IL DIO DELL’ARCATA SPEZZATA. CELAN E GIOBBE – di Mario Pezzella
Nel 1960 a Zurigo, nell’Hotel “Alla cicogna” (Zum Storchen) si incontrano Paul Celan e Nelly Sachs. Parlano a lungo di Margarete Susman, che vive in quel tempo a Zurigo, e del suo Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico[1]. Questo colloquio ispira la poesia Zürich, zum Storchen[2], in cui Celan nella terza strofa assume la posizione contestatrice di Giobbe: «Si parlò del tuo Dio, io dissi cose/contro di lui»; il tuo Dio, dice il poeta, quasi che fosse solo quello di Sachs, non il suo, non un Dio che anche lui potrebbe riconoscere come tale. «Lasciavo il mio cuore sperare/nella sua altissima rantolata litigiosa parola». Un Verbo che, diversamente da quello del Dio potente che infine a Giobbe si rivela, è ridotto a un rantolo moribondo, fioco e indecifrabile, come di qualcuno che vorrebbe parlare ma ormai non ha più la forza e la voglia di dire e se poi pensiamo che la sua parola dovrebbe salvare e redimere, va ancora peggio, perché proprio non ha alcuna capacità di farlo, è un dio morente, in via di estinzione o di sparizione e per giunta rissoso, rabbioso, come quello che nel tempo biblico sfida gratuitamente Giobbe; e tuttavia sembra che Celan in fondo al suo cuore mantenga un barlume di speranza: come a Giobbe questo Signore incomprensibile dirà infine qualcosa di sensato?
A Margarete Susman, molto anziana e ormai cieca, Celan dedicherà nel 1965 una poesia: «Gli occhi/della novantenne e oltre/mezzo/profetici, mezzo/traditi:/allodole, lei getta in alto/ nel solco azzurro/lassù./Infinita colonna di polvere, anche/questo/diventando bianco si deve/portare»[3];
«…Quegli occhi consumati, che pur non avendo visto in concreto, hanno tentato di vedere oltre, nella dimensione malcerta e nascosta del senso assoluto (metafisico o teologico) la radice vera e la lezione di quell’orrore. Perciò vengono decretati appartenere a una condizione umanamente ambigua, in parte seherisch, visionari-profetici, in parte betrogen, defraudati-traditi, vuoi dall’età che li ha minati, vuoi dalla vsione che li ha bruciati»[4].
Es war Erde in ihnen[5], era terra dentro di loro: così si titola una poesia della Rosa di nessuno in cui Celan in veste di un Giobbe contemporaneo assume su di sé la sofferenza collettiva della Shoah e la sua incomprensibilità, la sua irriducibilità a qualsiasi teodicea:
Essi scavarono e scavarono
Così trascorrendo il giorno
E la loro notte. E certo non lodarono Dio,
che – avevano udito – tutto questo voleva
che – avevano udito – tutto questo sapeva.
Scavarono e nulla più udirono;
non divennero saggi, non crearono un canto,
non si diedero nessuna lingua.
Scavarono.
Non lingua, non canto, non saggezza: ma il mutismo inespressivo della sofferenza inspiegabile dell’innocente, ridotto alla bruta fisicità di un lavoro mortale, allo scavare la propria fossa. Se dio è onniscente e onnipotente, perché ha permesso questo? Se nel libro di Giobbe gli si attribuisce una perversa intenzione, nella poesia di Celan si accentua piuttosto la sua impotenza dovuta una interna lacerazione, forse all’incoscienza, all’incompiutezza, al male che Egli porta dentro di sé. Appaiono ridicole e insensate le parole consolatorie di chi vuole interpretare tutto questo come un disegno provvidenziale imperscutabile, che una suprema onniscienza potrebbe giustificare. No, dopo Auschwitz queste parole suonano come un insulto e un’irrisione, un insulto a Dio anzitutto: perché come potrebbe un Dio tutto questo volere e sapere, senza essere un dissoluto criminale?
