Frammento e prospettiva. Una nota sulla logica della poesia – di Giuseppe Varnier
Forse è più equivoco che analogia
Quel mondo che mai vedi eppure senti
In vento, frescura, mare, magia
A tratti presagiti, ed in frammenti.
Dallo Pseudo-Pessoa (Ortonimo) *
0.
Questa è Ozymandias, di Percy Bysshe Shelley:
I met a traveller from an antique land,
Who said—“Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. . . . Near them, on the sand,
Half sunk a shattered visage lies, whose frown,
And wrinkled lip, and sneer of cold command,
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them, and the heart that fed;
And on the pedestal, these words appear:
My name is Ozymandias, King of Kings;
Look on my Works, ye Mighty, and despair!
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal Wreck, boundless and bare
The lone and level sands stretch far away.” [2]
E, nella efficace traduzione di A. Taglialatela riportata da Wikipedia:
«Incontrai un viandante di una terra dell’antichità,
Che diceva: “Due enormi gambe di pietra stroncate
Stanno imponenti nel deserto… Nella sabbia, non lungi di là,
Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,
E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità,
Tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava,
Che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre,
Alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava:
E sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”.»
Si tratta di una poesia straordinaria per molti motivi, ben noti ma di cui presto vedremo alcuni. Non è certo, in un senso filologico letterale, un frammento: è una poesia unica ed unitariamente composta, e quello che sappiamo della sua nascita, esteriormente da una competizione, pare escludere che sia un excerptum di un’opera più grande di Shelley – in effetti, la poesia (e)segue, in maniera molto singolare, del resto, la più nota delle forme chiuse: il sonetto. Eppure, ci sono varie cose che connettono questo inimitabile poema chiuso al concetto stesso di frammento, e a quello strettamente collegato di non-finito o parziale:
1) Il sonetto, tuttavia, non sembra essere (un discorso) chiuso: ha un andamento in qualche modo frammentario, ad esempio, parte ex abrupto, senza spiegazioni. È veramente, e paradossalmente, un torso.
2) Sintatticamente, il ductus della poesia sembra sovente interrotto. Alla fine, essa si perde all’orizzonte come la sabbia desolata con cui termina… solo una volta ci sono puntini di sospensione (oltre a uno “—”), ma potrebbero essercene di più. (Il traduttore italiano, cosa interessante, mette tutto il testo in virgolettato – quasi fossero parole attribuite a Shelley o ad altri dall’esterno.)
3) Mimesi del significato, addirittura del referente, tramite la struttura, e addirittura il significante: letteralmente, il poema verte su un colossale frammento, e, fuor di metafora, sulla punizione con cui tempo e destino hanno punito la tracotante hýbris rispetto agli uomini e al tempo da esso (come statua intera) rappresentata. L’esecuzione cerca di essere quasi-frammentaria, o frammentata, per imitare l’oggetto (non posso qui studiare tutti i livelli anche fonosimbolici a cui ciò avviene);
4) – collegato a 2) – il poema è tutto una serie di prospettive, ed implicite di discorsi diretti o indiretti, incastonati l’uno dentro l’altro in maniere complesse. Il poeta cita il narratore del poema, che è tutto costituito dalle sue parole. Il narratore dice che il viso infranto della statua gigantesca frammentata dice che lo scultore leggeva bene “la fronte aggrottata, le labbra arricciate, l’espressione beffarda di freddo comando” (come renderebbe chi scrive) con quel che dicevano, e che sono in fondo l’unica cosa che sopravvive tra tutta la mancanza di vita, e l’unica che può ribattere al viaggiatore-narratore – ché tanto l’arte critica dello scultore quanto l’individualità portatrice di quelle passioni sono defunte. (Il poeta vince sul tempo e il potere tracotante? O anch’egli è veicolo e propaggine dell’oblio? Non lo sappiamo.)
5) Il frammento detto dal narratore, e quella passione defunta, a loro volta parlano in discorso diretto con una scritta sul piedestallo della rovina, scritta potentemente ambigua dato il mutare dei contesti: vuole dire disperate di imitarmi data la grandezza delle mie imprese (la versione tràdita di Diodoro Siculo su Ramesse, probabilmente nota a Shelley), o disperate poiché, per grandi che siate, finirete (anche voi) nella rovina e nell’oblio, nella polvere del deserto? Il sonetto contiene quest’ultimo frammento di un discorso, che necessiterebbe e manca di un contesto esauriente.
6) L’autore tace dopo il primo verso, che è al passato mentre il resto è al presente – ma forse è sotteso il paragone ironico di sé con l’altro creatore, quello della statua colossale: entrambi destinati, come lei, a essere obliati nel tempo? E qual è la funzione del viaggiatore di una terra antica?
Un frammento può essere frammento per molti motivi: [3] perché pensato come tale (uno pseudo-frammento d’autore), perché si insinua in esso un “effetto-frammento” (il caso di Ozymandias), perché non finito dall’autore (un’opera troncata), perché non pervenuto o lacunoso nella tradizione (un frammento “effettivo”), come i frammenti dei lirici greci o dei presocratici e tanti frammenti papiracei, perché tolto da un contesto non più accessibile, e messo in uno nuovo (tutte le citazioni sono frammenti e ne condividono la logica), perché, infine, nell’autore e dall’autore parlano e si diramano una pluralità di voci non convergenti (frammento “mentale” da frammentazione psichica – cioè sempre linguistica e psicologica). Questi sono i tipi principali da prendere in considerazione.
Se la poesia lirica è fatta di “estratti dell’anima”, allora certamente si ha il caso della pluralità, o almeno, come vedremo più avanti, di una prospettiva particolare tra le altre, di una declinazione dell’attività produttiva del soggetto poetante, in una certa direzione. [4] Una mancanza o un trauma, un lutto o un’estasi o un’epifania – poiché in esse la soggettività, focalizzata, è sia ampliata sia diminuita, per così dire – scatenano tipicamente la “verticalità” lirica. La lirica, almeno la lirica moderna, anche laddove sia semplice lirica pur senza (ancora) registrare la dissoluzione o frammentazione del soggetto (cui corrisponde linguisticamente la finzione che dice “io”), può a ragione dirsi tipicamente (fatta in forma di) frammento, pur non essendo frammento “effettivo”, e magari essendo controllatissima, addirittura classica. La stessa metafora della verticalità ci parla, nella sua vaghezza, di un rapporto ortogonale del pensiero lirico rispetto alla direzione dei pensieri “normali” e del flusso del linguaggio: segno che il discorso viene alterato rispetto al discorso diretto di un soggetto che dice “io”. Come si concretizza ciò? Lo vedremo subito.
