Anselm. Creazione e distruzione – di Riccardo Ferrari

Anselm. Creazione e distruzione – di Riccardo Ferrari

6 Novembre 2024 Off di Francesco Biagi

 

L’arte è il paradosso che crea le immagini eterne mediante l’iconoclastia

(Andrea Emo)

 

Nel 2022 Anselm Kiefer è stato invitato a Palazzo Ducale di Venezia per realizzare una mostra site-specific nella Sala dello Scrutinio, un ambiente prestigioso in parte distrutto da un incendio nel 1577 che mandò in fiamme opere di Tiziano, Tintoretto e altri maestri veneti. In segno di continuità la Repubblica fece restaurare l’ambiente pochi anni dopo e commissionò nuovi grandi “teleri” come la Battaglia di Zara di Tintoretto e il Giudizio universale di Jacopo Palma il Giovane.  L’intervento di Kiefer ha quasi totalmente coperto con monumentali quadri, per il periodo della mostra, le opere presenti sulle pareti, lasciando invece visibile il soffitto e le lunette con i ritratti dei Dogi. Il titolo di questa esposizione è stato scritto a mano dall’artista tedesco in sette pannelli disposti a semicerchio nella sala dei Quarantia, un ambiente che raccorda la Sala dello Scrutinio con la Sala del Maggior Consiglio: Questi scritti, quando saranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce.

Si tratta di una citazione del filosofo veneziano Andrea Emo (1901 – 1983), già da alcuni anni presente nella costellazione di riferimenti culturali di Kiefer, che riconosce a questo pensatore irregolare il privilegio di avere esplicitato una serie di riflessioni che hanno sempre accompagnato la sua pratica artistica, come l’idea che l’esistenza e la distruzione dell’immagine convivano: “Quando ho letto Il dio negativo, all’improvviso mi è apparso chiaro che la filosofia di quell’autore fosse quasi la sovrastruttura intellettuale e spirituale del mio modo di fare. Per me il vero artista è sempre stato un iconoclasta impegnato a mettere in scena un ordine prossimo a naufragare nel nulla”[1].

Anselm Kiefer è un pittore, anche se la sua arte “si fa con tutto” e attraversa molti linguaggi e tecniche, dalla performance all’installazione. È impegnato in un continuo movimento dalla funzione-quadro alla sua uscita nella tridimensionalità e nella sperimentazione materica, spesso rivisitando opere della tradizione, come quando materializza con enormi e distrutti pannelli di cemento i lastroni di ghiaccio del celebre quadro di Caspar David Friedrich Il naufragio della speranza. Il fuori campo, il provvisorio, il divenire, la distruzione e la combustione, sono alla base della sua grammatica che procede per sondaggi provvisori, colpi e macchie che “si ritornano addosso” come Vasari definiva la pennellata “sporca” di Tiziano.

Nel dialogo con le opere coperte dei maestri del Cinquecento nella Sala dello Scrutinio, è sintomatica l’assunzione di un’eredità storico-artistica della storia della pittura, che ha nelle riflessioni vasariane sul concetto di non-finito un elemento caratterizzante della “Maniera moderna”, ossia dell’epoca in cui il giudizio singolare degli artisti si emancipava dalla diligenza scolastica e “canonica” che conduceva, senza errori, l’opera alla perfezione, sacrificando la definizione formale alla resa dei fenomeni percettivi e all’estro dell’invenzione. Fra l’attitudine sperimentale e incontenibile di Leonardo e la drammatica consapevolezza di Michelangelo, sono proprio Tiziano e Tintoretto, nelle Vite, i campioni di un furore creativo che si affida alla sprezzatura e all’imperfezione, pur di seguire il capriccio (che, nel caso di Tintoretto, l’autore a cui Kiefer riconosce la sua più incondizionata ammirazione, diventa per Vasari un’insofferenza radicale verso la compiutezza della forma, attraverso colpi di pennello “fatti dal caso” che lo rendono “il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura”)[2].

