gioco, o “in scena”, mostrando di volta in volta una delle maschere di cui si compone. L’interazione che ne deriva, di qualunque natura essa sia, ci farà parlare, agire, ecc. in un determinato modo, ma anche, o soprattutto, ci farà essere parlati, essere agiti, essere interpellati sulla base degli stessi principi che adottiamo come soggetto attivo.

Con questa doppia funzionalità, il prodotto finito, l’identità, non garantisce solo la “sopravvivenza” del soggetto tramite le possibilità di auto-rappresentazione e auto-riconoscimento, ma alimenta, per mezzo di forme di cooperazione sociale, il rafforzamento del capitale costante, di cui essa stessa diviene parte. Ed è tramite la cooperazione che, come, scrive Balibar, serve sempre meno lavoro vivo per riattivare, riportare in vita, il lavoro morto dell’identità. Aderire o identificarsi in un modello identitario diviene sempre più facile, richiede sempre meno “lavoro” e impegno diretto.

I social media e la comunicazione “tiktokizzata”, da questo punto vista, rappresentano uno strumento formidabile per accelerare la velocità di questo processo, l’esempio più chiaro del ruolo della cooperazione sociale. Il fatto di essere allo stesso tempo comunicatori e comunicati, commentatori e commentati, valutatori e valutati evidenzia cosa significhi mettere in gioco un’identità che si pone immediatamente come base del sistema che l’ha creata. Veniamo costantemente interpellati da ciò che noi stessi alimentiamo con l’offerta dei nostri dati e tratti identitari, dando risposte che favoriranno ulteriori interpellazioni a cui ci “volteremo”, convinti che parlano proprio a noi.

Richard Miskolci, sociologo brasiliano, mette in risalto un aspetto tanto importante quanto inquietante del rapporto tra identità e social media. Il gesto di “voltare l’obiettivo su se stessi” per lo scatto dell’ennesimo selfie ha modificato in modo irreversibile quel rapporto. Mette in rete una complessità identitaria impossibile da rappresentare fino a poco tempo fa, “facendoci divenire i paparazzi di noi stessi” in una proiezione mediatica che ci consente di infrangere la parete “apparentemente insormontabile dello schermo”, non solo quando siamo online, ma anche, e tragicamente, “nell’intimo e profondo offline delle nostre coscienze”.

La cooperazione tra operai nella produzione industriale, scrive Mezzadra riprendendo il Marx del Capitale, produce “la connessione delle loro funzioni e la loro unità come corpo produttivo complessivo [che] stanno al di fuori degli operai salariati, nel capitale che riunisce e li tiene insieme”. Si tratta quindi, continua l’autore, citando questa volta un passaggio dei Grundrisse, di “un rapporto di estraneità”.

Quello che mi sembra Miskolci metta in evidenza è un rapporto tra identità e cooperazione che, nei social network, assume il forte connotato dell’interiorità. Più in generale, nel capitalismo delle piattaforme la cooperazione interiorizzata, offline, è la condizione di possibilità di un’identità che, in quanto lavoro morto, viene costantemente vivificata per la riproducibilità del sistema di norme che, costantemente, la produce.

Se l’identità, come è stato detto sopra, riporta all’idea di seconda natura, verrebbe da chiedersi qual è lo spazio della “passione utopica” di cui parla Mario Tronti di cui abbiamo chiare manifestazioni nelle forme di lotta e resistenza che attraversano il globo in tutte le direzioni. Dove si produce l’emergenza di quella passione                                                                            in un soggetto dominato da un “inconscio colonial-capitalistico”?

Nei contesti di colonizzazione, è bene ricordarlo, la funzione dell’identità e della seconda natura a cui si associa viene esasperata in chiave di dominio, utilizzando strumenti, come nel caso del linguaggio, che agiscono sulle tecniche di autoriconoscimento e inclusione differenziale. Ciò nonostante, o proprio per questo, è attorno a una certa immagine di identità, o di sé, che si costruiscono resistenza, lotte, contro-condotte, atteggiamento critico.

