Autoritarismo e scuola: non solo un’ipotesi – di Elettra Stamboulis

Autoritarismo e scuola: non solo un’ipotesi – di Elettra Stamboulis

31 Marzo 2025 Off di Francesco Biagi

 

Ad Andrea Canevaro

Che sicuramente avrebbe potuto fare meglio

 

 

Ho accolto con grande piacere l’invito ad una riflessione più strutturata su questo aspetto: mettere a fuoco “la figura autoritaria”, rievocare le pratiche che la rendono efficiente e radicata nella nostra cultura quotidiana, aiuta a rivedere prima di tutto la nostra postura. Intendo proprio la postura del corpo, che è la prima ad essere controllata e a rendere poi possibile la riproducibilità della pedagogia autoritaria a livello intergenerazionale.

Vorrei anche fare un breve preambolo teorico – pragmatico: teorico, perché è la base concettuale su cui voglio articolare il mio intervento sulla nuova figura autoritaria a scuola, pragmatico perché si basa su osservazioni empiriche dirette, la maggior parte delle quali sono visibili agli occhi di tutti coloro che osservano bambini e bambine, ragazzi e ragazze, andare a scuola.

Noi impariamo con i nostri corpi prima che con le nostre menti. Ogni percezione inizia con percezioni del corpo, prima di tutto relative alle relazioni con altre persone e istituzioni. Anche le idee sono immagini corporali, traduzioni di incontri fisici e di azioni… Questo significa che il processo educativo avviene principalmente nell’azione, ma diventa un processo di reale emancipazione solo nella misura in cui la persona sviluppa una disciplina di riflessione rigorosa su quelle azioni”[1]: questo passaggio, citato dalla Sclavi in un suo intervento a 900Fest per fortuna riprodotto in opuscolo, risulta a mio avviso cruciale per comprendere come nel processo educativo lo iato tra controllo dei corpi e dettato dei documenti programmatici risulti stridente. È dai corpi che bisogna partire, perché è attraverso di loro che si costruisce il nostro apprendimento sulla relazione con il potere. Il passo citato fa parte di una sorta di breviario dei passi necessari per formare un cittadino/a democratico ed era rivolto in particolare ai Community organizers della scuola di Saul Alinsky. Alinsky è una figura chiave nella creazione di un movimento democratico di comunità che vede nell’organizzazione partecipativa negli Stati Uniti uno strumento potente e sottovalutato per cambiare le politiche soprattutto urbane. Uno degli organizers più famosi è stato Barack Obama, che a Chicago cominciò così il suo impegno politico, anche se poi per la strada perse alcuni aspetti peculiari, questo non toglie che l’approccio dei Community organizers sia stato uno strumento potente di rete[2]. È interessante notare che in questo approccio, che parte dall’esperienza sindacale e attraversa la scuola sociologica e filosofica, l’aspetto educativo è sempre presente. Perché mentre sulla famiglia non abbiamo strumenti essenziali se non di prossimità nell’intervento, nell’ambito educativo e quindi collettivo, la responsabilità di un approccio democratico e quindi liberante è collettiva. Nel manifesto, riportato in traduzione da parte di Sclavi, degli organizers viene sinteticamente e in modo chiaro riportato un principio spesso non esplicitato nella nostra cultura sia organizzativa che di rappresentazione collettiva:

Il potere non è qualcosa che uno ha, è qualcosa che gli altri pensano che abbia. A questa arroganza, una specie di droga che porta alla paralisi e alla rassegnazione, va opposta un tipo di organizzazione che trae la propria energia dalla solidarietà tra gli oppressi, dalla curiosità, dalla scoperta, dalla flessibilità e continua invenzione e aggiramento dei blocchi di potere. L’umorismo, la satira, la caricatura, gli scambi di socialità e di risate sono parte fondamentale dell’educazione sentimentale del cittadino agente di democrazia.