La nozione di non-finito introdotta nel XVI secolo diventa, con la sua rielaborazione romantica, una categoria estetica che Anselm Kiefer recupera nel nucleo stesso della sua poetica “accidentale”, che si manifesta in un divenire “incorniciato” che accoglie all’interno del “quadro” tutti gli accidenti di un mondo segnato dalla caducità e da fatali processi erosivi; questa tendenza a lasciare l’opera “aperta” si può verificare nell’attitudine a tenere in sospeso per anni quadri  in attesa di essere ripresi e completati, sottoponendoli a prove autodistruttive ed esponendoli alla trasformazione provocata da intemperie naturali e artificiali, come quando vengono trattati con elettrolisi. In alcune interviste l’artista sottolinea l’aspetto fluido del suo approccio, che trasforma l’opera in un campo di continuo intervento che si interrompe solo quando esce dall’atelier, con il mero ingresso nel dispositivo espositivo (“non mi interessa mai il risultato: le riuscite non mi appagano. Anche i miei quadri sono sempre parte di un processo: non sono mai finiti)[3]. La strategia artistica di Kiefer, che lo ha portato ad attraversare da protagonista l’arte contemporanea a cavallo fra i due millenni, è stata quella di trovare nel quadro una temporanea interruzione del continuo lavorio dell’atelier, ma anche, contemporaneamente, quella di trasformare lo studio artistico in una gigantesca espansione materiale del suo cervello, la dilatazione fisica di un universo creativo e dei fantasmi che lo abitano, temporaneamente evocati nella contingenza di un’opera che è per definizione insatura e che porta al suo interno il germe della disfatta: “dipingere per me è anche annientare l’immagine, distruggerla […] perché la distruzione non è fuori dall’immagine ma al suo interno”[4].

 

 

Per entrare in questa arte-laboratorio esiste una preziosa porta d’accesso: Anselm, il film documentario girato in 3D da Wim Wenders nell’arco di tre anni e presentato al Festival di Cannes nel 2023. Si tratta di un film stratificato in cui il regista cerca di accompagnare lo spettatore quasi fisicamente dentro l’universo artistico di Kiefer, innanzitutto attraverso l’esplorazione dei vari ateliers della sua carriera, che gradualmente diventano vastissimi spazi industriali capaci di raccogliere e classificare materiali di ogni tipo; in questi spazi l’artista assume la maschera di un nuovo Efesto (o dell’amato dio-fabbro della mitologia nordica, Weland), che nella sua fucina sembra volere ripercorrere la genesi della creazione, in un laboratorio che è anche fabbrica, miniera, arsenale, hangar, antro alchemico ed equivalente poietico del Cern di Ginevra, come ama definirlo il suo inquieto sacerdote. Dallo studio-parco di Barjac, nel sud della Francia (aperto al pubblico dal 2022), a quello di Croissy, vicino a Parigi, il film mette subito in evidenza l’essere fuori-misura di questi spazi e il loro carattere labirintico. Kiefer si aggira in bicicletta fra i monumentali quadri non finiti disposti sui carrelli, fra padiglioni dove sono raccolte teche e scaffali di eterogenei oggetti, frammenti di natura e di storia, strumenti e materiali, secondo un criterio collezionistico e misterioso, fermandosi per selezionare dai suoi archivi fotografie (da cui quasi sempre hanno inizio il suo lavoro creativo) o parole (a loro volta presenti e incorporate, nella tipica calligrafia, all’interno di quasi ogni sua opera, formando complessi dispositivi iconico-testuali).

Seppure scandito in capitoli che cercano di ripercorrere la traiettoria di una carriera, ci si rende conto subito che il film non opera su un tempo lineare; alternando materiali documentali girati da Wenders nelle locations di oggi con immagini d’archivio e inserti finzionali, l’esperienza immersiva del film conduce lo spettatore in un tempo circolare in cui presente e passato convivono, fra flash-back e flash-forward, rappresentando così anche la qualità temporale che caratterizza il lavoro kieferiano.

Dopo avere incontrato le installazioni di Barjac, dalle Donne dell’antichità alle torri instabili dei Palazzi celesti, vediamo, grazie ai materiali d’archivio, la Germania in macerie all’indomani della Seconda guerra mondiale, le donne tedesche che trasportano fardelli e camminano fra le strade distrutte, mentre un bambino disegna nella sua cameretta (l’artista da bambino, in queste parti di fiction, è interpretato dal nipote di Wim Wenders, mentre successivamente vediamo il protagonista a circa trent’anni interpretato dal figlio del pittore, Daniel Kiefer).

In più occasioni Anselm Kiefer ha raccontato che, essendo nato gli ultimi giorni della guerra in mezzo a case che crollavano, ha passato l’infanzia a giocare con le macerie spostandole e sovrapponendole per costruire nuove strutture. Capiamo che abbiamo a che fare con un’immagine ossessiva e quasi una scena primaria, che costringe a rinnovare l’interesse per il fenomeno della distruzione della civiltà e per l’elaborazione del passato storico del popolo tedesco, utilizzando quelle rovine senza rimuoverle.