I.
La caratteristica tipica del (o di un) frammento è che esso si presenta, tipicamente appunto, “nudo”, privo di hors-d’oeuvre. Molto spesso, intendo dire, soprattutto i “veri” o “effettivi” frammenti mancano delle coordinate normalmente fornite dal contesto e dalle informazioni allargate che la parola in prima persona dell’autore – di cui a volte nemmeno sappiamo il nome e/o il tema – dovrebbe normalmente supplire. Questo, però, ha in sé conseguenze che non sono accidentali, ma strutturali. Col contesto originario, può andare persa l’originale intenzione dell’autore e l’inquadramento generale attraverso il quale la voce dell’autore parla. Vi si sostituisce uno statuto oscuro e tutto da determinare, e indovinare, della voce dominante – un regime incerto della parola. L’autore normalmente, in un testo completo, parla in discorso diretto, a meno che introduca il discorso diretto o il discorso indiretto per altre voci secondarie. Quando i confini che delimitano tutto questo sono spariti o al massimo solo intuibili, come in un frammento lacunoso, può sembrare che ogni affermazione sia fatta non in prima persona, ma in discorso indiretto, oppure che delle voci nuove si insinuino nel discorso, voci che possiamo ipoteticamente tracciare all’indietro, divinando una (qualche) soggettività, che non è probabilmente quella dell’autore effettivo, perduta. Se si vuole, si può dire che il “discorso del frammento” approssima inevitabilmente all’orecchio moderno sempre ipoteticamente, ed anche per epoche in cui esso non era (ancora) in uso, il “discorso indiretto libero”, o “rivissuto”, di cui Giulio Herczeg dà una definizione drastica, ma qui utile, come “il miscuglio [sc. sintattico e grammaticale, e lessicale] del discorso diretto e del discorso indiretto”. [5] Abbiamo visto all’inizio, in Ozymandias, che un effetto “labirintico” di un tipo simile può risuonare perfino in un testo che non è di per sé frammento: in Ozymandias, a un certo punto non si sa più chi veramente parli, e di chi siano le scelte lessicali e valutative nel testo, creando nuove soggettività implicite (e “finte”) rispetto a quella, profondamente nascosta, di Shelley.
Dimostrare tutto questo punto per punto richiederebbe forse una messe di esempi e una ampiezza di analisi che non possiamo qui fornire. Quello che mi pare chiaro è che – per così dire procedendo a ritroso – diviene possibile, soprattutto a partire da effettivi frammenti, ripercorrere il filo stilistico sino ad arrivare a “dedurre” una voce (lo spettro linguistico di una soggettività manifestato per effetti formali) che non è più quella dell’autore, magari ignoto o congetturale, o semplicemente “assente” dato lo stato lacunoso del testo, ma rappresenta invece una soggettività diminuita, che è diversa, e suona diversa. (In “frammenti” intenzionali, costituiti a loro volta da voci corali che sostituiscono quella dell’autore e ricreano quella del personaggio, o meglio quella con cui esso parla a sé stessa, effetti raffinatissimi di questo genere sono ottenuti da Ungaretti nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone, pensati appunto come una specie di frammenti.) Tutto questo, ripeto, è inevitabilmente realizzato da qualsiasi testo abbastanza complesso sintatticamente a cui manchi il contesto e a cui manchino ad es. – perché perduti o intenzionalmente vittima di ellissi – verba dicendi o altri dati esprimenti la/una voce “oggettiva” dell’autore. In questo senso, la struttura del frammento è intrinsecamente lirica, in questo senso tecnico e preciso: che dentro di essa si forma una soggettività propria, del tutto interna, e anche effimera ma intensamente presente, che è poi, detto in maniera più formale, ciò a cui mira ogni lirico, ma anche ogni poeta epico che miri a prosopopee. – Si pensi a Emily Dickinson, nella cui opera consistente in circa 1800 poemi strettamente lirici e brevi, o brevissimi, e dalla quale questo particolare effetto, “d’autore”, è secondo me consapevolmente ricercato in maniera ristretta e focalizzata. (Non sono alla lettera frammenti, anche se la frequenza di espedienti grafici come gli “—” ne realizza quasi, in qualche modo, l’apparenza. Partono inoltre in medias res, sicché manca sovente continuità tra gli “io” di volta in volta diversi, e presentano le cose in una luce lessicalmente e sintatticamente obliqua, come ad es. Harold Bloom ha messo in luce molto bene.)
Quello che voglio dire è che un frammento di per sé – ancora prima che sia di un fittizio altro autore o usi una lingua propria – IN QUANTO FRAMMENTO CREA UNA PROSPETTIVA (che l’autore per forza di cose, o per qualche motivo suo, non può più controllare), cui si può risalire, ma che non è appunto da un punto di vista intenzionale quella dell’autore originario (se essa c’era). L’autore diventa forse un personaggio (finto e proiettato) tra altri, la cui mente si proietta e si riflette in quel che resta di un testo (non più) completo. Se di una statua resta un piede, questo rimanda non semplicemente alla statua di un uomo, ma, anche nelle ricostruzioni, ad un uomo visto dal punto di vista di un piede. Il piede ha un ruolo autonomo e prende una vita e una vivacità autonome, impreviste. (Penso di nuovo ad Ozymandias di Shelley, in cui vediamo la statua dalla prospettiva del volto in frantumi, la cui espressione disfatta ma sprezzantemente ironica contrasta dialetticamente con la scritta sul piedestallo, e, forse, con l’atteggiamento ormai ammutolito dell’autore ultimo, Shelley.). La perdita anche casuale della totalità crea di per sé, non intenzionalmente, prospettive. I frammenti di inni di Hölderlin, ad es., presentati come frammenti, sono ipso facto più che pezzi di poesie perdute o mai finite, proprio perché dotati di una prospettiva “octroyée” anche solo dalle circostanze esterne, che non avrebbero altrimenti, come vedremo meglio più avanti. Creano dall’interno il loro stesso, nuovo contesto, supplendo strutturalmente a una mancanza di fatto; e qui il lector in fabula è, con le sue integrazioni, fondamentale. Si pensi al trattato Del Sublime: le citazioni ricavano non poco della loro “sublimità” dall’essere, più o meno, decontestualizzate, a partire dallo straordinario, omerico “nella luce distruggici pure”.