 

Questo intervento deve molto allo studio di alcuni autori, tra cui Francisco Ferrer Guardia, Maria Montessori, Paulo Freire, bell hooks, Gert Biesta. Ma deve molto anche alla lettura filologica dei documenti ministeriali e all’osservazione degli ambienti scolastici non solo in cui ho “abitato” (quando si è dentro al proprio contesto è difficile vederlo) ma che ho visitato. Quello che parla maggiormente di autoritarismo o non autoritarismo all’interno delle scuole sono le pratiche dei corpi, la ripetizione dei gesti, come i corpi sono o non sono controllati, come sono organizzati gli spazi stessi dicono molto della cultura educativa. Ancora ci sono aule in cui la cattedra è sopraelevata. Il 95% delle aule delle scuole superiori italiane è organizzato in modalità frontale , non ha nessun mediatore alle pareti, non prevede spazi personalizzati da parte degli studenti che lo abitano. Come quando entriamo in casa di qualcuno, capiamo moltissimo dalla sua libreria o dai colori che ha scelto nell’arredamento. Gli spazi, a prescindere dall’organizzazione, in qualsiasi ordine e grado sono controllati dagli adulti. Non ci sono spazi che siano gestiti nell’autonomia degli studenti, se non in pochissimi casi di dirigenti illuminati e avanguardistici, come fu quello di Aluisi Tosolini a Parma[3]

La seriosità, l’assenza di ironia e la percezione data dallo sguardo degli altri e dal proprio di “meritarsi” un ruolo di potere, costituiscono aspetti diffusi del clima che prepara all’autoritarismo. Da questo punto di vista la pretesa dell’autorevolezza derivante dal ruolo dei docenti “da onorare” a prescindere è lontana dal concetto del rispetto tra umani: presuppone che l’espressione del potere emanato dal ruolo implichi direttamente una subalternità. Ovviamente quando si fa riferimento all’ironia, non si parla della farsa che irride apparentemente i potenti e che fa parte dell’armamentario populista.

 

Questa premessa è necessaria quando parliamo di scuola e nuova figura autoritaria, in quanto costituisce una cornice necessaria per osservare e puntualizzare alcuni elementi che riguardano appunto le forme organizzative, il modo in cui i corpi si muovono nelle scuole italiane, dimenticando l’apparato discorsivo, ovvero la normativa che spesso sembra dissociata.

L’analisi visiva degli spazi scolastici, le locuzioni presenti non tanto nei documenti programmatici, quanto nelle note esplicative del Ministero, la struttura organizzativa verticistica e solo apparentemente democratica, le pratiche oziose, gli impliciti culturali, rendono la scuola italiana particolarmente permeabile a forme autoritarie e rigide. Di fatto, l’autonomia scolastica è tale solo a livello amministrativo e nella attribuzione delle responsabilità ai dirigenti scolastici, ma nei fatti è improntata ad un modello fortemente verticista e ingessato.

Questa struttura ha un diretto effetto sugli apprendimenti (è una scuola fortemente elitaria in cui uno studente su 7 non ce la fa) e che porta uno studente su 4 che arriva ad un diploma a esiti da “guscio vuoto”, definizione utilizzata da Dewey per incorniciare iconicamente ciò che i sistemi educativi che non mettono al centro teoria e pratica conseguono[4]. L’autoritarismo in ambito educativo, infatti, non solo mina le basi della futura democrazia, ma compromette anche gli apprendimenti. Se le mie domande, se le mie risorse personali, se il mio movimento, non hanno cittadinanza dentro la scuola, imparerò meno e peggio. Se l’importante è aderire alla procedura disciplinare, all’apparente conformità, l’apprendimento e la curiosità sono elementi non così significativi e osservati. Ma anche chi arriva con risultati scolastici positivi al termine del percorso, introietta delle forme gerarchiche autoritarie e conservative perché diventano un habitus, una forma introiettata di apprendimento sociale.

 

La nascita della scuola pubblica o estesa, che coinvolge non solo una piccola élite, porta con sé istantaneamente la comprensione di questi processi. La tensione dialettica tra autoritarismo versus educazione democratica alimenta, sin dalla fine del ‘800, la consapevolezza che senza la seconda, ovvero l’educazione democratica, la formazione per tutti è una facciata formale che serve solo a duplicare una condizione sociale di subalternità che va confermata dagli esiti di chi cerca di superare uno iato sociale attraverso la scuola. Non basta estendere a tutti l’obbligo d’istruzione, è necessario estendere a tutti e tutte pratiche democratiche di educazione. Altrimenti stupirsi della definizione dell’ultima indagine di Democracy Index[5] che ci vede al 34mo posto come “democrazia imperfetta” è ipocrita.