È Hitler che tutto questo voleva e sapeva, Hitler e i suoi gerarchi. Il male che qui consideriamo non è una prova da cui scaturirebbe superiore saggezza, un canto, un linguaggio; questo spirito “religioso” è divenuto improponibile, il contrario dello spirito, un antispirito complice del demoniaco. I simboli e i dogmi delle religioni istituzionali che ci hanno accompagnato fino a questa soglia si estinguono, scolorano, non possiedono più la forza di insediarsi come simboli attivi e viventi nella nostra anima.
Ciò è vero – come afferma Margarete Susman nel suo libro – sia per i cristiani che per gli ebrei, accomunati nel destino del ‘900 dal silenzio e dal ritrarsi delle figure divine che hanno fondato la nostra tradizione.
«Ogni simbolo chiaro, tutto quanto fu contemplato in figura fissa, si trova, come la verità del Libro di Giobbe nella quale tentiamo di cogliere la nostra, alle spalle della nostra vita, come uno specchio infinitamente lontano…Così oggi, in un’epoca della più grave crisi, della lotta per la vita e la morte, della perdita di tutti i limiti della vita, il divino deve rinunciare a un’immagine visibile, a una visibilità nella materia della nostra vita»[6].
Susman scriveva subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le sue parole conservano attualità anche per noi, per le nostre guerre, per la consumazione apocalittica della terra che stiamo portando avanti, indifferenti alla sua distruzione. Nuove figure simboliche si stanno preparando nella latenza dell’inconscio, come pensava Jung nel suo commento al libro di Giobbe[7]? Intanto ci fronteggia l’assenza o la ritrazione che colpisce quelle conosciute e ci impongono il confronto con una Alterità radicale e silenziosa.
Es kam eine Stille, venne un Silenzio, che è anche un vortice, es kam ein Sturm, che rimescola tutto, cancella le parole-orpello divenute insensate, ci costringe a ricominciare da zero, dal non linguaggio, dal vuoto che si è creato nel tempo, dall’impronunciabile, tra il non più e il non ancora: perché sul momento la verità è solo nel nudo fatto di scavare, come scavano i vermi (es gräbt auch der Wurm), da qualche parte c’è sì qualcuno che canta (Das Singende), ma è un truffatore, un contraffattore, l’aguzzino e l’oppressore, perché non dice e non sa dire che questo: essi scavano (Sie graben), dovete scavare e null’altro vi è dato. Quando Celan scrive, non è solo un ricordo della Shoah, ma anche una metafora del lavoro insensato imposto dal capitale e della consunzione imposta ai viventi.
A chi si rivolge la domanda preghiera invocazione della quarta strofa?
Oh uno, oh nullo, oh nessuno, oh tu:
dove s’andava, poiché tutto questo portava in nessun luogo?
Nessun luogo (nirgendhin): non è solo una connotazione negativa, è un non-luogo, uno spazio di alterità nel vuoto del tempo, un doversi dirigere verso l’incerto aprirsi di un senso oltre le vane parole obsolete che vorrebbero giustificare un presente ingiustificabile. L’esistente è radicalmente dissestato e non siamo qui per rimetterlo in sesto com’era, ma per accertare lo scarto radicale che ci è imposto dal trauma storico. A chi si rivolge dunque la domanda?
Certo a coloro che hanno scavato e sono divenuti terra; ma anche a un totalmente Altro rispetto al Dio della parola litigiosa e rantolante, uno spirito che si incarna in coloro che hanno scavato (in Tenebrae è detto: “gli uni agli altri abbrancati, come fosse/il corpo di ciascuno di noi/il tuo corpo, Signore»[8]). Spirito che non pretende e non offre salvezza al di fuori di questo tenersi fedele a ciò che è senza luogo, che il suo luogo lo ha perso, che è stato sottoposto al giogo insensato; solo in questo modo «al dito si ridesta in noi l’anello», come una debole forza messianica che, se non ha il potere di cancellare il dolore (come sembra che avvenga alla fine al Giobbe biblico), fonda nella memoria dell’oppresso sofferente un nuovo legame spirituale ed umano di cui l’anello è il simbolo nascente. Le false parole consolatorie impediscono invece di rivolgersi alla radicale Alterità che nel vuoto del tempo è latente e veniente.