Solo assumendo tutto questo la retorica del frammento acquisisce senso e comprensibilità. Altrimenti, essa deve arrestarsi ad un monotono insistere sulla sua poeticità, senza potere spiegare perché essa mai si dia. E senza potere spiegare tecnicamente come ci sia altresì un legame tra stato frammentario e soggettività – soggettività psicologica vissuta, thick, ovvero dramma dell’essere umano contemporaneo. Eppure, certo, la letteratura sul frammento e sulla frammentazione del soggetto è vastissima: ma non spiega il nesso fondamentale, che è linguistico. L’anello di Clarisse, di Claudio Magris, [6] è, soprattutto nel primo saggio, una coltissima e sapiente tela intessuta di collegamenti tra crisi del soggetto in filosofia (e nella vita) e crisi del romanzo e della lirica (del “grande stile”), specie all’altezza della finis Austriae. Ma una teoria del flusso di coscienza o delle Empfindungen non basta ancora (non è la filosofia del soggetto che fa a pezzi i soggetti, o le loro visioni del mondo) per connettere saldamente, e magari necessariamente, lo stato anche difficile di soggetti psicologici con sperimentazioni linguistiche e romanzi postclassici (o, da noi, poetiche consapevoli come quelle dei cosiddetti vociani). Vediamo ora, dunque, come si può spiegare meglio questo complesso concettuale e vitale, con cui forse i lettori avranno familiarità attraverso i primi studi di Massimo Cacciari e il classico Wittgenstein’s Vienna di Allan Janik e Stephen Toulmin (1966, trad. it. Garzanti).
La percezione del frammento come tale è motivata attraverso, e si rispecchia entro, un insieme di scelte e/o segni (o caratteri determinati da fatalità) linguistici, e talvolta anche extralinguistici. Tali caratteri afferiscono al modo in cui il soggetto o i soggetti che parlano o a cui vengono attribuite le parole e i pensieri vengono rispecchiati da un testo, o opera, o vi lasciano un’orma o un’ombra. Tali soggetti sono strutture linguistiche, ma hanno un rapporto mimetico o analogico, ovviamente, con i soggetti psicologici trattati o proiettati da una narrazione, un epos, una lirica – o appunto i loro frammenti. Tipicamente, nel frammento, questa “ombra” di un soggetto unitario è sparita – e, da effetti di origine testuale quali: pluralità indefinita di io che parlano, difficoltà nel distinguere il soggetto primo (e se ci sia), possibile difficile identificazione dell’io che parla, indecisione tra oratio recta e oratio obliqua, sorgere quasi spontaneo di costruzioni del tipo del discorso indiretto libero, tutti effetti cui abbiamo accennato, consegue che delle soggettività differenti, se non divergenti, e plurali si affaccino, e inoltre si prestino a rimandare ad una frammentazione e rifrazione anche di soggetti psicologici: personaggi, io lirici, ficta, mere presenze enigmatiche, ecc. Senza comprendere questo nesso interno tra lo psicologico e il linguistico non si potrebbe capire come e perché ogni estetica o poetica del frammento è adatta a rappresentare la “crisi del soggetto”, né come e perché ogni consapevole “crisi del soggetto” si ritrovi ad inscenare il frammento. Il nesso non è ideologico o psicosociale. È sintattico e semantico.
La cosiddetta frammentazione del linguaggio, se è genuina, riporta sempre semanticamente a dati di fatto, o operazioni volute, che vedono in azione i fattori sopra riassunti; e questi rispecchiano – quando o per caso o per volontà funzionano bene – possibili voci plurali che si insinuano nel testo, o meglio nell’opera, dove non ce n’è più una unica (voce, ma anche opera). La cosiddetta frammentazione del soggetto, egualmente, può solo alludere, se ha senso, a questa pluralità di voci linguistiche a cui tendiamo a dare una interpretazione psicologica. Del resto “frammentazione del soggetto”, in sé, è una metafora: i soggetti non si “frantumano” se non nella schizofrenia, e difficilmente gli schizofrenici nelle fasi acute producono arte profondamente ragionata e organizzata, anche se non più intorno a una prospettiva “monarchica” dell’io – quella che ad es. persino Trakl e Van Gogh evitavano, però scientemente, e lucidamente. Il punto è che il soggetto psicologico può essere infranto solo fino ad un certo punto: il correlato oggettivo del soggetto della poesia, invece, anche infinitamente: aprendo una porta su un mondo diverso, un diverso Erleben. (Per soggetto psicologico intendo ciò che si può inferire su un soggetto reale, o supposto tale, dalle strutture linguistiche che lo rispecchiano o fingono: è un tale soggetto psicologico ad essere eventualmente frammentato; il “soggetto linguistico” è solo una descrizione che di per sé non implica nulla oltre a sé. È solo un effetto linguistico, e per questo lo chiamo anche interno. Si potrebbe dire che il soggetto “psicologico” sta a quello “linguistico” come il vissuto psichico che ci rappresentiamo nel e dal dipinto L’urlo di Munch sta alle tracce e agli effetti pittorici esperiti formalmente sulla tela.)