Nel 2017 la fiducia dei cittadini nelle forze dell’ordine nei vigili del fuoco era ampiamente sopra la sufficienza. Molto al di sotto, quella per il sistema giudiziario e il parlamento e i partiti politici. Quando, in un paese democratico, si ha più fiducia in coloro che sono preposti alla sicurezza fisica personale rispetto a coloro che devono garantire il funzionamento democratico qualcosa non funziona. L’astensionismo non più endemico ma normalizzato dalle elezioni non stupisce se letto con questa lente di ingradimento.

E la scuola? Voglio dare alcuni numeri, nella scuola dell’infanzia, tra docenti e alunni, abbiamo 1.120.000 persone. Nella scuola primaria i soggetti coinvolti sono 2 milioni 800mila. Nel sistema della Scuola secondaria,  1 milione ottocentomila sono alla Secondaria di Primo Grado e 2 milioni 800mila sono in quella di Secondo Grado. Parliamo di 8 milioni e mezzo tra professionisti e studenti. È sicuramente l’esperienza sociale collettiva più estesa nel Paese, nonché la più importante “industria” pubblica: occupa una percentuale rilevantissima dei dipendenti pubblici. Un italiano su 10 è coinvolto in modo diretto o indiretto nel processo scolastico.

Questa esperienza collettiva caratterizza la nascita della nostra nazione con intensità in continuo incremento: dalla legge Casati che arriva prima di Roma capitale nel 1859 e interessa una parte quasi irrilevante di popolazione, tant’è che oltre l’80% della popolazione risulta analfabeta[6], alle leggi del dopoguerra repubblicano, in poco meno di cento anni gli italiani sono passati dal non sapere sottoscrivere il proprio atto di matrimonio, da una quasi completa alfabetizzazione secondaria. In questo contesto, tutto sommato brevissimo dal punto di vista storico: la pressione più forte per l’estensione dell’istruzione pubblica viene da Louise Michel, Bakunin, Tolstoj e in generale dal movimento anarco – socialista largamente inteso. Nessuno di loro immagina un sistema di diffusione delle idee autoritarie mediante un sistema basato su un potere gerarchico, ma immaginavano, e spesso praticavano, una pedagogia libertaria. Tuttavia se si legge Katharina Rutschy[7], si comprende che il totalitarismo si è maggiormente appropriato della proprietà conformante del sistema educativo di massa. Questi aspetti, apparentemente meramente storici, ci aiutano a scardinare un bias cognitivo che caratterizza il dibattito pubblico sulla scuola, che alimenta in modo molto importante le pratiche effettive nel contesto educativo: da una parte c’è l’innovazione didattica, che è quella cosa nuova che dobbiamo ancora imparare a fare, e dall’altra c’è la tradizione, che ha sempre funzionato e a cui è opportuno comunque attenersi e che sta nelle pratiche autoritarie e gerarchiche. Di fatto è esattamente il contrario: la nostra tradizione, ad essere precisi, è più orientata alle pratiche Montessori che vengono prima della riforma Gentile. La nostra tradizione, che peraltro viene addirittura “esportata”, deve molto a Margherita Zoebeli e alla scuola Italo svizzera di Rimini, all’esperienza educativa delle scuole dell’infanzia emiliana e al modello Reggio Children. Sappiamo che questa tradizione funziona in modo molto più significativo per la maturazione delle competenze socio emotive e quindi anche cognitive.