Dio, così leggemmo, è
una parte ed una seconda, più dispersa:
nella morte
di tutti i falciati
egli cresce in se stesso
Laggiù
ci guida lo sguardo
con questa
metà
abbiamo a che fare[9].
Nella disperazione e nel dolore delle vittime l’immagine di Dio subisce, deve subire una metamorfosi, wächst er sich zu, ed è l’uomo a sollecitare e a permettere il mutamento. Afferma Rosenzweig che l’opera dell’uomo è indispensabile per conciliare la violenta contraddizione che si apre all’interno dell’essere: «La gloria di Dio, dispersa in innumerevoli scintille in tutto il mondo, egli [l’uomo] la raccoglierà dalla dispersione in cui si trova e la riporterà un giorno nuovamente a colui che è spoglio della sua gloria»[10], colui che ancora deve venire, in attesa del compimento messianico, figura che si forma e si conforma nel rapporto con l’uomo, divisa in due parti, in una scissione che attende di essere sanata. Ma nella poesia di Celan si pone radicalmente il problema della estrema difficoltà di questa redenzione dopo Auschwitz, perché quali scintille si possono qui trovare e ricomporre? Ora che il nostro sguardo è totalmente sbilanciato sulla «seconda parte», quella dei falciati e del male? Di nuovo, nella sua veemenza, la protesta di Giobbe:
Lo
Stesso
ci ha
perduti, lo
Stesso
ci ha
dimenticati, lo
Stesso
Ci ha – – [11]
Solo con le due lineette enigmatiche si può alludere al futuro o alla speranza messianica: perché concludere «ci ha redento» o «ci ha parlato» come ancora era pensabile alla fine del libro di Giobbe, è cosa che ora non si può osare di dire. Si può solo lasciare aperto un varco minimo, per cui forse la violenza e il dolore non sono l’una volta per tutte definitiva. Ogni simbolo sacro ha perso vigenza, ogni figura del divino si è ritratta in una lontananza infigurabile, in un silenzio assoluto, è divenuta Nessuno. Ci vorrebbe una seconda creazione, ma chi potrebbe compierla?
Nessuno ci impasta di nuovo di terra e di fango,
nessuno infonde vita alla nostra polvere.
Nessuno[12].
A lui ben si adattano le parole di A. Neher: «Succeda quel che si vuole sul ponte, anche se il suo tavolato vibra al punto da dar l’impressione di cedere, esso tiene sicuramente! E l’uomo può attraversare il ponte senza paura di precipitare. L’altra concezione introduce in questo edificio troppo bello l’indizio di insicurezza, non proteggendo il ponte contro nessuna scossa accidentale, non garantendo l’uomo che lo attraversa contro alcun pericolo, fosse pure mortale… Il Dio della prova dicevamo è il Dio dei ponti sospesi», quello che garantisce redenzione e salvezza dopo il dolore inteso come una testimonianza di fede e di resistenza; ma quello di Giobbe e di Auschwitz è «il Dio della falsa prova – šadday – potremmo dire adesso, è il Dio dell’arcata spezzata»[13].
Nessuna Persona in questa stretta della storia ci parla. La vigenza della legge e dell’ordine simbolico dell’Occidente è vuota, anche se si protrae in una inerzia sempre più vicina alla consunzione; i fantasmi dell’immaginario hanno durate effimere; mentre frequente è il muto incontro con un Reale ancora privo di forma. Se c’è una potenza generativa di vita e di redenzione è ospitata nel cuore del nulla, lontana da ogni parola istituzionale, da ogni sinagoga e da ogni chiesa. Siamo andati troppo oltre. Noi «incontro a Nessuno» vogliamo fiorire, o solo verso Nessuno possiamo fiorire, verso un’alterità profonda, un fondo ignoto ed inconscio da cui attendiamo che sorga una traccia decifrabile.
