MARIO TOMAI – LOOK DOWN
Faglia obliqua [1]
Fu un tempo di uniforme apprensione.
L’imperatore sedeva piagato e attassato sul trono,
ma nessuno se ne dava troppo pensiero,
perché già da tempo si vociferava della sua galoppante demenza
e ci si augurava in silenzio la sua dipartita.
Per evitare il progredire dell’epidemia,
gli anziani malati furono portati in recinti spinosi con alti steccati,
isolati e nascosti alla vista,
il loro numero divenne un incalcolato segreto,
rivelarlo un delitto di Stato:
così non intaccò le statistiche positive ed euforiche diffuse da un governo benevolo.
Gli adulti organizzavano danses joyeuses
nelle vie intorno alle mitragliere sfilanti
party con sostanze inebrianti,
i bambini si uccidevano seguendo le indicazioni di un Maestro dei Giochi,
che on line predicava la maternità della morte.
La fuga dalla fine
divenne la frenesia dominante dei vecchi,
la fuga verso la fine l’ebbrezza convulsa dei giovani.
Come sempre
ci fu chi ammucchiò dobloni d’oro e sesterzi
lucrando sul sapone ricavato dai corpi.
***
«Città irreale»
percorsa da neri cani affannosi
e miasmi di vento
«Non ci credo è impossibile
che morte così tanti
ne abbia disfatti»
girano torvi scherani
con oscuri aloni sul capo
narcisi
col respiro breve e mozzato
senza il coraggio di morirsi nell’acqua.
Gli inamati
inattesi
aspettano nel gorgo nerastro dei porti
senza volto
col nome distorto.
Noi ormai siamo una razza increata di padri in declino,
dediti a incerte macchinazioni.
Città che non conosce radure
che non vela e non svela:
niente.
Disviene.
Ma tu in sogno mi dici “acqua e ombra”.
***
Fisso al timone
seguendo il suo astro nero
il colono bianco ha verdi occhi di ferro
e le viscere invase di schianto
nei vecchi porti d’Europa
la putredine nega l’approdo
ai distanti
tacciono
nel mare senza lucenze
le voci
sommerse dalle grida torve
dalle malessenze ubriache
degli accoliti bianchi.
***
Gli invisibili Amorfi
innalzano pareti di ferro e di fuoco
male dicono
senza ricordo
le voci inudite c’insorgono contro
fiamme di informi lamenti.
***
Oh mia città penombrale
incendiata di ardenti amarezze
nel tuo esistere invano –
in ossequio i tuoi scribi
ci rendono inesistenti non avvenuti.
***
Gli inamati
hanno stelle di poco lucore
ogni notte
accendono un fioco lume
d’attesa
cercano invano di scaldarsi l’un l’altro
in un angolo remoto
del vicolo scuro.
***
I bambini con occhi neri e ammagati
trascrivono gli annerati fonemi
dei libri usurati,
con pena ed inchiostro.
La fragorosa città fa silenzio.
Nelle strade
si abbuiano gli urlanti e versicolori fantasmi:
– Better with cake! Chorinol! Fune Groenten! –
sugli schermi si accendono
fosforici spettri di volti
atone assenze di voci.
Lei inclina lo sguardo alla terra
si avvolge di tenebre bianche.
***
Più volte al giorno lavate le mani
saltate gli sputi
ignorate il fischio ruggente
nelle crepe dei muri
cementate le gallerie della tana
non date la mano
non date baci a nessuno
indossate la maschera nera
e soprattutto
non abbracciate i lebbrosi.
***
È impassibile e muto il cordoglio,
senza pianto negli occhi
senza un grido
scende la bianca scrittura
del rotolo nero
fuggi la simmetria
i troppo fitti ricami
sui corpi rescissi
dalle opache masse iniziali.
***
La terra scioglie i suoi manti di ghiaccio
il suo fuoco genitale raffredda,
bianchiscono i volti e le mani
l’energia che non crea e si perde
intorno all’asse
vortica a vuoto la ruota
semina invano scintille
nelle lande arse.
***
La tua parola sale dalla notte
senza schianto
né frangersi d’ore
nel vagone di freddo lucore
corre la folla degli occhi
abbagliati dal nero oltre il vetro
nel vuoto sbandare da tenebra a tenebra
ti afferri ai sostegni oscillanti
scruti i giornali con i crimini ultimi
tu
l’accecato con l’unico occhio
chi interroghi al di fuori del quadro?
la tua bocca è una curva di pena.
***
Un cerchio d’oro circonda
la tua aureola di tenebra
lo sguardo ignaro già scruta
l’incendio dell’ora
la cometa di ghiaccio
trascorrendo nel vuoto
il volo dell’angelo coprono
con manto di calcina.
***
L’attonito sta fermo
e fissa le sue vane carte
mentre il baro gli sfila dalla cinta
occhieggiando d’intesa col dio inverso
il funesto per lui asso di quadri.
***
Non madre
non rive non stelle
non vive
di speranze e ricordi
non ha tempo
né spazio
non ha aratro
né zolle
la sua logica inversa
la sua ala gelata
ha terrore
di toccare la terra
di sfiorare una mano
attende
la lungi mirante cometa
invasata di fuoco.
***
Anime oscure
si gettano in azzurri fossati
di vuoto cruento,
lei
con la mente nel cavo della mano
le osserva:
con la mano si coprono gli occhi
per non vedersi cadere
al corpo di un altro abbrancati –
verso l’alto inarcata la schiena.
***
Si trascinano in strada
gialle e stremate
le foglie umiliate
dal vento di traverso
verticali falesie
franano sul faro
l’oro degli aranci
nelle notti d’ardesia si spegne.
***
Guida il Re nero la peste cometa
che ruota sulla via dei pastori –
e girando più volte su se stesso
crede il bambino
in caso di mutare
il suo destino.
***
Nascono borragini azzurre
dai veleni nascosti
che le mani non possono cogliere
il capriolo prende coraggio
bruca le foglie
della nostra assenza
nel giardino in cui nessuno può entrare
tra i fiorami di incorporee presenze
Lei
per amore caduta
dai cancelli del cielo
oscurata
spande il soffio
delle sorelle di fuoco.
***
Emmaus IV
Irritornabile,
dividi il pane e la febbre coi figli
derisi da indovinelli crudeli
il rosamarino invernale
fiorisce azzurro forando
la nostra fredda pietra tenebrale
il tuo volto di calce s’inlumina
nell’indaco estremo
che precede la notte.
Note:
[1] Queste poesie costituiscono la seconda sezione di una raccolta, Trascorrendo.
***
NB: l’immagine è di Ruggero Savinio