La soggettivazione, la socializzazione e la qualificazione (conoscenze e competenze che consentono di agire nel mondo) sono gli aspetti che Gert Biesta mette in rilievo teoricamente[8] e che nella nostra tradizione pedagogica attiva sono praticati. Il secondo bias cognitivo, che è presente nei documenti ministeriali degli ultimi 25 anni, non è quindi presidio di una destra politica ma di un clima culturale, è che la qualità dell’educazione sta nel controllo. Nell’età della misurazione la qualificazione rischia di diventare prevalente, mentre l’attenzione al soggetto deve essere al treno. Il “gesto educativo” è quello di far incontrare, avvertire lo studente del suo essere soggetto. Questo non toglie che ci sia anche un aspetto qualificativo, ovvero l’imparare a fare delle cose, ma la scuola come luogo in cui il soggetto scopre di essere sé deve ritornare ad essere preponderante, proprio per garantire la possibilità di attiva presenza sociale del soggetto. Ribaltare il paradigma significa chiedersi cosa deve fare la società per la scuola, non la scuola per la società. La scuola che deve “preparare al lavoro”, “preparare all’università” è luogo di addestramento, non di formazione: la scuola che diventa grazie all’apporto sociale un luogo dove i soggetti sperimentano la libertà coniugata alla responsabilità è un luogo educativo e democratico.

La qualità della scuola non ha a che vedere con efficenza ed efficacia. Ci sono anche torture efficienti ed efficaci. Dobbiamo chiederci perché facciamo scuola e quali sono i motivi che ci spingono a essere educatori, senza rimandare sempre ad un altrove la responsabilità della soggettivazione. Arendt diceva che “la scuola non è affatto il mondo e non deve pretenderlo; è piuttosto l’istituzione che interponiamo tra il dominio privato della casa e il mondo, per rendere possibile il passaggio dalla famiglia al mondo”[9]. Il bias cognitivo più comune, quello della scuola tradizionale versus scuola innovativa dimentica quanto la cosiddetta scuola tradizionale sia sempre stata, se non alternativa a quella democratica, perlomeno contemporanea e parallela. Maria Montessori fonda la prima casa dei bambini a San Lorenzo a Roma nel 1907: gli elementi costitutivi di quello che poi verrà definito “il metodo” erano già messi a punto. Francisco Ferrer Y Guardia venne fucilato nel 1909, ma aveva già fondato la Escuela Moderna, che continua ad esistere come modello educativo a prescindere dalla tragica e ingiusta fine del pedagogista. Célestin Freinet mette a punto gli aspetti salienti della pedagogia popolare e soprattutto della pedagogia naturale per l’apprendimento delle lingue, che è quella usata dalle scuole di lingue straniere in tutto il mondo, negli anni ‘20 del novecento. Tutti questi percorsi, da Freinet a Montessori alla Escuela Moderna, costituiscono l’humus su cui si fonda la scuola della Repubblica italiana. Sono quindi la vera tradizione, che però ad ogni svolta autoritaria nel Paese vengono riportati alla classificazione di innovazione. È un processo che tende a spostare in un futuro inattuale le pratiche che invece dovrebbero essere attuali e condivise, riportando al termine “tradizione”, che ha sempre la stessa radice di tradimento, pratiche invece che hanno connaturata la formazione di una cultura controllata e controllante, orientata all’obbedienza e non all’apprendimento, alla ripetizione e non alla curiosità.

Partire dalla responsabilità, come insegnano Freire e bell hooks:”Troppo spesso siamo stati formati come professori con l’idea che gli studenti non siano in grado di agire in modo responsabile e che, se non esercitiamo il controllo su di loro, ci sarà solo caos”. Questo non significa non comprendere le relazioni di potere, che sono connaturate al rapporto docente / discente e che vanno sempre tenute in filigrana, per evitare il paradosso della mistificazione dei rapporti di potere. Significa invece banalmente mettersi in una posizione di ragionevole rischio, quello che apre orizzonti possibili negli spazi di crescita di alunni e alunne.

Il paradigma autoritario invece è assolutamente spaventato dal rischio. Cerca in modo ossessivo di eliminarlo, cosa che sappiamo in modo razionale essere impossibile, eppure tale tensione lavora in modo emotivamente importante sulle paure connaturate allo stato di protezione estrema delle famiglie. Per eliminare il rischio, soprattutto della disobbedienza, l’arma capitale, ampiamente rivendicata e normalizzata, è la sanzione disciplinare pensata per “mandare un messaggio”.