È questa visione di un mondo diverso, di una moltitudine di Empfindungen non coagulate nella organizzazione narrativa unitaria di un io, di cui parla poi Magris. In area italiana, un libro che chi scrive trova pur sempre importante, i Canti orfici, con le Poesie sparse, di Campana, è ricco di frammentarietà (e di doverosi, ubiqui puntini di sospensione) che spalancano, a chi sappia cercare, anche gli effetti di cui siamo andati parlando. [7] Ma la finis Austriae e le aree coeve, con geniali teorici-autori come Kraus o Benn, offrono, a questo livello, esempi davvero macroscopici ed epocali, e specialmente nel monumentale – ma eternamente frammentario – L’uomo senza qualità di Musil (a sua volta influenzato anche da Ernst Mach). Le due più grandi, e ultime, opere di respiro “cosmico-storico” (avrebbe detto Hegel) in senso classico sono forse Guerra e pace di Lev Tolstoj e il “dramma irrappresentabile” I dinasti di Thomas Hardy. Ma in entrambi permane ancora una sorta di prospettiva totalizzante ed unitaria, anche se certo essa è già in crisi: nel romanzo, al suo epilogo, l’ottica della narrazione anche onnisciente alla fine si sublima, deve sublimarsi, in un impersonale trattato di filosofia della storia; nel poema-dramma il narratore-commentatore si scinde, deve scindersi, in una pluralità di figure semidivine che interpretano accadimenti forse sprovvisti di senso. E forse si può dire che nel capolavoro di Musil questo processo di frammentazione ha raggiunto il suo termine: non esiste più una posizione unica che, iscrivendosi in una soggettività unitaria, permette di tenere insieme i tanti discorsi, le tante voci del mondo, e le complicazioni della “azione parallela”.
II.
Il frammento è una struttura linguistica, e quindi potenzialmente (oltre che una presentazione fortemente voluta, e un tropo, come abbiamo visto con Ozymandias) una “operazione retorica”, che non può non affascinare, nel suo produrre nuovi e diversi significati, e voci. Nella maggior parte delle istanze comuni, di frammenti “effettivi”, l’operazione è perpetrata, per così dire, dalla storia, o da un’edizione critica, più o meno complice, o diplomatica. Lo vedremo meglio più avanti. Nel frattempo, tenteremo l’analisi di un frammento molto particolare, appartenente, in modo decisamente originale, al Novecento italiano.
Concentriamoci su una delle poesie, forse non più belle, ma certo più impressionanti e memorabili, di Franco Fortini. A chi scrive sembra quasi un fallimento letterario, ma un vertice per forza lirica non adulterata. Alla lettera (questo è molto importante) il titolo è riportato come: “DA VERSI PER UN AMICO CHE SI SPOSA”. Dev’essere quindi, in qualche modo, un frammento, un “frammento d’autore”, o fittizio o reale, probabilmente, secondo la nostra approssimativa tassonomia, anche se l’unica altra cosa che lo rivela, oltre all’enigmatico titolo, sono i puntini di sospensione alla fine. Eccola dunque:
DA VERSI PER UN AMICO CHE SI SPOSA
Dove sei morto, un giorno? A che ombra
salita alle pareti dopo la fine dell’oro
su antenne fili nuvole, aprivi le palme, a quale
Moira di consolante distruzione
rabbrividivi, a fuggire dal dente dolcissimo
dei viali ed a spegnerti? Andavano a schiere
per le campagne d’amore gli ingannati e ai giuochi
dove s’ignora e si perde la giovinezza
come la ginestra delle gite tornando ai suburbi.
Tu in un giuramento discendevi, di non esistere.
E di soffrire la santificante ira
degli dei accettavi, che per le scarnite
rovine della sera e membrane del cielo, oltre i lumi
miseri, bocche bramose e fiere chiedevano
da continente a continente: tu
chiamato, tu inorridito, tu bianco
scolaro e ignorato, morire alla vita degli altri.
E alla selce che svena e recide porgevi la nuca
tra i libri di greco se il fresco ormai notte
e voci incredibili e buone chiamavano a cena…
…[8]
A me pare improbabile che sia esistito davvero un lungo componimento encomiastico, una specie di epitalamio forse, dal titolo Versi per un amico che si sposa. Ma se è così, e insomma questi versi sono trascelti da altro materiale, o solo mentale o già scritto non importa (cfr. al proposito la poesia Una risposta), sembra che l’autore non abbia avuto paura di conservarne la parte più retorica, e anche gore. O forse che l’abbia fatto apposta. Perché c’è qui qualcosa di molto simile alla mimesi di una disperazione adolescenziale coi mezzi, esasperati quasi, di una retorica non meno adolescenziale, seppure sapiente, che mira più che alla raffinatezza e al buon gusto all’effetto di intensità, di iterazione, di violenta insistenza emotiva. Si direbbe che l’eleganza e misura dei contenuti è sacrificata per un guadagno di forte liricità. Forse, semplicemente, non era possibile scrivere molto più a lungo così (anche se magari ci aspetteremmo o desidereremmo una prosecuzione lunghissima della strana melodia). Difficilmente questi quindici versi potrebbero essere battuti in questo, nel loro genere; di qui la nostra certezza che rappresentino il vertice o un vertice – reale o fittizio? – di Versi per un amico che si sposa, sempre ammesso che esista o esistesse. Ecco la prospettiva.
Il ritmo è infatti altamente e quasi scompostamente emotivo, ad ogni giro di frase, ma riesce ad essere fluido ed incalzante. Detto questo, per chi scrive almeno, di che cosa, e di chi, parlino questi versi è un mistero. Le immagini di morte poco si convengono all’apparente occasione. Nel comparire insistente di denti, bocche, “rovine scarnite” e fili di lame, sembra quasi essere il rimando ad uno scerpimento mitico (i “libri di greco”). Che cosa ha rifiutato, che cosa ha accolto, la persona cui ci si rivolge col “tu”, per meritare di essere, forse, vittima di un sacrificio rituale, un po’ come un giovanile Attis, moderno e maudit? Ma l’oggetto di questo “tu” è poi davvero l’amico che si sposa? E può essere mai il matrimonio questo processo sacrificale al suo culmine? Il “tu” si rivolge forse ad un altro amico, magari suicida? (O il “tu” è addirittura il modo in cui il poeta si rivolge a sé stesso?) O semplicemente ad un uomo davvero tragicamente inadatto al vincolo coniugale? Tutte le risposte vengono taciute: è chiaro che i versi sono una selezione da un tutto più complesso, anche se mancante – su cui il titolo, anch’esso strano e dubbio, non getta luce se non quella di una più intensa ambiguità. Ogni domanda, se si dovesse darle una risposta positiva, porterebbe ad una complessa ed esclusiva ipotesi di lettura autonoma. Resta una specie di frammento di elegia in morte, non in vita: una confusa interrogazione sulle cause di una catastrofe non descritta, forse avvenuta solo nella mente, o tra l’autore e il suo titolo.