La voce fuori campo dell’artista-attore-narratore recita due celebri poesie di Paul Celan (Bacca di lupo e Fuga di morte), un altro autore che ha accompagnato (con Ingeborg Bachmann, ripresa alla fine del documentario) la carriera di Kiefer, incarnando la tensione testimoniale degli “offesi” della storia che permette di scrivere “malgrado tutto” poesie dopo Auschwitz, nella lingua tedesca dei carnefici dei suoi genitori morti in Ucraina. In particolare uno dei momenti più intensi del film è proprio l’audio della registrazione del 1958 con la voce originale del poeta che recita Todesfuge (“Nero latte dell’alba ti beviamo la notte / ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera / beviamo e beviamo / nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarethe / i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti / Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco / lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria / e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti”[5]). La realtà dei campi viene rivissuta criticamente da versi che rievocano, con l’andamento musicale di una fuga, l’umiliazione inflitta dai carcerieri nazisti che imponevano ai prigionieri ebrei di suonare e accompagnare con la musica la quotidianità dello sterminio, contrapponendo due prototipi femminili, la tedesca Margarethe dai capelli biondi (amante di un ufficiale del campo) e l’ebrea Sulumith dai capelli di cenere (prigioniera del campo). Sulle ultime parole del poeta che ripetono come una litania questi versi, vediamo due quadri di Kiefer: ciuffi di paglia gialla che prendono fuoco su un fondo azzurro, con la scritta Margarete, e una successione di arcate in mattoni scuri con in fondo un forno, con la scritta Salumith. Ritornando con le immagini nel suo loft, Kiefer posa il volume di Celan e va a cercare fra gli scaffali un grande “libro d’artista” da lui realizzato e dedicato a Martin Heidegger. Sfogliandolo e illustrando i disegni che rappresentano il cervello del filosofo tedesco, l’artista descrive l’azione di alcuni funghi velenosi che provocano una cancrena che progressivamente invade il disegno del cervello, trasformando tutta la pagina in un caos ribollente di materia nera come il catrame. La voce off riflette sul silenzio di Heidegger rispetto alla sua adesione al nazionalsocialismo e rievoca l’episodio della visita che Paul Celan volle fargli nella casa della Foresta Nera, scrivendo nel guest-book del pensatore questa amara constatazione: “con una speranza nel cuore che arrivasse una parola”.

Ma dall’autore di Essere e tempo questa parola non arrivò, come non arrivò da un’intera generazione della società tedesca che preferì non guardare in faccia il proprio passato (“la generazione del silenzio”, come ricorda Wenders). Questa è la seconda grande interrogazione che attraversa la carriera di Kiefer, ossia l’urgenza di guardare in faccia i mostri che hanno provocato le macerie in cui si è cresciuti. Le immagini del presente nello studio francese lo presentano mentre è impegnato, con alcuni collaboratori, alla combustione di fasci di paglia disposta sui quadri, mentre nel passato degli anni Settanta lo incontriamo nel suo studio tedesco nello Odenwand, mentre scrive una lettera a Joseph Beuys, di cui diventerà allievo all’Accademia di Duessoldorf collaborando alle sue azioni di arte sociale ed ecologica. Una costante attenzione ai processi di crescita e consunzione persiste nel lavoro di Kiefer con l’uso di materiali vegetali come la paglia, amato elemento che “rappresenta per me non solo i capelli biondi di Margarethe, ma anche l’effervescenza della trasformazione. Inizialmente rigida, la paglia si ammorbidisce nella materia prima e, una volta mescolata agli escrementi degli animali, il suo colore splendente diventa una materia oscura pronta a essere accolta dalla terra.”[6].

 

 

Ma gli anni Settanta sono anche un periodo controverso della carriera di Kiefer, per il suo tentativo di ritornare a temi di cui il nazismo abusò, come la mitologia nordica (nei lavori presentati nel Padiglione della Repubblica federale tedesca alla Biennale di Venezia del 1980) e per la sua volontà di infrangere alcuni tabù sul passato, come nelle prime, disturbanti azioni del 1969 chiamate Occupazioni, in cui faceva il saluto nazista in vari siti europei. In un’intervista televisiva riproposta nel film, l’artista spiega che non si trattava né di un rigurgito neo-nazista né di una provocazione, rifare quel saluto era per lui qualcosa di necessario che doveva funzionare come uno specchio scuro posto di fronte alla società tedesca che sembrava vivere in una gigantesca amnesia, mentre Kiefer, come altri intellettuali della sua generazione, riteneva fondamentale per potere andare avanti, ripercorrere le ferite e agire sulla loro cicatrizzazione: come ribadisce nella stessa intervista, “non si può dipingere un paesaggio se è stato attraversato da un carro armato”.

