Poemetto – di Antonio Tricomi

Poemetto – di Antonio Tricomi

28 Ottobre 2024 Off di Francesco Biagi

L’INVENZIONE DELLA SPERANZA

 

 

La vita dunque e l’assoluta mancanza d’illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie.

Giacomo Leopardi, Zibaldone

 

I

 

Appoggiato ad un muro franato.

Il gomito destro sulla sezione

di un mattone ch’è cavo, slabbrato.

Sul viso, dall’alto, un acquazzone

 

che fa marce pure le altre macerie

del casolare che c’era, non c’è.

Assurdo aspettare – per com’è

questo vuoto poggio senza barriere,

 

sospeso, pare, sul nulla, esteso

fin dove il mio sguardo poi muore;

per il denso spessore, una coltre

di nubi, miasmi in cui sono preso –

 

che da confini suppongo segnati

(vedo solo l’orizzonte sgranarsi)

giunga qualcuno, qualcosa inattesa

a racchetare codesta distesa.

 

C’è l’aria che si incaglia su zolle

di fango rotte da falso cordoglio,

cieche chimere di un poco di sole,

mesti ardimenti senza germoglio.

 

Come da uno specchio incrinato,

appannato, dal vapore – tra righe

di pioggia che si sfaldano a file

nelle pozze larghe sullo sterrato –

 

mi appaiono, in cenni sfrangiati,

più forme squamate, quasi fantasmi

di corpi, di eloqui, ammennicoli

che hanno qui dimorato per secoli.

 

Dal loro collasso questo rovescio,

per cui gratto via dalla memoria,

la mia, ogni rottame, che a scroscio

sulla bocca mi arriva, di storia.

 

Esposto nudo alle intemperie

studio se un posto sappia trovarlo,

inventarlo, come alle esequie,

dove far ristorare il coraggio

 

(un’impresa di fiacco intelletto)

l’esistenza di accogliere questa:

nessun rimpianto per ciò che s’è perso

(la nostalgia è ombra funesta)

 

e nel presente – il suo assedio

che niente consiglia di trasgredire –

starci scollato, chiedendo rimedio

non al passato comune sentire,

 

neppure a un astratto futuro

che eterna farebbe l’ansia corrente,

ma al capire, di questa malora,

qual è la legge, se c’è, che non tiene.

 

Che – oltre il compatirsi, bagnati

di scuro e impotenza, da soli –

rende mogi, fa sentire malsani:

il freddo, crescendo, sfibra i polmoni.

 

Rinserra la gola, strema le labbra

in un’onda d’astio contro se stessi

che, per uscire, non trova la strada:

gratta muta, rimbomba fra i denti.

 

 

II

 

Poi cosa accade? D’un tratto la luce

sulle palpebre torna a picchiare;

lenti gli occhi, tremanti, m’induce

ad aprire sul guizzante crinale

 

di felpe ed iPhone, di schiamazzi

che per tutta la stanza mi esorta

alla lezione, a mezza parola

che – per quale ragione? – li riguardi.

 

Dai pochi istanti prima dell’appello,

fermi in un’immagine di pensiero

di come avverto il mio stato,

quell’urlo murato m’ha ridestato.

 

L’estate non accenna a morire.

Dalle vetrate cade fra i banchi

il brillare rovente d’una fine

settembre che scola fin sopra i lacci,

 

le suole inquiete di enormi scarpe

a stento frenate da chi le calza.

E poi la frenesia di manate

sulla fòrmica che quasi sobbalza.

 

«Professore», mi fa uno studente

che in aula entra in ritardo,

«la camicia è presto, è pesante.

Vede, infatti? È tutto sudato.

 

Sembra ch’è stato, ma senza l’ombrello,

senza un cappotto, sotto la pioggia

cupo a bagnarsi per cupa voglia,

quand’è invece, il cielo, stupendo».

 

Abbozzando ho allora capito

ch’è vero, che qui nel mondo, del resto,

i vivi coi morti siamo gettati

in differenti tragitti del tempo.

 

E ci inganniamo, stordiamo, stanchiamo –

i reduci al fianco dei posteri –

gli uni che non sappiamo che siamo,

gli altri che ci sembrano apostati.

 

Accade ad ogni scempio di un’epoca:

le generazioni non si susseguono

(o è perlomeno questo che credono)

agendo l’incussa lotta edipica,

 

ma si barcamenano tra relitti

o vagiti di simbolico vaghi

senza un vero alfabeto che parli

il senso di accordi o conflitti.

 

Ci contagiamo d’inesperienza

o, al contrario, di decrepitezza,

servi di un patto sociale che suona

anfibio tra non più e non ancora.

 

A quelli che come me, per sventura

d’anagrafe, privilegio di censo,

han da accettare che un maestro

d’un crepuscolo è sempre figura,

 

tocca altresì di non arroccarsi

nel cristiano ghirigoro mentale

dell’apocalisse prossima a darsi,

se l’educazione propria decade.