E addirittura è bastato, per complicare così le cose, forse non un frammento, ma un sospetto di frammentarietà, ben rinfocolato da un titolo, questo sì, certamente apocrifo, in un modo tutto suo. Mezzi più canonici, ma anche retoricamente più deboli, di quelli di Ozymandias. Una lirica-frammento ora sta di fronte ad una lirica che rappresentava la frammentarietà. Qui abbiamo, inseparabili ma distinte, proiettate dalle implicazioni e del testo nudo e del titolo, almeno due prospettive: un matrimonio e un sacrificio (o un tragico, autodistruttivo sperdimento adolescenziale, forse in età già matura). Nessuna delle due è quella della totalità dell’opera e della intenzione dell’autore che parla in prima persona: queste due tacciono, o almeno sembrano del tutto defilate, già nella logica linguistica della composizione. L’impressione finale è appunto di un concitato, doloroso celebrare un evento e pensieri misteriosi. È sorprendente pensare quanti di questi effetti contestuali e testuali sono ottenuti semplicemente da e attraverso il criptico titolo e le domande (poste da chi?) cui è negata per sempre risposta. Ma questa è la universale dinamica del frammento.
Lo studio delle opere di Hölderlin come ci sono pervenute, e soprattutto dello stato – estremamente complesso ed in parte frammentario – dei manoscritti, costituirebbe un contributo alla comprensione di questa dinamica; purtroppo possiamo qui dire poche cose. Perché, poi, Hölderlin in particolare? Perché proprio il “percorso eccentrico”, la “excentrische Bahn”, della sua vita rappresenta una discesa nella frammentazione estrema del pensiero, e, infine, della stessa poesia. Lo stato dei manoscritti – questa sarebbe la mia ipotesi – in qualche modo lo rispecchia. Ma occupiamoci prima di una poesia notissima, in sé non frammentaria, dal centro, dal mezzo, della vita e dell’opera del poeta, poesia che esemplifica quanto abbiamo detto del formarsi e riformarsi di nuove voci in seguito all’emergere della struttura non chiusa o unitaria del testo. La poesia è questa:
Hälfte des Lebens
Mit gelben Birnen hänget
Und voll mit wilden Rosen
Das Land in den See,
Ihr holden Schwäne,
Und trunken von Küssen
Tunkt ihr das Haupt
Ins heilignüchterne Wasser.
Weh mir, wo nehm’ ich, wenn
Es Winter ist, die Blumen, und wo
Den Sonnenschein,
Und Schatten der Erde?
Die Mauern stehn
Sprachlos und kalt, im Winde
Klirren die Fahnen.
È bello riportare la quasi antica traduzione “ermetizzante” di un grande critico, Gianfranco Contini: [9]
Di gialle pere il suolo
e colmo di rose selvagge
pende nel lago, voi cigni del cuore,
e il capo di baci ubriaco
nell’acqua tuffate
ch’è santa e non turba.
Ahimè, dove li prendo,
ora ch’è inverno, i fiori, e dove
del sole la luce, della terra
l’ombra? Al freddo muti
se ne stanno i muri, nel vento
stridono le banderuole.
Sembra una poesia unitaria, a cui accordare unitario significato. Ma se la ascoltiamo attentamente in essa abitano due anime, come diceva Goethe. L’esame filologico della genesi del capolavoro dimostra in effetti che, più o meno, Hölderlin disponeva di due suoi frammenti: uno naturalistico, con la squisita immagine della reduplicazione dei cigni e del paesaggio nell’acqua (sobria ma che potrebbe inebriare); l’altro di aspro commento sociale e politico: nei periodi di disastro esistenziale, i coraggiosi stanno saldi come mura nella loro fede – mentre i soliti voltagabbana girano come stridule banderuole al vento del cambiamento. Senz’altro ognuno di questi due nuclei frammentari conteneva le strutture (narratore, oggetto, prospettive secondarie) di una soggettività sua propria (una lirica-elegiaca, l’altra gnomico-etica). La forse fortuita, certo acuta fusione le ha solo superficialmente cancellate: in realtà le ha fuse e ritenute (anche se ce ne rendiamo conto bene solo conoscendo il background). Ora l’opera deve il suo nitore ineguagliabile, io credo, anche al fatto che in essa la soggettività non è determinata, sembra quasi plurale (o reduplicata come i cigni). Qual è esattamente, appunto, la prospettiva dei cigni, e che cosa rappresentano? Qual è la prospettiva delle “mura… senza parola” – i “muri muti” di Contini? Sono la stessa? Le “mura” insinuano un soggetto subordinato che parla di sé stesso? Il soggetto che apostrofa i cigni con “voi” è lo stesso che si interroga sulla ricerca di luce solare nella tenebra invernale? E se sì, ora, quale è il legame, e il registro comune, misterioso? Vorrebbe forse fare, in qualche senso, ciò che ai cigni riesce? Tutte queste domande illuminano la densità semantica di questo “post frammento”, non voluto come tale dal poeta, ma che finisce per diventarlo. Al punto che la vicenda della genesi frammentata pare illuminarlo in modo decisivo.