“Rivendicare la propria identità” è un enunciato che ricorre spesso nelle pratiche di movimenti di liberazione ed emancipazione, tanto del passato quanto dei giorni nostri. Un’identità da rivendicare comporta l’acquisizione di un nome, della parola e, di conseguenza, “l’iscrizione simbolica nella polis, [in quanto] colui che non ha nome non può parlare”. Non avere un nome significa essere un “senza parte”, verso cui l’ordine del sensibile non può produrre altro che dominio assoluto sulla propria vita e sulla propria morte di coloro che hanno stabilito la loro impossibilità di parlare. Avere un nome, tuttavia, non significa solo poter parlare, significa anche essere parlati. Significa essere soggetto/oggetto all’interno di pratiche discorsive che precedono o, per meglio dire, che sono la condizione di possibilità di quel nome, lo contengono e gli danno una posizione.

Se, come sostiene Foucault, il soggetto (colui che ha un nome) non si pone alla base del discorso, ma si costituisce al suo interno, vi trova una posizione temporanea come “variabile intrinseca”, in che modo la rivendicazione entra nel discorso e che relazione assume il soggetto che la enuncia rispetto all’a-priori storico che genera le formazioni discorsive che non “parlavano” quella soggetto rivendicatore, non lo contemplavano?

La risposta mi sembra stia nell’elemento centrale degli studi di Foucault dell’ultimo periodo sulla soggettivazione, le tecnologie del sé. L’importanza del termine tecnologie sta nel fatto che quelle del sé non sono le uniche che vengono attuate. Ne esistono di quattro tipi, strettamente interconnesse tra loro,

“ognuna delle quali è una causa di ragione pratica: (I) tecnologie di produzione, che ci consentono di promuovere produrre, trasformare o manipolare le cose; (2) tecnologie di sistemi di segni, che ci consentono di usare segni, significati, simboli o sigle; (3) le tecnologie del potere, che determinano il comportamento degli individui e li sottopongono a determinati fini o dominio, un’oggettivazione del soggetto; (4) tecnologie del sé, che consentono agli individui di agire con i propri mezzi o con l’aiuto di altri un certo numero di operazioni sul proprio corpo e anima, pensieri, comportamento e modo di essere, in modo da trasformarsi per ottenere un determinato stato di felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità”.

In un passaggio successivo, Foucault definisce cosa intende con “sé”, utilizzando, in una delle poche volte che ricorre nei suoi studi di questo periodo, il termine identità:

“Innanzitutto, che cos’è il sé? Sé è un pronome riflessivo e ha due significati. Auto significa ‘lo stesso’, ma trasmette anche la nozione di identità. Quest’ultimo significato sposta la domanda da ‘Che cos’è questo sé?’ a ‘Qual è il piano [plateau] su cui troverò la mia identità?’”

Non c’è, quindi, una collocazione preordinata per l’individuo che si soggettivizza all’interno delle norme. Il gioco di forze che le tecnologie mettono in atto danno luogo a forme di soggettività variabilmente declinate, dalla cui combinazione emergerà il piano su cui il soggetto troverà la propria identità. Su questa base è quindi possibile scrivere “la storia della soggettività – soggettività intesa come l’insieme dei processi di soggettivazione ai quali gli individui sono stati sottoposti o che hanno messo in atto nei confronti di se stessi”.

Soggettività e identità, per ritornare al quesito sopra posto, si formano come risultato del processo di soggettivazione, nella simultaneità di tecniche di dominio e tecniche del sé. Sono il prodotto di una “articolazione” che sta alla base del rapporto tra il soggetto e la pratica discorsiva al cui interno si costituisce. Nel momento in cui il soggetto è parlato (tecniche di dominio), si dota egli stesso della parola (tecniche del sé), sulla cui base stabilirà una maggiore, minore o nulla corrispondenza al modo con cui è stato introdotto nominalmente nel discorso.