Il paradigma autoritario dunque si nutre di semplificazioni, che hanno come unico obiettivo la conservazione delle posizioni di potere. Innanzitutto la base strategica è che il soggetto è incapace di essere sé. Si nutre del presupposto che i cittadini siano in posizione di sudditanza o incapacità: “Come fa un genitore o un bambino a capire che ‘in via di prima acquisizione’ vuol dire insufficiente?”[10] Ecco quindi eliminati i giudizi descrittivi dalla scuola primaria, che in realtà davano attuazione al decreto legge sulla valutazione, iniziando un percorso che avrebbe dovuto investire anche i gradi successivi e che comunque era stato condotto in un’ottica di massima “prudenza”, di fatto si usava un sistema catalogatorio diverso, ma sempre non basato sulla valutazione formativa. Il voto di comportamento, dice lo stesso Ministro risulta “Importante per responsabilizzare ragazzi”. Vorrei ricordare che questo voto fu abolito nel 1945 in segno di rottura con il fascismo che ne aveva fatto largo uso e  il Ministero con il contributo del pedagogista statunitense Carleton Whasburne[11] lo eliminò, per  poi reintrodurlo nel 1956 con la riforma Ermini e con la dicitura di “comportamento, educazione morale e civile”. Nel 1977 nel ciclo primario scomparve ancora, sostituito da una valutazione globale, per essere poi reintrodotto nel 1998 con lo Statuto degli studenti e delle studentesse, salvo poi nel 1999 abolire il conseguimento del voto minimo. La ministra Gelmini nel 2008 con la L. 169 precisa che con il 5, a prescindere dalle altre valutazioni, c’è la bocciatura: si può dire che questo, insieme ad altri provvedimenti della stessa ministra, portano la scuola italiana all’anno 0, anche dal punto di vista della cosiddetta efficienza. Non c’è infatti nessuna correlazione, se non negativa, tra l’assunzione di queste iniziative e i risultati di apprendimento: “La nostra scuola elementare non è solo buona migliora anche nel tempo, come si riscontra confrontando i risultati 2007 con le precedenti edizioni di TIMMS (l’indagine è quadriennale e si è svolta nel 1995, 1999, 2003, 2007). Non solo, nel confronto internazionale l’età dei nostri alunni al quarto anno di scolarizzazione è fra le più basse, il che valorizza ulteriormente i risultati. visto che in seguito gli esiti degli studenti italiani nelle rilevazioni internazionali si allontanano sempre più da quelle degli altri”[12]. Per non parlare quindi dei risultati sui comportamenti.

Un numero in una pagella dovrebbe aiutare a responsabilizzare? C’è uno spostamento esterno, non è il soggetto a scoprire il proprio senso di responsabilità, ma un elemento esterno, un numero, che dovrebbe responsabilizzare. C’è quindi una eteronomia, qualcun altro che decide per te e che ti attribuisce un valore. La mancata soggettivazione ovviamente avvia processi importanti come il non riconoscimento di forme dissenzienti, la repressione di forme di autogestione degli studenti, e Il ritorno del numero come “messaggio” determina una chiara impostazione propedeutica all’idea che esso abbia una funzione educativa e formativa, cosa che sappiamo non essere vera da numerosi studi sperimentali[13]. A questa applicazione retorica e non basata su nessuno studio di settore, ma sugli umori della rete o sul sentito dire che cosiddetti esperti, che usano la propria esperienza, qualunque essa sia, come unico parametro di riferimento per l’analisi dei processi educativi e valutativi, si affianca un ricorso sempre più massivo e diffuso delle sanzioni, prima sugli studenti, recentemente anche sui docenti.  Dal 2021 la reazione alle occupazioni/autogestioni degli studenti si sono fatte sempre più gravi. Per esempio sono state impartite 242 sanzioni disciplinari in un Liceo a Roma a seguito di una occupazione. Lo stesso è accaduto nel Liceo Artistico di Ravenna, cosa che non era mai avvenuta prima, nel silenzio connivente delle istituzioni politiche del territorio. In tutti questi casi il richiamo alla “responsabilità” viene fatto utilizzando uno schema inverso, che non tiene conto della forma con cui noi apprendiamo, in particolare i comportamenti sociali. Il cosiddetto paradosso di Parks – Eichmann nel nostro contesto sembra stare più a favore del secondo. L’assenza di soggettivazione che emerge nel processo Eichmann è tipica di questo processo: non riconoscere la propria responsabilità nella libertà di dire sì o no. Questa condotta è preparatoria a questo tipo di esiti culturali e sociali.