 

L’arte ha dunque il compito di guardare il buio della storia, come il benjaminiano angelo con gli occhi fissi sulla catastrofe, sul cumulo di rovine “che sale davanti a lui al cielo”[7]. Ecco allora prendere forma, proprio nell’atelier di Barjac, un’architettura instabile, realizzata con materiali sopravvissuti alla distruzione, come le torri realizzate impilando blocchi di cemento armato realizzati con calchi di container. Queste torri di rovine sono il prototipo de I sette palazzi celesti, la monumentale installazione permanente realizzata negli hangar della Bicocca a Milano e ispirata al Sefer Hechalot, lo scritto che indica agli ebrei il percorso di salvezza verso la divinità. Torri precarie, che sembrano sfidare le leggi della statica, in un universo apocalittico grigio e plumbeo, ma acceso da improvvise proiezioni su possibili firmamenti e costellazioni. In questi interventi, dopo i riferimenti ai poeti e ai filosofi, si evidenzia un altro serbatoio culturale e spirituale che ha sempre agito nell’immaginario kieferiano, ossia la mistica ebraica. In particolare, più volte l’autore è tornato a riflettere sul mito dello Tsimtsum, l’auto-contrazione di Dio che si ritirò in sé stesso per fare spazio alla creazione. I vasi dove sono rimaste intrappolate le emanazioni spirituali si sono infranti, lasciando solo dei cocci: è infatti questo il tema dell’opera che si può ammirare al Museo ebraico di Berlino, intitolata Shevirat ha-Kelim (rottura dei vasi), dove una creazione composta di libri di piombo con inserite le parole-chiave di questo mito qabbalistico elaborato da Itzchaq Luria, svetta solitaria in un ambiente pieno di vetri rotti.

 

 

A questa dimensione storico-teologica si accompagna la fascinazione per il processo alchemico, con la volontà di percorrere tutti gli strati della materia e della memoria; depositi e archivi vengono perlustrati con sguardo meticoloso, cercando contemporaneamente vie d’uscita, reazioni e scintille di tempo. Ma i due materiali che si situano all’inizio e alla fine di questa catena di elementi sono il piombo e l’oro, con la grande opera della trasformazione dell’uno nell’altro: “il piombo è una sostanza che, non so per quale inspiegabile ragione, racchiude una scintilla di luce che appartiene a un altro mondo […] secondo Valentino il piombo diventa opaco e pesante perché le scintille di luce, i ricordi, gli sono sottratti per transitare nell’aldilà”[8].

Nel laboratorio-fucina di Croissy, Kiefer sottopone il piombo a diversi procedimenti, dalla fusione alle ossidazioni, colando il metallo su gigantesche tele orizzontali in un dripping industriale e titanico. La materia vile, il primo anello della catena di trasformazione, è sottoposta alla dissolutio per poi arrivare a un raffreddamento che permette la coagulatio. In una intervista di repertorio degli anni Ottanta il progetto alchemico di attraversare la nigredo è espresso in modo particolarmente iconico, intersecando anche la dimensione di un non-finito sempre articolato all’opera. Kiefer racconta infatti di avere scelto come laboratorio una vecchia fabbrica di mattoni nell’Odenwald per sperimentare questa sua arte-officina e, osservando una grande vasca rettangolare piena di sabbie e materiali costruttivi disposti casualmente, afferma che “il caos con i bordi è già un dipinto”, che dipingere è cioè “inquadrare” una materia grezza e informe. L’oro e il sole saranno lo spiraglio che si insinua in questo caos, riflettendosi in una dimensione cosmica, come succede nelle opere con giganteschi girasoli bruciati che a volte escono dal corpo sdraiato a terra dell’autore intento a contemplare, in tipica postazione romantica, le stelle, nelle variazioni del Sol Invictus e nelle opere dedicate ad Eliogabalo, in particolare nella versione materialistica di Antonin Artaud che identifica religione solare e geologia (con la serie presentata nel 2024 a Palazzo Strozzi di Firenze Für Antonin Artaud: Helagabale).