Anche qui, pur ammirando questi effetti mirabili che sono in parte autonomi (instaurandosi per ragioni formali), in parte frutto della storia della composizione imposta da Hölderlin, dobbiamo ricordarci della plausibile tesi che tutta la poesia, in particolare tutta la lirica, sia frammento. La tesi è affascinante e ha un fondo di verità. (Abbiamo visto che è solo un’approssimazione anche per il romanzo, dove esistono molte gradazioni.) Ma non credo che una completa generalizzazione in questo senso sia lecita. Prendiamo i Promessi sposi, e l’infinito di Leopardi. In entrambi si ha una compiutezza ben conclusa dell’opera, che esclude anche un proliferare di voci non ricomprese, esterne al soggetto (onnisciente nel caso di Manzoni) che parla. Le due opere possono valere come archetipi di non-frammento. Ma naturalmente di un’opera può per accidente (o per un certo disegno, come vedremo subito) rimanere solo un frammento o frammenti – e che idea ci faremmo del Satyricon, già incompleto, se rimanesse solo il frammento della Cena di Trimalcione?
III.
Bisognerebbe ricercare il rapporto tra manoscritto, edizione e frammento. Certi modi di edizione – per tacere delle circostanze – già promuovono necessariamente la moltiplicazione di frammenti, anche solo col presentare diverse stesure, nel loro momentaneo farsi e fissarsi. Le cosiddette edizioni diplomatiche possono moltiplicare i testi e le loro varianti, e con questo, a volte, anche quelle che abbiamo chiamato “voci” interne al testo stesso nella sua pluralità, “prospettive” scaturenti dalla sua stessa incompiutezza.
I manoscritti di Hölderlin (ma naturalmente non solo questi) si presentano così come suddivisi in lunghe raccolte o manoscritti “di lavoro” (originati dal poeta stesso) singolarmente editi, nella loro approssimazione ai testi “definitivi” ma anche nella loro essenziale, intrinseca eccedenza – al punto che si potrebbe parlare di “macroframmenti”. Qui, per una rapida rilettura, mi accontento di fare riferimento alla bella edizione delle poesie in italiano (con testo a fronte) di Luigi Reitani, [10] ma è naturale che tanti più sarebbero probabilmente gli effetti del genere cui miriamo ad essere rilevati, se estendessimo la ricerca alla grande edizione di Stoccarda di Friedrich Beissner, o all’edizione di Francoforte di D. E. Sattler. Essenzialmente, corposi o anche lunghissimi manoscritti, contenenti le versioni prime e anche parziali di molti componimenti, vengono restituiti separatamente, con un imponente effetto cumulativo ed anche ripetitivo, che svela in parallelo parti trascelte e organizzate in maniera diversa, o anche composte in maniera diversa, rispetto ai testi più tardi, tipicamente pubblicati o almeno costituiti criticamente in forma finita. In parole povere, si moltiplicano i frammenti, ovvero il testo presentato sulla pagina stessa dell’edizione critica, in qualche modo, è esso stesso a essere o almeno apparire “frammentato”. E c’è di più.
Considerazioni abbastanza semplici, psicologiche o afferenti ai diversi tempi di scrittura, mostrano altresì che è tutt’altro che facile liberarsi delle osservazioni precedenti invocando l’intenzione d’autore, o la copia definitiva o “bella”, o anche l’eventuale documento pubblicato. Quale intenzione, e di quale momento? E quale revisione, e perché svolta in un certo modo e non in un altro? E a quali vincoli poteva essere sottomessa la pubblicazione? Secondo me, l’inevitabile risultato di una riflessione seria su questi problemi è che, forse, dobbiamo considerare di accettare come “opera”, con tutti i suoi caratteri pur strani, di un autore, anche pagine che si presentano come quelle nelle figure che seguono (originale e traduzione a fronte di Reitani, da un “inno” in lungo corso di compimento). Ma è certo che l’aspetto e la struttura (il lavorio sulla pagina bianca che è la poesia) sono bizzarri e frantumati, dati anche da effetti grafici, e possono ricordare certa poesia sperimentale, oltre che frammenti con varianti. E le “opere” si moltiplicano: quasi un’opera finita ad ogni (modificazione di) “scartafaccio”.
(Dal ms. de [Il] Vaticano; si noti che i mezzi per veicolare l’aspetto della pagina corretta e lavorata dal poeta acquistano anche, a loro volta, un’apparenza grafica autonoma.)
Traduzione:
Finiamo su un altro tipo di frammentarietà. Se la lirica occidentale forse non è sempre, nella sua essenza, e neppure nella sua resa critica, frammentaria, lo è certo nella sua nascita e nella sua tradizione: in quello che oggi leggiamo. Di Alceo, Archiloco e Saffo e altri possediamo praticamente solo frammenti – per di più in scelte fuorvianti. Il discorso in prima persona è congetturale e spezzato, frasi avulse dal contesto suonano come sentenze o pensieri che acquisiscono non sempre debita evidenza, il contesto diviene una decisione positiva ed autonoma del lettore, e anzi i possibili contesti, proiettati dalle parole spezzate, si moltiplicano. (La situazione non è molto diversa, del resto, per la filosofia occidentale, i cui albori ci sono tràditi attraverso i cosiddetti “frammenti dei presocratici” della edizione Diels-Kranz, anch’essa con le progressive integrazioni in seguito a eventuali nuovi ritrovamenti, e con la colpa capitale di aver creato qualcosa di mai esistito: quasi un “movimento” presocratico.) Saffo, la più grande fra tutti i lirici greci, del cui vasto lavoro ci resta una sola ode “intera”, testimonia più o meno di tutti gli effetti che la condizione di frammento può indurre. Abbiamo a volte frasi staccate, sospese, di (in parte acquisita) grandissima seduzione, come l’impareggiabile “(io) dormo sola” (su cui vedi più avanti), e infine l’invenzione di locutori ed enti proiettati ma che non esistono.
Disponiamo di una interessantissima cartina di tornasole per studiare questi frammenti come tali. Un poeta canadese educato a Harvard, (William) Bliss Carman, nel 1904 pubblicò un volumetto dal titolo Sappho. One Hundred Lyrics, probabilmente la sua opera più riuscita. [11] Come si capisce, non si tratta esattamente di una traduzione di Saffo – qui la filologia è sparita. Il suo modus operandi fu invece lineare quanto audace e bizzarro: immaginò i frammenti come ritrovati nella loro integrità, e pensò, così, di tradurli, o meglio “tradurli”. Il libro di Carman dovrebbe essere indagato sistematicamente.
