Il brusio dell’incompiuto. Rileggendo Giorgio Caproni – di Luca Lenzini

Il brusio dell’incompiuto. Rileggendo Giorgio Caproni – di Luca Lenzini

12 Gennaio 2025 Off di Francesco Biagi

Scrive Giorgio Caproni nella Nota in coda a Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965):

Forse questo Congedo è ancora incompiuto, se il brusio che sento nella mente è quello non di un solo mézigue che, nelle brevi pause in cui m’è concesso di dare ascolto alle “voci” (ci son tante cose da fare, nel mondo), sta preparandosi per entrare in iscena. Può darsi che un giorno io trovi il tempo di portare il libro a compimento. Ma chi si fida della speranza? Per questo mi son deciso, intanto, a licenziarlo com’è[1].

La breve nota è nella forma, consueta in Caproni, dell’understatement, ma in poche righe allinea per il lettore una serie di informazioni che vanno assai oltre il piano della mera didascalia di circostanza, irradiando suggestioni e indicazioni in più direzioni: sul libro del ’65, sul suo (possibile) futuro ma anche, indirettamente, sul modo di comporre ovvero sulla speciale poetica (a quell’altezza) dell’autore. Posta dopo l’ultima sezione del Congedo intitolata Versi spersi (due sole poesie: Nebbia e Odor vestimentorum), la Nota, una sorta di congedo dal Congedo, avverte il lettore del particolare status del libro: che, pur licenziato, potrà, «un giorno», avere un «compimento», quindi una nuova struttura; non solo, ma con il riferimento al mézigue (“me stesso” in argot) è altresì introdotto nella Nota il tema dello sdoppiamento e della moltiplicazione o diffrazione dell’io lirico: una pluralità di «voci» abita, anzi popola la poesia caproniana, e basterà notare che per stare al Congedo oltre al Viaggiatore vi prendono la parola (in “prima persona”), per esempio, il «guardiacaccia», la «guida» e il «preticello»; mentre qualche anno dopo, nel Conte di Kevenhüller (1986), si avrà persino una dolente epifania degli io passati, il cui numero «si perdeva nel vuoto / come nel vento il numero / delle foglie» (Oh cari[2]).

È un tema, questo dello sdoppiamento/proliferazione degli io, rilevato per tempo e ampiamente commentato dalla critica, in particolare in relazione all’ultima fase della produzione dell’autore, in concomitanza con la specifica e originale “teatralizzazione” del discorso poetico che, proprio nel Congedo, cioè nel libro posto «a un crocevia risolutivo del cammino creativo del poeta» (Surdich[3]), ma diffusamente anche altrove, vi ha luogo in modo estremamente efficace, mettendo definitivamente in scacco, non senza ironia, una nozione di lirica intesa in chiave di unitaria e sclerotizzata espressione della soggettività. Si noterà che, non per nulla, a proposito delle voci residenti nella mente del poeta («frammentarie e discorsive, a strappi ed effimere», così Frabotta[4]) la Nota parla – appunto teatralmente – di «entrare in iscena» … Cos’è dunque il «brusio» che il poeta avverte nella mente, al momento di dare alle stampe il Congedo, se non il rumore sommesso e insistente prodotto da quella singolare compagnia stanziata nei dintorni dei testi futuribili che del libro sarebbero il suggello ma che sono, ancora, allo stato albeggiante, liminare, sorta di «ciarlette nel ridotto[5]»? Di «mormorii / diversi. Voci. Brusii.» c’è traccia anche all’interno del libro (Prudenza della guida, vv. 33-34), sempre entro un orizzonte d’attesa; ma il piccolo coro evocato dalla Nota per il momento non si affaccia alla ribalta del testo, non si manifesta nel libro pubblicato; eppure è lì e si fa sentire, col suo ronzante mormorio, dal retroscena, là dove – chissà – si discute delle parti in commedia, come potrebbe fare una banda ciarliera di personaggi pirandelliani in procinto di presentarsi sul palcoscenico.