In un paradigma democratico della scuola, l’educazione alla responsabilità viene prima di tutto. L’esperienza dell’apprendimento in questo modo diventa anche di felicità, perché della democrazia non ne parliamo, ma la attuiamo, anche nella negoziazione delle regole e nella creazione ogni volta con ogni gruppo e individuo di ridefinizione del processo. Se nell’osservazione della relazione con l’altro adulto, io sono sempre deresponsabilizzato, in quanto soggetto che non può né determinare il proprio spostamento nello spazio interno della scuola, né da casa a scuola (questo per almeno i primi 10 – 11 anni di vita, quelli più delicati da questo punto di vista), non posso pensare di poter aver parola e decisione in altri aspetti della vita. Se nelle routine giornaliere non posso apparecchiare la tavola, non pulisco lo spazio che sporco, devo chiedere il permesso anche per espletare i normali bisogni, se il mio corpo è incatenato dalla richiesta o supporto di un adulto fino all’ingresso dell’adolescenza, è implicito che difficilmente avrò possibilità di definire e introiettare la mia libertà e la sua negoziazione. Dove sta il mio apprendimento della responsabilità? La responsabilità non è qualcosa che scegliamo, ma che incontriamo. è la prima realtà del sé  come ci ha insegnato Baumann.

La scoperta degli anni ‘80 nei macachi e negli anni’90 negli umani dell’Università di Parma e del gruppo condotto da Rizzolatti[14] ha profonde ripercussioni sull’educazione democratica e il suo impatto sulla società dell’oggi e del domani, perché conferma quanto Maria Montessori e Freinet in modo sperimentale, attraverso l’osservazione dei bambini, avevano già mostrato. La consapevolezza della presenza del potere in una classe, se non condivisa e con fatica dialogica continuamente negoziata, rischia o di far saltare il tappo (la posizione subalterna non impedisce di vedere, quindi si agisce in modo violento o apparentemente tale perché lo spazio interno al sistema non c’è) o di ricreare modelli rigidamente gerarchici e autoritari di riflesso, in quanto sono gli unici che vengono proposti. C’è però anche qualcosa di più di questo, che tutto sommato rientra nel nostro concetto diffuso “l’esempio prima di tutto”. Noi a differenza dei macachi impariamo anche da forme mediate, dalla visione di un film o da una lettura; sappiamo anche che l’apprendimento avviene in una zona molto vicina a quella del linguaggio, che influenza quindi fortemente la nostra competenza apprendente. Tuttavia esso è fortemente limitato dal corredo genetico. L’influenza del corredo genetico sembra essere importante e nel 2007, grazie ai nuovi strumenti di imaging (uno dei quali è la tomografia neuronale), la biologia molecolare ha scoperto e fotografato il meccanismo di sviluppo prossimale, cioè quella plasticità neuronale che permette alle cellule nervose di modificarsi in reazione agli stimoli ambientali. Quindi non serve a nulla l’educazione? Il modellamento interno non lo riusciamo a toccare dice ad esempio Benner. Tornando al paradosso, entrambi i due poli hanno una buona capacità di apprendimento, ma Parks dice io, Eichmann nega le responsabilità del suo io. Quindi l’educazione riguarda non l’identità, ma cosa ci facciamo con quella. cosa facciamo con ciò che siamo diventati.

 

Tornando al bias della “qualità è nel controllo” e pensiamo ad alcune pratiche che nascono come benevole. Il registro elettronico quando è arrivato nelle nostre pratiche, non sembrava qualcosa di terribile. L’acquisizione della valutazione prima che i figli tornino a casa, ad esempio, genera una spirale di malintesi, intrusioni, e quindi in diversi paesi si sta correndo ai ripari. Il Jordan-Montessori Lyceum di Utrecht ha sospeso l’accesso in tempo reale per diminuire l’ansia da prestazione. Per continuare ad avere il diritto di imparare sbagliando. Si tratta di un aspetto ancora poco indagato, che andrebbe osservato anche in modo comparativo.