 

 

III

 

In terra sull’uscio, che l’incornicia,

nei pressi del secchio, che già esonda,

è ferma una carta, una striscia,

non so capire di quale vivanda.

 

Come fuggita da quel rimasuglio

m’afferra l’inerzia, la rendo fiato,

di saper dalla classe se ha voglia

di moniti lasciatici invano:

 

quel che Leopardi – e la cultura,

mi dico, che sola c’è famigliare

è ora l’abbrivio basso imperiale,

sicché la pensiamo nostra natura –

 

sperava nella Ginestra. «Ognuno

il testo di nuovo scorra da sé.

L’abbiamo studiato. Vi è piaciuto?

Tratta di noi. Mi spiegate perché?».

 

Giocherello con la biro. Sorrido.

Anzi no: è una smorfia d’intesa

che, vaga, m’apparecchia all’attesa

di qualche responso. Sfoglio il libro.

 

E quasi mastico sovrappensiero

i resti, tra carie, di un sigarello,

calato in un ruolo, educatore,

ch’è leva di cosa? Riproduzione

 

di quanto è norma? O potenziale

aspettativa di un’altra morale?

Sempre, sospetto, d’entrambe le cose.

Ma se, come è ora, non ha voce

 

renitenza nessuna, della prima

soltanto. Di una silente slavina.

E in fondo, io stesso anche basta,

suppormi diverso, di un’altra pasta.

 

Già in un classico dell’Ottocento

si accusava quel che d’indecente

di corpi e linguaggi asserviti

del tutto al dominio, inghiottiti

 

dall’astrazione, rea, del capitale.

Non è forse ora anche più vero?

E non è, sentirsi altro, uguale

giogo, se non ha gesti il dissenso?

 

Non alza la mano. Parla di getto.

Un irascibile. Sguardo disperso.

«Io dico che oggi è al contrario:

per noi celebrate sempre lo sfascio.

 

E la sciagura, a forza di dirla,

per voi ci diventa un’attrattiva,

ma sarà parto del vostro rancore,

su noi deviato, verso la morte.

 

Come tutto, anche voi finirete.

Se realmente volete salvarlo,

pur sconce ma con le nostre maniere,

il mondo, vi tocca, afflitti, pensarlo».

 

Non ho rimostranze. Il balbettio

del respirare lo sento più lieve.

Lascio al silenzio il lavorio

sugli allievi. Ché così si deve.

 

 

IV

 

Dal parcheggio antistante la scuola –

è la radio di una vettura – suona

il passaggio di un frastuono scomposto.

Vorace ci ingoia qualche secondo.

 

Si rapprende sui muri, s’acquatta

tra crepe e rilievi, al soffitto.

Si ottunde in un soffio, poi vola

via dalle tende tirate sul sole.

 

Penso: un materialista è sempre

un luddista anche contro se stesso;

l’interpretare che più gli conviene

è dall’imperfetto trarre progetto.

 

Se egli infatti cantasse lamento

sul franare delle proprie giornate,

starebbe dicendo che nel presente

l’ideale s’era già realizzato,

 

mentre sa che il suo desiderio

è supporlo latente nell’imperio

dell’iniquo appena questo deflagri,

è dell’oggi guardare più avanti.

 

C’è sempre il rischio di retroversione

in barbarie o che esploda il creato,

nella nostra identificazione

a un agire incondizionato,

 

a dati, congegni, un raziocinio

vissuti come oltrepassamento

di ogni limite di specie, arbitrio

di un qualche divino trascendimento.

 

Ma non restiamo che questo: animali

senza a corredo un certo richiamo

a torchi d’essere, pregiudiziali.

Siamo ciò che non siamo: l’inventiamo.

 

Finché la parola anche soltanto

tartaglia sconcerto, il disincanto

di un padre, un ragazzo pur lontani

dal capirsi, capire il domani,

 

sporti su un’era che niente proclama

che dell’umano eleggere a fini,

non a mezzi, i suoi artifici,

che la formula avere trovata

 

dell’essere paghi, liberi, giusti

nel vacuo elogio dell’ignoranza

sul male che non risparmia, sui guasti,

ha ancora una via la speranza.

 

Se non hanno gli stessi argomenti,

neppure hanno lo stesso linguaggio,

ma accostano i loro sgomenti,

li accettano di eguale lignaggio,

 

quel padre, quel figlio, pur senza dire

cosa li opprime, senza saperlo –

alcune volte – che stanno soffrendo,

fanno albeggiare un altro sentire.

 

Perché incosciente cresce il disagio.

La teoria verrà dopo. Adagio.

È la condivisione del dolore

l’antefatto della liberazione.

 

 

(1° luglio 2023 – 26 marzo 2024)

 

Immagine: W. Turner, Snow Storm: Steam-Boat off a Harbour’s Mouth, 1842.