Un’atmosfera di aspettativa, per tramite della Nota, s’insinua nel libro, ma cautamente: «forse», «un giorno» …; il fatto è, comunque sia, che il nuovo copione non c’è ancora e il libro chiuso resta sotto il segno dell’incompiutezza, di una mancanza, come in stand by in vista dell’ipotetico ma malcerto completamento. Con la sua scia di voci latenti, di sviluppi incombenti ma indefiniti, che per così dire bussano alla porta della raccolta ma senza entrarvi, senza prendervi profilo e forma, il Congedo è quindi un congedo provvisorio, un arrivederci? Per giungere a compimento, ci dice Caproni, la raccolta richiederebbe un tempo di «ascolto» che il poeta, immerso nel fluire ingovernabile del presente e soggetto alla legge dell’ars longa, vita brevis, non è in grado di programmare. Siamo con ciò sotto il segno dello “stile tardo”, il cui maligno spiritello se la gode a ricordare la finitezza dell’uomo e, insieme, l’infinità del suo Streben[6]. Ci sono «tante cose da fare», del resto, sicché collocato com’è nel territorio fascinoso ma tutt’altro che solido o scontato della «speranza», sul libro intero si allunga l’ombra del possibile irrealizzato; e invece di chiudersi è come si arrestasse, in sospeso, nella dimensione aperta e ottativa dell’«intanto» e del «forse».

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Si sa che in tema d’incompiutezza e di «ultimo tocco» nei suoi scritti Nietzsche ha svolto riflessioni a tutt’oggi cardinali[7], specie per l’accento posto sul rapporto tra frammento e totalità, motivo che non è fuor di luogo richiamare nel caso di Caproni. Sulla particolare incompiutezza del Congedo vigila una quota d’ironia, ma questa non è sufficiente ad allontanare l’aura nicciana che elegantemente circola tra le pagine del libro, in versi dialogici e di forte impronta gnomica: anche quell’aura ha a che fare, infatti, con la «superiore attrattiva» di cui parla La Gaia Scienza, tale da guidare il lettore alla visione di quella «più sacra ed ultima realtà[8]» a cui tende, disperatamente ma non senza speranza, l’artista. Che poi ci sia un nesso tra l’insistenza sulla negazione dell’ultimo Caproni – che si potrebbe riportare, via Nietzsche, alla costellazione Adorno-Beckett e quindi al cuore del Moderno – e le molteplici voci che si rincorrono nei suoi spartiti, tanto disseminati di paradossi quanto sempre sulle tracce di un’ultima, conclusiva parola, non sembra ragionevole dubitare: è l’infinita, incessante dialettica che anima la ricerca in progress del Conte di Kevenhüller, del Franco cacciatore, infine di Res amissa, che se implica una base narrativa (la caccia, il viaggio…), regolarmente s’impunta in clausole di pregnanza aforistica che ruotano sulla diserzione della Trascendenza, sul Niente e sul Vuoto, nomi che come il Male e il Bene suonano astratti ma hanno nelle vicende narrate una precisa funzione allegorica e una loro testuale e mondana concretezza e risonanza.

