Poemetto – di Antonio Tricomi
L’INVENZIONE DELLA SPERANZA
La vita dunque e l’assoluta mancanza d’illusione, e quindi di speranza, sono cose contraddittorie.
Giacomo Leopardi, Zibaldone
I
Appoggiato ad un muro franato.
Il gomito destro sulla sezione
di un mattone ch’è cavo, slabbrato.
Sul viso, dall’alto, un acquazzone
che fa marce pure le altre macerie
del casolare che c’era, non c’è.
Assurdo aspettare – per com’è
questo vuoto poggio senza barriere,
sospeso, pare, sul nulla, esteso
fin dove il mio sguardo poi muore;
per il denso spessore, una coltre
di nubi, miasmi in cui sono preso –
che da confini suppongo segnati
(vedo solo l’orizzonte sgranarsi)
giunga qualcuno, qualcosa inattesa
a racchetare codesta distesa.
C’è l’aria che si incaglia su zolle
di fango rotte da falso cordoglio,
cieche chimere di un poco di sole,
mesti ardimenti senza germoglio.
Come da uno specchio incrinato,
appannato, dal vapore – tra righe
di pioggia che si sfaldano a file
nelle pozze larghe sullo sterrato –
mi appaiono, in cenni sfrangiati,
più forme squamate, quasi fantasmi
di corpi, di eloqui, ammennicoli
che hanno qui dimorato per secoli.
Dal loro collasso questo rovescio,
per cui gratto via dalla memoria,
la mia, ogni rottame, che a scroscio
sulla bocca mi arriva, di storia.
Esposto nudo alle intemperie
studio se un posto sappia trovarlo,
inventarlo, come alle esequie,
dove far ristorare il coraggio
(un’impresa di fiacco intelletto)
l’esistenza di accogliere questa:
nessun rimpianto per ciò che s’è perso
(la nostalgia è ombra funesta)
e nel presente – il suo assedio
che niente consiglia di trasgredire –
starci scollato, chiedendo rimedio
non al passato comune sentire,
neppure a un astratto futuro
che eterna farebbe l’ansia corrente,
ma al capire, di questa malora,
qual è la legge, se c’è, che non tiene.
Che – oltre il compatirsi, bagnati
di scuro e impotenza, da soli –
rende mogi, fa sentire malsani:
il freddo, crescendo, sfibra i polmoni.
Rinserra la gola, strema le labbra
in un’onda d’astio contro se stessi
che, per uscire, non trova la strada:
gratta muta, rimbomba fra i denti.
II
Poi cosa accade? D’un tratto la luce
sulle palpebre torna a picchiare;
lenti gli occhi, tremanti, m’induce
ad aprire sul guizzante crinale
di felpe ed iPhone, di schiamazzi
che per tutta la stanza mi esorta
alla lezione, a mezza parola
che – per quale ragione? – li riguardi.
Dai pochi istanti prima dell’appello,
fermi in un’immagine di pensiero
di come avverto il mio stato,
quell’urlo murato m’ha ridestato.
L’estate non accenna a morire.
Dalle vetrate cade fra i banchi
il brillare rovente d’una fine
settembre che scola fin sopra i lacci,
le suole inquiete di enormi scarpe
a stento frenate da chi le calza.
E poi la frenesia di manate
sulla fòrmica che quasi sobbalza.
«Professore», mi fa uno studente
che in aula entra in ritardo,
«la camicia è presto, è pesante.
Vede, infatti? È tutto sudato.
Sembra ch’è stato, ma senza l’ombrello,
senza un cappotto, sotto la pioggia
cupo a bagnarsi per cupa voglia,
quand’è invece, il cielo, stupendo».
Abbozzando ho allora capito
ch’è vero, che qui nel mondo, del resto,
i vivi coi morti siamo gettati
in differenti tragitti del tempo.
E ci inganniamo, stordiamo, stanchiamo –
i reduci al fianco dei posteri –
gli uni che non sappiamo che siamo,
gli altri che ci sembrano apostati.
Accade ad ogni scempio di un’epoca:
le generazioni non si susseguono
(o è perlomeno questo che credono)
agendo l’incussa lotta edipica,
ma si barcamenano tra relitti
o vagiti di simbolico vaghi
senza un vero alfabeto che parli
il senso di accordi o conflitti.
Ci contagiamo d’inesperienza
o, al contrario, di decrepitezza,
servi di un patto sociale che suona
anfibio tra non più e non ancora.
A quelli che come me, per sventura
d’anagrafe, privilegio di censo,
han da accettare che un maestro
d’un crepuscolo è sempre figura,
tocca altresì di non arroccarsi
nel cristiano ghirigoro mentale
dell’apocalisse prossima a darsi,
se l’educazione propria decade.