Ma questo non basta, c’è qualcosa in più che riporta direttamente a quanto detto sopra sull’identità come lavoro morto nel processo che produce il soggetto, qualcosa che risponde a un termine non ancora usato ma che ha implicitamente attraversato questo scritto: le politiche dell’identità.

Per politiche dell’identità si intende la produzione di “coerenze identitarie” fondate su pratiche di cristallizzazione, imposizione e induzione, “prodotte da uno Stato che può solo assegnare riconoscimento e diritti a soggetti totalizzati dalla particolarità che costituisce il loro status di ‘parte lesa’”. Non ha a che vedere con la negazione dell’individuo a parlare in forma antagonista, ma con l’includere la rivendicazione identitaria nel sistema di norme che ha creato quella stessa identità rivendicata. “La nostra agentività [agency] politica attraverso l’identità – scrive Haider – è esattamente ciò che ci fissa nello Stato, ciò che assicura il nostro continuo assoggettamento”. Interpellandoci come individui, le politiche dell’identità tendono a misconoscere le condizioni storicamente determinate che hanno consentito il sorgere delle relazioni sociali che quell’identità hanno costituito. L’individualizzazione del soggetto questionante fa sì che, strategicamente, “le politiche dell’identità [si definiscano] come la neutralizzazione dei movimenti contro l’oppressione razziale”, ma lo stesso vale per ogni altra forma di oppressione.

Alla luce di queste convincenti osservazioni, si possono identificare le politiche dell’identità con la parte conclusiva del processo produttivo del soggetto, quella che consente di definire l’identità come lavoro morto. L’obiettivo di tali politiche non è solo, o non è tanto, la produzione di identità associate a “corpi docili” (anche se è, nella loro logica di funzionamento, ampiamente auspicabile). Per far sì che ogni sua declinazione sia reinvestibile produttivamente nel sistema di norme, che contribuisca in qualunque modo alla loro riproduzione, quelle stesse politiche devono includere – differenzialmente – ogni identità e rivendicazione a essa associata nelle pratiche discorsive che legittimano e rendono fruibile quel sistema.

Detto in altri termini, le norme definiscono un “universale” che non può essere altro che parziale e storicamente determinato, costruito in tal modo da includere ciò che contribuisce dialetticamente a connotarle come le uniche possibili nella perimetrazione del concepibile e del vivibile. Al di là di questo universale si estende il “fuori produttivo”, come spazio di negazione delle identità messe al lavoro, uno spazio di “rappresentazione dell’irrappresentabile”. Su questo confine operano le politiche dell’identità.

Ancora una volta, è il mondo delle piattaforme e dei social media a marcarne la tendenza. Le politiche adottate per la gestione delle informazioni veicolate e le modalità da parte di noi “produttori” di entrare a farne parte corrispondono in toto alle logiche di funzionamento di quelle politiche. La tirannia del “vero” si rafforza nella definizione di tutto ciò che si colloca in quello spazio del fuori come fake news non rappresentabili; chi vi aderisce non viene contemplato da nessuna forma di mediazione dialettica possibile.

L’identità e le politiche dell’identità, più che riconducibili a un’idea di potere assoluto e totalizzante, costituiscono il prodotto, nel primo caso, e la tecnica, nel secondo, del potere che assume la forma del governo di viventi dotati di un nome. “Governare, in questo senso, è strutturare il possibile campo d’azione degli altri”; perché questo si renda attuabile, l’individuo deve essere “libero”, perché nel gioco che si stabilisce tra potere e libertà, quest’ultima “apparirà infatti come una condizione per l’esistenza del potere”.

Così come il lavoratore “libero” può vendere la propria forza lavoro – per ritornare al punto di partenza di questo scritto – allo stesso modo solo l’individuo “libero” potrà essere governato all’interno di quel campo d’azione definito dalle norme. La forza produttrice dell’identità manifesta qui tutta la sua potenza.