Il bello è che la sequenza dei frammenti e delle “arie” sembra ogni volta interrompersi, in questo Caproni, per poi riavviarsi con memorabili incipit, magistrali messe in scena e affabulanti allocuzioni («Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia.»; «Sono un povero prete. / Guardatemi.»; «Li ho visti tutti. Sedevano / (le gambe penzoloni) / sulla spalletta,»), sicché, quasi in una giostra, il gioco può ancora e di nuovo, per il moto perpetuo che gli è intrinseco, ricominciare daccapo, ripartire con un’altra Quest, con altre voci, altre conclusioni lapidarie e provvisorie («[…] il seguito /e la fine (l’incipit?) / al prossimo numero», Rinvio, vv. 3-5). È qui, in questa dialettica (di ordine propriamente conoscitivo), l’origine delle voci che non sanno, non possono tacere e col loro brusio inseguono il poeta? È questo, cioè, il movente dell’Incompiutezza? Se ripensiamo agli io riapparsi in Oh cari, di fronte ai quali il poeta chiude «la finestra» e «il cuore», nonché «la porta. // A doppia mandata.» si può anche sospettare che in questa parata di revenants e «asparizioni» – la prosopopea non è la «figura retorica per cui si introducono a parlare persone assenti o defunte, o anche cose inanimate, astratte, come se fossero presenti, vive, animate[9]»? – essi portino con sé il peso del rimosso, più precisamente del possibile irrealizzato, che nel brusio è forse accolto come ospite riluttante al silenzio, sintomo perturbante.

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Se quanto annotato fin qui può, per ipotesi, valere per il Congedo a livello di “macrotesto” e latamente di morfologia dell’opera in questa fase, va tuttavia rilevato e sottolineato che tratti d’incompiutezza e forme di quell’«eloquente sottacere» di cui parla Thomas Mann per la musica si trovano, nell’opera di Caproni – eccome… – nel corpo dei singoli testi; anzi qui essi giocano un ruolo importante, strettamente collegato alla dialettica appena intravista alla base delle magie del «misterioso musico ligure-toscano» (Bertolucci[10]), che non si finirebbe di commentare tanto sono invitanti ed elusive. Rintracciabile quasi ad apertura di pagina il discorso sospeso, interrotto o in pausa diventa strategico nel peculiare assetto di raccolte come Il conte di Kevenhüller o Il franco Cacciatore, Res amissa: Enrico Testa segnala, come esempio della «rastremazione testuale dell’ultimo Caproni[11]», Alla foce, la sera (del 1985, ne Il conte) ma casi analoghi spesseggiano nei libri precedenti e successivi: per citare i casi più lampanti Larghetto, Radura, Albàro, Idillio, Träumerei, L’esitante nel Franco cacciatore; L’ora, La preda, Supposizione, Un niente, Ipotesi, La porta, L’ubicazione, Passeggiata, Di un luogo preciso nel Conte di Kevenhüller; Senza titolo, Incontro, All’ombra di Torquato Tasso, Res amissa in Res amissa. A tale pluralità di casi corrisponde peraltro una tipologia assai varia quanto all’uso dei punti di sospensione: a volte essi stanno a indicare una lacuna vera e propria (di regola una sequenza più ampia di questi segni d’interpunzione, corrispondente a una unità versale, in ogni caso ad un “salto” nell’ordine del discorso), altre volte si trovano all’interno di citazioni, estratte da un più ampio brano testuale, espressione stereotipa o anche opera reale o immaginaria («“Il libro della natura…”»), altre volte ancora sono collocati nell’incipit e/o in chiusura di testo, incorniciando la composizione o una sua parte: «…Nelle regioni gialle / del sogno / Dove / sempre smarrisci nota / la via del ritorno…» (Ipotesi), «……….. La porta / bianca…» (La porta), «….. La freccia / d’odio.» (Strambotto), «…Comunque, mattone o sughero» (Rinvio), «……… un’ombra / che stringe la mano d’ombra / a un’altra ombra…» (Il patto).