 

 

Nelle sequenze finali di Anselm, il montaggio ritorna sulla circolarità temporale dell’estetica kieferiana, articolando il passato e il presente attraverso le immagini dell’artista a dieci anni mentre legge la storia degli Argonauti e della loro ricerca del vello d’oro, innesco di una riflessione sul significato del mito come forma immanente alla storia umana, capace di dialogare con la storia geologica e quella astronomica. Fra i miti rievocati da Kiefer, entra in scena Lilith, la prima moglie di Adamo nella mitologia elaborata dai qabbalisti medievali, come lui nata dalla polvere, che, per avere rivendicato l’uguaglianza rispetto all’uomo anziché la sottomissione della donna, si è allontanata dal Paradiso, denigrata e demonizzata, trasformata in un vendicativo angelo della distruzione, essere che tormenta le donne che partoriscono, musa inquietante delle macerie delle guerre. Kiefer afferma che è alla sua ombra che è cresciuto, nel paesaggio desacralizzato alla fine della Seconda guerra mondiale, e Wenders alterna sequenze in bianco e nero delle città tedesche bombardate con il presente dello studio di Barjac dove ritornano le immagini delle “Donne dell’antichità”, statue di gesso che riproducono bianchi abiti femminili ma privi di testa (perché non gli è stata data la possibilità di raccontare in prima persona la loro storia), delle spose “esplose” identificate da oggetti e simboli che hanno al posto della testa: pianeti, arbusti, paglia, pietre o bianche torri (Maria turris eburnea).

 

 

Alla fine, questi due tempi si incontrano, prima proprio attraverso gli ambienti di Palazzo Ducale a Venezia fra le tele della mostra realizzata per la sala dello Scrutinio, e in seguito nella camera d’infanzia, dove il bambino e il pittore quasi ottantenne condividono lo stesso luogo e la stessa inquadratura, in un muto riflettersi che si concluderà, poco prima della fine del film e forse didascalicamente, con il bambino seduto sulle spalle dell’artista mentre guardano il fiume mitico dell’infanzia, il Reno. Questo incontro è il lieto fine che l’opera di Kiefer non ha, ma indica benissimo l’urgenza tipica dell’artista di attraversare il tempo in modo discontinuo, non smettendo di tracciare vie di fuga dalla terra alle galassie. In uno dei quadri davanti a cui passano i due Kiefer, bambino e anziano, vediamo il tipico landscape con colori ed emulsioni che transitano dal nero all’oro, e una lunga scala che attraversa verticalmente la tela. In più occasioni Kiefer ha rielaborato un altro mito, quello della scala di Giacobbe, che mette in comunicazione terra e cielo, dove gli angeli salgono e scendono: “L’arte compie continuamente fughe in avanti e passi indietro, sale e scende la scale di Giacobbe dell’evoluzione”[9]. Come sottolinea Salvatore Settis in un saggio scritto per il catalogo della mostra di Venezia, sono questa oscillazione fra mondi e questo andirivieni che definiscono la temporalità specifica di Kiefer come un’incarnazione dello Zwischenraum di Aby Warburg, lo spazio intermedio e l’intervallo dove il laboratorio e l’opera, “lo spazio dell’atelier e quello dello Scrutinio si sovrappongono senza coincidere, in una spola incessante”[10].

 

Note:

[1] In V. Trione, Kiefer ritrae il filosofo venuto dal Nulla, in “La Lettura – Corriere della Sera, 18 febbraio 2018.”

[2] G. Vasari, Le vite, Newton, Roma, 2007, p. 1118.

[3] A. Kiefer, Paesaggi celesti, Il Saggiatore, Milano, 2022, p. 154.

[4] E. Coccia, Kiefer, artista dell’infinito, in “L’Espresso”, 27 dicembre 2011.

[5] P. Celan, Poesie, Mondadori, Milano, 2023, trad. di G. Bevilacqua.

[6] A. Kiefer, L’arte sopravviverà alle sue rovine, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 131.

[7] W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino,1962, p. 76.

[8] A. Kiefer, L’arte sopravviverà alle sue rovine, cit., p. 130.

[9] Ivi, p. 116.

[10]S. Settis, Anselm Kiefer: un solstizio veneziano, in Anselm Kiefer, Palazzo Ducale di Venezia, Catalogo della mostra, Marsilio, Venezia, 2022, p. 82.