III
In terra sull’uscio, che l’incornicia,
nei pressi del secchio, che già esonda,
è ferma una carta, una striscia,
non so capire di quale vivanda.
Come fuggita da quel rimasuglio
m’afferra l’inerzia, la rendo fiato,
di saper dalla classe se ha voglia
di moniti lasciatici invano:
quel che Leopardi – e la cultura,
mi dico, che sola c’è famigliare
è ora l’abbrivio basso imperiale,
sicché la pensiamo nostra natura –
sperava nella Ginestra. «Ognuno
il testo di nuovo scorra da sé.
L’abbiamo studiato. Vi è piaciuto?
Tratta di noi. Mi spiegate perché?».
Giocherello con la biro. Sorrido.
Anzi no: è una smorfia d’intesa
che, vaga, m’apparecchia all’attesa
di qualche responso. Sfoglio il libro.
E quasi mastico sovrappensiero
i resti, tra carie, di un sigarello,
calato in un ruolo, educatore,
ch’è leva di cosa? Riproduzione
di quanto è norma? O potenziale
aspettativa di un’altra morale?
Sempre, sospetto, d’entrambe le cose.
Ma se, come è ora, non ha voce
renitenza nessuna, della prima
soltanto. Di una silente slavina.
E in fondo, io stesso anche basta,
suppormi diverso, di un’altra pasta.
Già in un classico dell’Ottocento
si accusava quel che d’indecente
di corpi e linguaggi asserviti
del tutto al dominio, inghiottiti
dall’astrazione, rea, del capitale.
Non è forse ora anche più vero?
E non è, sentirsi altro, uguale
giogo, se non ha gesti il dissenso?
Non alza la mano. Parla di getto.
Un irascibile. Sguardo disperso.
«Io dico che oggi è al contrario:
per noi celebrate sempre lo sfascio.
E la sciagura, a forza di dirla,
per voi ci diventa un’attrattiva,
ma sarà parto del vostro rancore,
su noi deviato, verso la morte.
Come tutto, anche voi finirete.
Se realmente volete salvarlo,
pur sconce ma con le nostre maniere,
il mondo, vi tocca, afflitti, pensarlo».
Non ho rimostranze. Il balbettio
del respirare lo sento più lieve.
Lascio al silenzio il lavorio
sugli allievi. Ché così si deve.
IV
Dal parcheggio antistante la scuola –
è la radio di una vettura – suona
il passaggio di un frastuono scomposto.
Vorace ci ingoia qualche secondo.
Si rapprende sui muri, s’acquatta
tra crepe e rilievi, al soffitto.
Si ottunde in un soffio, poi vola
via dalle tende tirate sul sole.
Penso: un materialista è sempre
un luddista anche contro se stesso;
l’interpretare che più gli conviene
è dall’imperfetto trarre progetto.
Se egli infatti cantasse lamento
sul franare delle proprie giornate,
starebbe dicendo che nel presente
l’ideale s’era già realizzato,
mentre sa che il suo desiderio
è supporlo latente nell’imperio
dell’iniquo appena questo deflagri,
è dell’oggi guardare più avanti.
C’è sempre il rischio di retroversione
in barbarie o che esploda il creato,
nella nostra identificazione
a un agire incondizionato,
a dati, congegni, un raziocinio
vissuti come oltrepassamento
di ogni limite di specie, arbitrio
di un qualche divino trascendimento.
Ma non restiamo che questo: animali
senza a corredo un certo richiamo
a torchi d’essere, pregiudiziali.
Siamo ciò che non siamo: l’inventiamo.
Finché la parola anche soltanto
tartaglia sconcerto, il disincanto
di un padre, un ragazzo pur lontani
dal capirsi, capire il domani,
sporti su un’era che niente proclama
che dell’umano eleggere a fini,
non a mezzi, i suoi artifici,
che la formula avere trovata
dell’essere paghi, liberi, giusti
nel vacuo elogio dell’ignoranza
sul male che non risparmia, sui guasti,
ha ancora una via la speranza.
Se non hanno gli stessi argomenti,
neppure hanno lo stesso linguaggio,
ma accostano i loro sgomenti,
li accettano di eguale lignaggio,
quel padre, quel figlio, pur senza dire
cosa li opprime, senza saperlo –
alcune volte – che stanno soffrendo,
fanno albeggiare un altro sentire.
Perché incosciente cresce il disagio.
La teoria verrà dopo. Adagio.
È la condivisione del dolore
l’antefatto della liberazione.
(1° luglio 2023 – 26 marzo 2024)
Immagine: W. Turner, Snow Storm: Steam-Boat off a Harbour’s Mouth, 1842.