Vorrei aggiungere qualcosa infine sulla simulazione incarnata, che è come dicevo tipicamente umana. Tutto parte dal corpo, anche guardare è un atto corporeo. Ma nel contesto educativo italiano il corpo del bambino e della bambina sembrano assenti. Siamo un contesto de-corporizzato: i corpi devono essere seduti, devono essere fermi, devono essere controllati. Tutta l’educazione è volta ad un controllo del corpo. Lo strumento di apprendimento mimetico più importante è quindi fortemente ristretto. Per fortuna possiamo apprendere attraverso la simulazione incarnata, quindi attraverso i mediatori. In particolare l’apprendimento dell’intelligenza empatica, che per fortuna accompagna tutta la nostra vita e che è una forma di protezione verso il male, avviene anche attraverso la simulazione incarnata. Non si tratta di una educazione di tipo morale, ovvero che si concentra su dettati esplicitati di bene e male. Ma è una educazione che prevede un dono, prevede la possibilità di correre dei rischi, dando agli studenti e alle studentesse, agli alunni e alle alunne, la libertà di espressione. Anche la libertà di dire no a qualcosa che noi pensiamo sia giusto per loro. In questo momento è qualcosa di imprevisto.

Corriamo un rischio, ovvero che questo sia senza ritorno. Una scuola autoritaria, che pratica questi sistemi di controllo in modo così capillare, è una scuola che porterà ad una società autoritaria e sicuramente passivizzata. È quindi importante riconnettersi alla nostra tradizione, ascoltare i nostri maestri e le nostre maestre. Richard Peters ad esempio ci dice “Essere educati non significa essere condotti a destinazione, ma viaggiare con una visione diversa”. Noi educatori siamo i primi ad avere bisogno di paesaggi nuovi, non conformati e rinominare quello che già conosciamo. Smettere di pensare, ad esempio che la tradizione sia quella autoritaria è una importante ricodifica. Quello che vogliamo che sia salvato, ovvero la tradizione, è la scuola attiva, è la scuola democratica. Gert Biesta ci dà un altro importante sassolino da tenere in tasca: “Ogni insegnante deve imparare a smettere di insegnare quando arriva il momento. Solo pochi sono in grado, al momento giusto, di permettere alla realtà di prendere il loro posto”. Mettere il mondo al centro significa mettere al centro dell’educazione, come già Adorno ci aveva ammonito, la non ripetizione di Auschwitz. Per adesso non ci siamo riuscite. La strategia pedagogica che attuiamo deve portare gli studenti e le studentesse a porsi domande su questioni che apparentemente non li toccano ed ogni volta che noi li mettiamo a tacere, dobbiamo esaminare questa possibilità con spirito critico.

 

Note: 

[1]    Si tratta di un passo di Dick Harmon, tratto da un documento dell’Iaf e citato in, People Power: the Community organizing Tradition of Saul Alinsky, a cura di Schutz e Miller, e citato nella traduzione di Marianella Sclavi, L’irriverenza democratica, Una città società cooperativa, Rende 2021, p. 22.

[2]    Per approfondire la figura di Alinsky, oltre ovviamente agli scritti dello stesso, in italiano Alice Belotti, La comunità democratica. Partecipazione, educazione e potere nel lavoro di comunità di Saul Alinsky e Angela Zucconi, Fondazione Adriano Olivetti, 2011; la bibliografia è ovviamente in inglese piuttosto estesa, utile partire da Aaron Schutz – Mike Miller, già citato.

[3]    Sull’esperienza del Bertolucci sono presenti diversi articoli a stampa come ad esempio https://stampagiovanile.it/2017/10/13/le-scuole-changemaker-italiane-liceo-attilio-bertolucci/. Quando ho chiesto personalmente a Tosolini come fece a far tenere aperta la scuola nel pomeriggio dagli studenti, mi rispose “Semplice. Ho donato tutto quello che era intestato a me a mia moglie e mia figlia. Sono nulla tenente. Non era  giusto far rischiare a loro per i miei atti…”.

