Di che cosa parliamo quando parliamo di ecomarxismo? Glosse a margine del volume di J. N. Bergamo – di Francesco Biagi
Il più grande pregio del volume di Jacopo Nicola Bergamo dal titolo Marxismo ed ecologia. Origine e sviluppo di un dibattito globale (Ombre Corte, Verona, 2022) è di restituire al pubblico italiano il dibattito internazionale, in gran parte anglofono, che si è sviluppato intorno al rapporto tra “marxismo” ed “ecologia”. Un connubio molto proficuo, ma ancora oggi troppo sottovalutato, perché il pensiero unico neoliberista ha seminato bene, “avvelenando i pozzi” del sapere critico negli spazi universitari e nella sfera pubblica, che – con buona pace di Jürgen Habermas – è tutt’altro che uno spazio aperto e plurale. Lo spazio della presa di parola nella nostra società è, di nuovo, tutt’altro che razionale e non è partecipato da soggetti liberi che confrontano le loro opinioni attraverso forme serie di argomentazione. La crisi climatica, il dissesto idrogeologico e la distruzione ecologica del mondo in cui viviamo è di fronte ai nostri occhi e si presenta come una catastrofe che sempre più accumula una violenza stimolata dal modo di produzione capitalista. Il libro di Bergamo, da un lato, contribuisce a squarciare l’ipocrisia di un possibile “capitalismo verde”, dall’altro lato, ricostruisce l’origine e lo sviluppo di un dibattito che ha misurato la critica del capitalismo con la questione ecologica. Chiaramente, per ragione di spazio e altre questioni editoriali, non possiamo pretendere (come hanno fatto invece altre recensioni) l’esaustività completa: infatti l’opera è già molto corposa, tuttavia – sicuramente – potremmo chiedere all’autore un volume successivo sui temi che ogni lettore riterrà manchevoli.
Il volume è la rielaborazione della tesi di laurea magistrale dell’autore, il quale è arrivato a interrogarsi su tali quesiti a partire dalla realtà in cui viviamo e dalle problematiche che la attanagliano.
Una prima scelta che è stata fatta è quella di riassumere il dibattito internazionale tra marxismo ed ecologia, raccontando anche come sia stato recepito in Italia, ma tralasciando la ricostruzione del medesimo dibattito italiano. Non aspettiamoci quindi che l’autore discuta approfonditamente le tesi di Dario Paccino, di Laura Conti, di Giovanna Ricoveri o di Giorgio Nebbia e del gruppo che intorno a lui ha iniziato a riflettere di questi temi nel nostro Paese. Ricostruire l’origine e lo sviluppo del connubio tra marxismo ed ecologia in Italia sarebbe senz’altro interessante, ma si tratta di un altro volume. Così come l’importante dibattito tra femminismi ed ecologia o tra pensiero post-coloniale e ecologia. Sarebbe necessario molto altro spazio come dichiarato dall’autore nell’introduzione.
Una seconda scelta, è stata quella di esporre, inizialmente, le più importanti tesi di quegli autori che possono essere considerati dei veri e propri pionieri di tale dibattito nella seconda metà del secolo scorso (ovvero Paul Sweezy, Herbert Marcuse, Richard Levins, Richard Lewontin, Ted Benton, André Gorz, James O’Connor, Alfred Schmidt e Neil Smith), e solo in seguito – invece – i pensatori che al giorno d’oggi sono i principali protagonisti del dibattito politico e accademico (ovvero John Bellamy Foster, il principale artefice della Metabolic Rift, Paul Burkett, con la sua teoria ecologica del valore, Jason W. Moore e la teoria della World-Ecology e, infine, Andreas Malm, l’ideatore della teoria del capitale fossile). Per un Paese come l’Italia, dove si legge poco in altre lingue, il volume di Bergamo è essenziale e permette di conoscere la vastità delle dispute all’interno della galassia rosso-verde, anche per chi non è propriamente un addetto ai lavori. Ed è proprio con questo libro che possiamo mettere in ordine alcune idee, capire alcune dispute e riconsiderare criticamente anche autori molto tradotti come Jason Moore. L’approccio genealogico di Bergamo alla questione ecomarxista è soprattutto un’operazione chiarificatrice, infatti, l’autore molto argutamente, da un lato rende giustizia a tutti gli autori affinché il lettore possa farsi un’idea autonoma di quest’ultimi, dall’altro lato non esita a comunicare l’assunto che lo convince di più, come la maggiore prossimità alle tesi di Foster.
La terza scelta è quella di concludere l’opera, discutendo i tre concetti più polemici della galassia ecomarxista, ovvero la disputa intorno al concetto di “antropocene”, “ontologia” e “economia”. Dunque, il libro è una guida di lettura e l’autore è il nostro Caronte che prende per mano e conduce il lettore in questo, decisamente, eterogeneo viaggio nell’universo ecomarxista.