Ebbene, questa casistica sconsiglia facili generalizzazioni in tema di incompiutezza, mentre suggerisce di considerare i procedimenti omissivi o sospensivi nel quadro più ampio dei fenomeni caratterizzanti il comporre caproniano, come ad esempio, sempre citando Testa, l’impiego reiterato della parentesi quale «periclitante grafema del vuoto e dell’inconcluso[12]», oppure la calibrata e al tempo stesso invadente presenza del bianco nei testi. Quest’ultima non ha nulla di ungarettiano, e meno ancora di mallarmeano: a dircelo è la stessa morfologia delle poesie, che nel poeta dell’Allegria e nella sua folta discendenza rinvia alla dimensione “assoluta” di una verticalità insita nella durée, e in Caproni si sviluppa invece sul piano orizzontale di una narratività non meno scoperta perché discontinua o intermittente. Il non detto qui non riguarda alcuna poetica dell’Ineffabile: è la mimesi del parlato a proporre esitazioni e sospensioni al recitativo; ed uso questo termine per riprendere e sottolineare il tema della teatralità caproniana, centrale per intendere l’insieme dei fenomeni ora accennati e ciò a cui allude la mimica testuale che li organizza. In particolare il silenzio che riempie gli «intervalli vuoti» (Fortini[13]) ha carattere teatrale ed è in questo senso strutturale che il parallelo con la musica, su cui tanti hanno giustamente insistito[14], trova conferma.

Dire che i testi di Caproni si presentano in effetti come spartiti non è una forzatura metaforica: le battute a vuoto appartengono alla partitura non meno dell’enfasi di un incipit. Come una volta ha osservato Vittorio Sereni c’è in Caproni, a suscitare voci ed echi, «un’acuta percezione del rapporto tra suono e silenzio[15]»; e non c’è solo la metrica delle singole poesie, c’è nel suo lavoro poetico una metrica maggiore che ordina pieni e vuoti, arresti e ripartenze, silenzi e prese di parola, parti vocali e parti mute. Del resto, come potrebbe esistere una discontinuità senza implicare un continuum, sia pure virtuale? «Non c’è omissione testuale che non rimandi a una pienezza extratestuale; e questa sta al testo come l’ombra al corpo», si legge in un bel saggio che alle lacune è interamente dedicato[16]. A rileggere Caproni tutto d’un fiato è questa musica che continua a riecheggiare nella mente, come un’ombra persistente e un favoloso invito a seguire il pifferaio per i suoi interrotti sentieri.

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«…l’uomo che di notte, solo, / nel «gelido dicembre, / spinge il cancello e rientra / – solo – nei suoi sospiri…»; «…l’uomo che se ne va / e non si volta: che sa / d’aver più conoscenze / ormai di là che di qua…»; «…l’uomo che nel buio è solo / a bere: che non ha / nessuno, nell’oscurità, / cui accostare il bicchiere…» In apertura al Congedo le laconiche quartine in rima di In una notte d’un gelido dicembre, Senza titolo e Il bicchiere, sospese e come galleggianti nel non detto, espongono il tema – come si dice per la musica, per l’appunto – della solitudine e della malinconia (melancholia illa allegorica, secondo la variazione di Ferruccio Masini sul Benjamin interprete di Baudelaire[17]). Accordi, «vocalizzi prima di cominciare[18]»? Certo è che, come osserva Surdich[19], in questi frammenti in apparenza sciolti da una trama, i motivi «della solitudine e della morte» sono «proiettati dal poeta in una generale e universalizzante figura di “uomo”, alla terza persona», funzionando da «preambolo (o avvertenza) e da cucitura (o richiamo interno)»; ed essi quindi sciolti non sono bensì hanno un ruolo per così dire a distanza, che interessa la raccolta nel suo insieme. Si veda allora come si diano poi nel libro componimenti di respiro poematico, i cui personaggi non sono affatto anonimi né figure astratte, ma rimandano all’«infanzia livornese» del poeta: «Otello, il Decio, il Rosso, / l’Olandese. Il Vigevano» (Scalo dei fiorentini); personaggi che coi loro soprannomi evocano una comunità e sono passati in rassegna, al momento «dello scacco della scoperta del vuoto e lo sgomento della solitudine e della morte.[20]» Personaggi concreti, dunque, sottratti all’oblio ma, al tempo stesso, collegati sul piano del “motivo” alle figure universalizzanti e, in quanti tali, anonime e astratte dei “quadri” che in precedenza si accampavano, come epigrafi o sparsi exempla, sulla pagina. In questo rapporto di rispecchiamento, cooperazione e strutturante reciprocità tra componimenti dello stesso libro (ovvero tra frammenti e racconto) si può scorgere una delle sapienti procedure di oggettivazione e teatralizzazione del momento soggettivo proprie di questo Caproni, ma a veder bene non è, questo, che un aspetto del suo inimitabile artigianato, che del non detto sa attivare la potenza come pochissimi altri. E forse proprio per questo, facendo interagire lirico e narrativo, il poeta può rivendicare la propria inesauribile libertà creativa, capace di fondere memoria e straniamento, invenzione e rifacimento, poema e frammento. Sempre Sereni ha sottolineato la «stupefacente, glissante inventività[21]» del poeta: non si potrebbe dir meglio, se nel glissare c’è l’idea della lacuna ma anche un’allusione musicale. E come i suoi «svolazzi», gli «improvvisi», le «cadenze», gli allegretti e i temi «con variazioni» disseminati nell’opera in versi, anche il brusio senza fine dell’incompiuto ne fa parte, e vi fa brillare un residuo incancellabile di utopia.