In effetti, nelle sue traduzioni nei Lirici greci, [12] Salvatore Quasimodo, da noi, avrebbe compiuto su Saffo – e non solo – operazioni non così radicali, ma dagli esiti pur sempre notevoli, assai decisi e incisivi. Vediamo ad es.:
TRAMONTATA È LA LUNA
Tramontata è la luna
e le Pleiadi a mezzo della notte;
anche giovinezza già dilegua,
e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros,
come vento sul monte
che irrompe entro le querce;
e scioglie le membra e le agita,
dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele;
e soffro e desidero.
Qui Quasimodo ha unito insieme, con suoi legami, dall’edizione Diehl i frammenti 94, 50, 137, 52, e 20, ricavandone un tutto coerente ma nuovo, cui è attribuito tacite un unico soggetto narrante ed esperiente, che è poi quello del “dormo sola”. Nel frammento (96) intitolato Vorrei veramente essere morta, e splendidamente tradotto, Quasimodo divina la presenza del “discorso” dialogico (un novum per la poesia arcaica), lo sovrappone di conseguenza alla lettera del testo, introducendo il virgolettato, e ricostruisce di conseguenza. Prospettive nuove, probabilmente eccedenti o divergenti rispetto al testo originario, si insinuano. Nella traduzione del frammento 97, A Ermes, ugualmente è un testo comprensibile e completo, dai versi perfetti, ad essere “letto” da relativamente poche tracce: otto brevissime righe tutte spezzate, incomplete e pesantemente integrate:
A ERMES
Ermes, io lungamente ti ho invocato.
In me è solitudine: tu aiutami,
despota, ché morte da sé non viene;
nulla m’allieta tanto che consoli.
Io voglio morire:
voglio vedere la riva d’Acheronte
fiorita di loto fresca di rugiada. [13]
Queste traduzioni sostituiscono una traduzione possibile, integrale, alla polisemica pluralità di prospettive incomplete del frammento di base, che a sua volta è un non-testo, una serie di frammenti, prodotto dalla attività critico-filologica.
Prendiamo un esempio di frammento tradotto appunto con criteri di massima aderenza solo a ciò che è recuperabile del testo, e noteremo subito come il senso che si riesce ad evincere sia accidentato, incerto tra discorso diretto ed attribuito, e generalmente percorso da prospettive conflittuali non nette:
…d’amore…
…
…nel guardare verso…
… Ermione, tale…
…a Elena bionda io paragonarti…
…
…mortali. Sappilo, questo, con la tua
…me dalle mie desolazioni
…
…
…sulle sponde
…
…festa tutta notte [14]
E questa è una traduzione, in cui il curatore, Ezio Savino, ha pur sempre tentato di integrare e supplire alle lacune, in un certo grado. Il testo greco è ancora più, forzatamente, ellittico, anche se forse, al contempo, semanticamente più ricco. Vediamo cosa ha ottenuto con il suo “metodo” ampliativo Bliss Carman dal frammento 94, che Quasimodo ha tradotto in quattro versi, come sopra citato:
XXII
Once I lay upon your bosom,
While the long blue-silver moonlight
Walked the plain, with that pure passion
All your own.
Now the moon is gone, the Pleiads
Gone, the dead of night is going;
Slips the hour, and in my bed
I lie alone. [15]
Tentiamo, giusto per chiudere il circolo, di fornire una traduzione letterale di questa affascinante “traduzione”:
XXII
Già io giacqui sul tuo seno
Mentre la lunga luce di luna blu-argentea
Camminava sulla piana, con quella pura passione
Tutta tua.
Ora la luna è andata, le Pleiadi
Andate, il morto cuore della notte se ne va,
Sfugge l’ora, e nel mio letto
Giaccio sola.
IV.
Il frammento, il non finito o il non del tutto presentato, il parzialmente cancellato o parzialmente ricostruito, è uno dei volti fondamentali dell’espressione poetica, specialmente lirica: a volte è raggiunto intenzionalmente, altre volte è frutto delle circostanze. Sempre, comunque, proiettando e portando con sé una prospettiva entra nel discorso lirico e tra le voci liriche e le complica, con effetti che sono simili, tra l’altro, a quelli del discorso indiretto libero o dell’inserzione di nuove voci parziali, o della rappresentazione di punti di vista prima non esistenti. Alla poesia non è essenziale – sarebbe impoverirla dirlo – la tecnica: è essenziale l’uso o almeno l’effetto delle quasi infinite potenzialità logiche del linguaggio, ideate dal poeta e sedimentate dal tempo. Spero di essere riuscito qui a suggerire un’analisi per un complesso fenomeno di questo tipo.
NOTE:
* Il presente lavoro verte su temi letterari, ma non solo. Si tratta anche di una sfaccettatura di una ricerca che chi scrive conduce da tempo, da un punto di vista sia filosofico sia linguistico, sugli indicali, sui quasi-indicali, sul discorso indiretto libero – e più in generale sulle modalità (sintattiche e lessicali) secondo le quali i pensieri e le emozioni del soggetto che pensa o parla si riflettono e si iscrivono nella struttura linguistica del discorso, oltre che sui modi di riferirsi ai pensieri dei soggetti nelle clausole principali, in quelle secondarie, e nel discorso indiretto. Mi permetto al proposito di rinviare ad alcuni precedenti lavori: “Quasi-Indexicals, Kaplanian monsters and self-consciousness”, in A. Palma, ed., Castañeda and his guises: essays on the work of Hector-Neri Castañeda, Berlin, De Gruyter 2014, pp. 161-186; “Reflections on Quasi-Indexicals, Self-Consciousness and Self-Knowledge”, in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia, 8(2), 2017, pp. 193-206; “Poetry as Purgatorial: Dante and the Language(s) of Purgatory”, In K. Van Houtte, B. McCraw (eds), Purgatory: Philosophical Dimensions, London, Palgrave McMillan 2017, pp. 175-197; “Sull’Orlo del Medioevo: Dante, l’Indiretto Libero, e il concetto di Opera”, in Luci sul Medioevo. Età logica, età delle lingue d’Europa, età degli Studia Generalia: convegno internazionale di studi, Ragusa, Edizioni di storia 2023, pp. 208-223; e infine “Chi parla? Discorso Indiretto Libero, Lessicalità, e Autocoscienza”, in corso di pubblicazione. Ringrazio Pasqualino Masciarelli e Luca Lenzini per le loro osservazioni.