È per questo che, terminato di leggere il volume, mi è sorta una domanda: che cosa parliamo quando parliamo di ecomarxismo? In realtà, sembra quasi impossibile parlare di “ecomarxismo”, perché sarebbe più corretto nominare il concetto al plurale, cioè “ecomarxismi”, restituendo sempre la complessità e la differenza tra i punti di vista. Tuttavia, se gli ecomarxismi sono molti, che ruolo giocano Marx e Engels negli ecomarxismi e – in maniera reciproca – quale ruolo gioca la pluralità di punti di vista ecomarxisti nella riscoperta dei due autori critici dell’economia politica? L’autore, nelle conclusioni, riprendendo un’intuizione di Kohei Saito, propone di vedere il corpus di Marx ed Engels come un lavoro mai terminato che si evolve, mantenendo un metodo di ricerca da cui attingere, ed è proprio questa ricchezza del dibattito che ne dimostra l’attualità e non l’incapacità, da parte di quest’ultimi, di un’argomentazione ecologica ed ecologista nel XIX secolo. Foster e Burkett, infatti, sostengono come non sia così difficile rintracciare un pensiero ecologista in Marx e Engels, liberando il marxismo dalla “colpa” del produttivismo e del “mito del progresso”; o meglio, questo tipo di marxismo c’è stato, ma è rischioso imputarlo direttamente ai due autori e non si tratta di una pista di ricerca così interessante, soprattutto alla luce della necessità di avere una cassetta degli attrezzi per affrontare le crisi ecologiche attuali.
Inoltre, data la grande densità del volume e non essendo possibile trattare sistematicamente tutte le questioni e gli autori vorrei soffermarmi su Neil Smith e John Bellamy Foster, i quali sono gli unici due autori che, a mio parere, comprendono in modo più sistematico la questione urbana e spaziale in relazione al dibattito ecomarxista.
Smith, il quale durante il suo dottorato ha avuto David Harvey come orientatore e maestro, deriva il suo concetto di “produzione della natura” mutuandolo dall’idea di “produzione dello spazio” di Henri Lefebvre. Foster, nella rielaborazione della teoria marxiana della Metabolic Rift, non esita a far riferimento a Henri Lefebvre per arricchire le sue argomentazioni. Entrambi gli autori intersecano le proprie riflessioni marxiane con il lavoro di Lefebvre, purtuttavia prendono strade differenti. Smith, di fatto, attraverso Lefebvre costruisce un marxismo che contesta la convenzionale opposizione tra “natura” e “società”. La “natura” per Smith è anch’essa ormai un “prodotto sociale” (come lo “spazio” in Lefebvre) ed è per questo che non vi può essere una netta distinzione tra “natura” e “cultura”, tra “natura” e “società umana”. La quasi totalità della “natura” è ormai quasi esclusivamente una “seconda natura”, ovvero una natura che non esiste senza l’opera dell’uomo, evidenziando la quasi impossibilità di “un fuori” dall’azione del capitalismo.
In maniera differente, Foster riprende i diversi scritti di Lefebvre sulla sociologia rurale e sul rapporto tra “rurale” e “urbano”, sostenendo che le riflessioni di Lefebvre sulla Francia del secondo dopoguerra dimostrano esattamente la “frattura metabolica” (teorizzata da Marx) che si crea tra “città” e “campagna”, ovvero tra il progetto industriale del capitale e lo spazio della natura. “Natura” e “società” avevano e hanno un rapporto metabolico che l’avvento del capitalismo ha rotto, promuovendo la “bulimia” dello spazio urbano a scapito di una “anoressia” votata alla morte dello spazio rurale. Il processo produttivo del capitalismo è una continua intensificazione di questa frattura. Una frattura che con Andreas Malm ritrova una sovranità del comando politico chiara con la teoria del “capitalismo fossile”. Riassumendo: la borghesia industriale ha preferito l’utilizzo dei combustibili fossili per rispondere alla lotta di classe e al pericolo delle rivoluzioni. Inizialmente, la macchina a vapore scoperta da Watt non era preferibile all’energia idrica dei mulini, infatti per diversi anni la seconda era prescelta rispetto alla prima. L’invenzione di Watt iniziò a diffondersi, per Malm, quando si comprese che il combustibile fossile permetteva una maggiore controllo del comando sui lavoratori e sul processo di lavoro. Il carbone permette di concentrare la manodopera nei nuclei urbani, dove è più facile il controllo e la disciplina su di essa, ovvero il carbone innesca dinamiche centripete. Al contrario, dislocare l’industria vicino ai corsi d’acqua significava dipendere logisticamente dalla fonte energetica, aumentare i costi e alimentare una dispersione che favoriva un movimento centrifugo dei lavoratori e delle loro vite. La centralità della teoria della rottura metabolica di Marx nel pensiero di Foster trova in Lefebvre un alleato e in Malm le motivazioni politiche, che sono razionali solo se pensate dentro una teoria del conflitto sociale tra chi vende la propria vita in cambio di un salario e chi compra la forza lavoro. Infine, potremmo aggiungere, attraverso i combustibili fossili, in seguito, si è continuato a creare un sistema più generale di standardizzazione dei consumi e della vita quotidiana su cui imbrigliare altrettante eventuali spinte ribelli della classe lavoratrice. Per concludere, sono convinto che l’opera di Bergamo è sicuramente uno strumento che apre a numerose questioni e numerosi dibattiti che non si esauriscono esclusivamente nel suo volume. Di conseguenza, solo grazie a questo pionieristico tentativo di sintesi e sistematizzazione del dibattito internazionale, siamo ora in grado di far reagire assieme i differenti punti di vista che si alimentano nella vivacità di queste analisi. Sicuramente un futuro volume che voglia ricostruire la traiettoria italiana dell’ecomarxismo, dovrà confrontarsi necessariamente con la parabola tracciata qui dall’autore.
Tuttavia, il quesito più urgente rimane la capacità di fare politica: riusciremo a tradurre questo bagaglio teorico in una pratica politica all’altezza delle sfide del XXI secolo?