 

NOTE: 

[1] Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Milano, Garzanti, 1965, p. 111; poi in Tutte le poesie, ivi, 1999, p. 287.

[2] Cito da G. Caproni, Tutte le poesie cit., p. 623. La poesia è datata 1982.

[3] Luigi Surdich, Caproni. Un ritratto, Genova, Costa & Nolan, 1990, p. 81.

[4] Biancamaria Frabotta, Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto, Roma, Officina Edizioni, 1993, p. 108.

[5] Così s’intitola una sezione de Il conte di Kevenhüller.

[6] Rinvio per questo tema al mio Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Macerata, Quodlibet, 2008.

[7] Ne fornisce un attento ragguaglio, proprio in relazione alla lirica novecentesca e oltre, Enrico Testa nell’ampio saggio Il testo inoperoso. Discontinuità e non finito in poesia, in «La lingua italiana», II, 2006, pp. 27-38.

[8] Frederic Nietzsche, Idilli di Messina – La gaia scienza – Scelta di frammenti postumi, in Opere complete, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1991, pp. 103 – 104.

[9] Treccani, https://www.treccani.it/vocabolario/prosopopea/

[10] Attilio Bertolucci, Un’ansia religiosa senza maledettismo [1975], in Ho rubato due versi a Baudelaire. Prose e divagazioni, a cura e con un saggio di Gabriella Palli Baroni, Milano, Mondadori, 2000, p. 245.

[11] E. Testa, Il testo inoperoso… cit., p. 32.

[12] Ibidem.

[13] Franco Fortini, I poeti del Novecento, Roma – Bari, Laterza, 19771, p. 166.

[14] Vedi almeno Giorgio Caproni e la musica: atti del convegno della 5. edizione del Premio letterario Lerici Golfo dei Poeti, a cura di Maria Luisa Eguez, Ed. Cinque terre, 2013.

[15] Vittorio Sereni, Un poeta di poche parole [1982, in Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, Milano, Mondadori, 2013, p. 1075.

[16] Nicola Gardini, Lacune. Saggio sul non detto, Torino, Einaudi, 2014, p. 5. Non meno stimolante, al riguardo, il recente Marco Gatto, Critica dell’inespresso. Letteratura e inconscio sociale, Macerata, Quodlibet, 2023.

[17] Ferruccio Masini, Brecht e Benjamin: scienza della letteratura e ermeneutica materialista, Bari, De Donato, 1977, pp. 113 segg.

[18] Così una sezione de Il muro della terra.

[19] L. Surdich, Giorgio Caproni… cit., p. 82.

[20] Ibidem.

[21] V. Sereni, Un poeta di poche parole cit., p. 1074.