[2] Testo da: https://www.poetryfoundation.org/poems/46565/ozymandias (da Shelley’s Poetry and Prose (1977)). Lo schema dei pentametri giambici è ABABACDCEDEFDF, con non poche rime o semi rime interne, specie in -ed e in -and(s), che potrebbero parzialmente anagrammare la fine di “Ozy-m-andias”.
[3] S.v. Fragment,
[4] Ermanno Bencivenga (comunicazione privata) sostiene che – contrariamente alla prosa – tutta la poesia sia, per essenza, frammento. (La tesi è, in altre forme, antica: l’accensione della forma lirica non tollera altri spazi.) Questo è verosimile, ma è poi una questione di grado quanto frammentario sia un testo, e se lo sia per sua essenza tipologica, per intenzione d’autore, o ancora – il vero o effettivo frammento – per accidente della trasmissione. E, in ogni caso, il punto è capire che cosa causi la “frammentarietà” intrinseca della poesia – certamente, soprattutto lirica. Per capirlo, ci si interroga qui sulla intrinseca “poeticità” del frammento (un frammento, ovviamente, di un certo tipo), attraverso la sua innata ambiguità, polisemicità, interna soggettività, produttività formale – prima ancora che sulla frammentarietà della lirica.
Si veda anche Rüdiger Bubner, “Gedanken über das Fragment. Anaximander, Schlegel und die Moderne”, in Merkur. Deutsche Zeitschrift für europäisches Denken, April 1993, 47/4, Heft 529, pp 290-299. Il tema del frammento filosofico è di altissimo interesse, ma qui è fatta la scelta consapevole di non addentrarvisi. Tuttavia, Bubner fa un’osservazione preziosa (p. 294): il frammento pone sempre la domanda circa la propria forma – che poi è come dire: proietta una voce o prospettiva nuova e allude alla propria origine perduta.
[5] Giulio Herczeg, Lo stile indiretto libero in italiano, Firenze, Sansoni (Biblioteca di Lingua Nostra) 1963, p. 18. Vedi anche p. 46, 56 ss: altre caratteristiche possibili sono, tra quelle citate da Herczeg e quelle che aggiungo io: eventuale sintassi nominale, o discorso segmentato, o elittico, eventuale uso di congiuntivi o condizionali, infiniti esclamativi, interrogativi o storici o con altre funzioni, uso di nomi astratti, scambio di avverbi o altre parti del discorso (“mostri”: come “ieri” invece di “il giorno prima”, e “questo” anziché “quello”), costrutti “etici” o con sfumature emotive, apposite scelte lessicali, mancanza di coerenza oggettiva nel ductus. Cfr. anche G. Herczeg, “Stile nominale nella prosa italiana contemporanea”, in Acta Linguistica Hungarica, IV, 1954, pp. 171-192. Per un punto di vista più tecnico cfr. ad es. P. Schlenker, “Context of Thought and Context of Utterance (A Note on Free Indirect Discourse and the Historical Present)”, in Mind and Language, vol. XIX, n. 3, 2004, pp. 279-304; A. Banfield, Unspeakable Sentences. Narration and Representation in the Language of Fiction, Routledge & Kegan Paul, Boston/London/Melbourne 1982.
Ci sono inoltre aspetti, più che puramente stilistici, riguardanti effetti tipicamente soggettivi ed emotivi, veicolati dalla scelta di parole, da certi elementi sintattici, dalla struttura di frase e in taluni casi dagli esclamativi, ecc. Si parla allora anche di discorso indiretto libero lessicale. (Tra parentesi, è più corretto “stile indiretto libero”, perché, nonostante l’uso che non cambieremo, questa struttura sembra agire pure nel mimare non discorsi, ma anche pensieri del soggetto interno che non sono vocalizzati né, addirittura, vocalizzabili.)
[6] L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella letteratura moderna, Torino, Einaudi 1984, 2014, specie il primo, il secondo e il sesto capitolo.
[7] Vedi la bella edizione a cura di Sebastiano Vassalli, Un po’ del mio sangue, Milano, Rizzoli 2005.
[8] Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori 2021. Qui Edizione del Kindle, Pos. 2266.
[9] Alcune poesie di Hölderlin, tradotte da G. Contini, Torino, Einaudi, orig. 1982, poi nella “bianca” 1987, p. 23. Contini traduce anche frammenti di altri testi.
[10] Tutte le liriche, Milano, Mondadori (I Meridiani) 2001.
[11] Boston, L. C. Page and Company, with an Introduction by Charles D. Roberts. Io ho consultato la seconda edizione, London, Chatto and Windus 1907, disponibile su googlebooks.
[12] La mitica edizione dei Lirici greci è ora disponibile con una introduzione di Giuseppe Conte: Lirici greci, Milano, Mondadori 2018. Qui faccio sempre riferimento ai testi e alle traduzioni in Saffo, Liriche e Frammenti, tradd. di S. Quasimodo ed Ezio Savino, a cura di E. Savino, Milano, Feltrinelli 2002. (Ho consultato anche Lirici greci, a cura si Simone Beta, tradortti da Filippo Maria Pontani, Torino, Einaudi 2008, 2018; interessante nell’Introduzione il riferimento, attraverso Aristotele, a possibili personae loquentes di personaggi fittizi dietro i frammenti: p. VII.)
[13] Op. cit. a cura di E. Savino, p. 39.
[14] Op. cit. a cura di E. Savino, p. 67.
[15] Bliss Carman, op. cit., p. 28.