[4] J. Dewey, Scuola e società, La Nuova Italia, Firenze 1949, pp. 103-104. L’immagine è rimasta sempre presente per indicare questo tipo di processo vedi ad esempio Andrea Camilleri- Tullio De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Roma-Bari, Laterza, 2013 p. 215 l’italiano per troppa parte della popolazione rischia di essere un guscio fonico, povero dei contenuti necessari a vivere nel complicato mondo contemporaneo.

[5]    Si tratta di una analisi dati annuale realizzata dall’Economist Intelligence Unit. Si può consultare liberamente ed è possibile fare analisi rispetto ai singoli indicatori. Si può leggere la sintesi qui https://it.wikipedia.org/wiki/Democracy_Index oppure scaricare il report completo da qui https://www.eiu.com/n/

[6]    Molto utile per un’analisi statistica e analitica dei dati anche dell’Educazione il Sommario di Statistiche Storiche dell’ISTAT, in particolare il capitolo 7 che si può scaricare qui https://www.istat.it/wp-content/uploads/2019/03/cap_7.pdf

[7]    K. Rutschky, Pedagogia nera. Fonti storiche dell’educazione civile, Mimesis, Sesto San Giovanni, 2015. Su questo importante testo e sugli impliciti rispetto al sistema italiano che ancora meritano di essere maggiormente indagati ho scritto qui E. Stamboulis, La catena invisibile del veleno. Su Educazione e violenza, n «Roots-Routes research on visual cultures», numero tematico “Violenza” a cura di Viviana Gravano,anno X, n° 32 gennaio-aprile 2020. ISSN 2039-5426.

Ripubblicato in Vita dell’Infanzia, marzo aprile 2020.  https://www.roots-routes.org/la-catena-invisibile-del-veleno-su-educazione-e-violenza-di-elettra-stamboulis/

[8]    G. Biesta, Il mondo al centro dell’educazione, Tab edizioni,  Roma 2023

[9]    H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, pp. 246-247

[10]   Riportato in numerose testate, particolarmente citato su una delle fonti più lette dal personale della scuola, Orizzonte scuola il 21 febbraio 2024 https://www.orizzontescuola.it/alla-scuola-primaria-si-torna-ai-giudizi-da-ottimo-a-insufficiente-valditara-come-fa-un-genitore-o-un-bambino-a-capire-che-in-via-di-prima-acquisizione-vuol-dire-insufficiente/. Peraltro la riforma 2020 non portava un cambiamento così stringente in quanto anche in quel caso il giudizio risultava catalogatorio e non analitico.

[11]   Ispiratosi al pensiero di Dewey, il pedagogista statunitense, che mise in atto le sue idee nella scuola sperimentale di Winnetka a Chicago. Interessante osservare che nacque prima la scuola e poi il sobborgo che nel tempo divenne una delle zone più ricche dell’Illinois. La possibilità di avere un’istruzione ad alto capitale sociale è un vantaggio competitivo che interessa molto le famiglie abbienti. Sull’esperienza: C. Warleton, Le scuole di Winnetka, Firenze, La Nuova Italia, 1952. Importante anche Il bene del mondo, Firenze, La Nuova Italia, 1965.

[12]   Dalla presentazione Adi del 10/12/2008 sulla pubblicazione degli esiti del 2007 https://adiscuola.it/i-risultati-italiani-dellindagine-internazionale-timms/

[13]   Non vorrei entrare nella vasta bibliografia docimologica, che in modo sostanzialmente univoco riprende questo tema. Faccio riferimento semplicemente in questa sede per opportuni approfondimenti al testo divulgativo di C. Corsini, La valutazione che educa, Franco Angeli, Milano 2023 e V. Grion, Dal voto alla valutazione per l’apprendimento, Carocci, Roma 2022.

[14]   Per un approccio divulgativo al tema del grande neuroscienziato, G. Rizzolatti – L. Vozza, Nella mente degli altri. Neuroni specchio e comportamento sociale, Zanichelli, Bologna 2020.