Noi fummo un Nulla
siamo un Nulla
e lo resteremo, fiorendo:
rosa del Nulla e di Nessuno.
Nella poesia Chymisch[14] «è cotto come oro il silenzio,/in mani carbonizzate», poi Celan evoca una figura femminile, una sorella «grande e grigia», «senza scorie», come purificata da quel processo di sublimazione della materia che in alchimia si chiama nigredo, ed è forse da questa trasformazione che può scaturire un improbabile ed invocato «oro», che riscatti «tutto ciò che è perduto» (alles Verlorene). La sorella che sembra indispensabile a una tale metamorfosi del male è definita alla fine della poesia königliche, regale, come se l’antico dio patriarcale della tradizione biblica dovesse ora essere integrato da una figura femminile anch’essa parte della divinità, come se solo grazie a questa integrazione si potesse ancora sperare in una svolta dei tempi e in un riscatto del “perduto“, dei nomi «che insieme arsero», della cenere. Come se dovesse risorgere, per salvarci, una dimenticata ipostasi femminile.
Glossa. Un saggio di G. Scholem[15] (sappiamo con certezza che Celan lo conosceva) cita molti passi, soprattutto dal Bahir e dallo Zohar, che insistono sull’elemento femminile della divinità. Solo per darne un’idea:
«La presentazione della Shekhinah come elemento femminile, allo stesso tempo madre, sposa e figlia, all’interno della struttura della divinità rappresenta un passo assai significativo…Poiché riaffiorava la rappresentazione della Grande Madre, essa cercava e trovava per sé simboli ebraici adeguati» (141-142). Scholem riporta questo passo da una parabola riferita al Cantico dei cantici: «È simile a un re che aveva una figlia unica e l’amava di un amore immenso e la chiamava mia figlia. E non desistette dall’amarla finché la chiamò ‘mia sorella’. E non desistette dall’amarla finché la chiamò ‘mia madre’» (144).
«Se come ‘madre inferiore’ la Shekhinah è semplicemente presente nell’opera della creazione, in quanto ‘madre superiore’ essa rappresenta la possibilità della sua redenzione»(154-155). Nello Zohar, essa «in quanto femminile è intesa a più riprese e con particolare insistenza come partner femminile dello hieros gamos, dello ziwwuga qaddisha, in cui soltanto l’unità di tutte le potenze divine può realizzarsi per mezzo dell’unione del maschile con il femminile»(161).
L’integrazione di un elemento femminile nell’immagine della divinità, come si prospetta in Chymisch, suppone una profonda metamorfosi, dopo che il Dio di Auschwitz è divenuto incomprensibile e inaccessibile. Il suo Silenzio e la Sorella invocata appaiono complementari, è così anche nella poesia Radix, Matrix[16]:
Come si parla alla pietra, come
tu,
dal fondo di un abisso , di
una patria, a me fatta sorella
verso me scagliata, tu,
a me in un tempo remoto,
tu a me nel nulla di una notte,
tu nella non–notte
a me venuta incontro, tu
Non–Tu
Nessun simbolo religioso tradizionale può restare intatto in questo incontro col silenzio della pietra, con un radicale Non–Tu, il quale tuttavia è l’unica speranza, la sorella, da cui potrebbe venire salvezza.
«Vieni, Amata,
per giacere qui insieme, questa
è la parete che divide –: Egli
ne avrà allora abbastanza di sé, per due volte (zweimal).
«Tu sei doppia casa, Eterno, inabitabile»[17]. Come il Dio di Giobbe, il dio con cui si confronta Celan sembra intollerabilmente doppio, lacerato dall’impotenza e dal male che ha lasciato accadere nel mondo, come quello di Giobbe la sua figura è ora non più abitabile, esposta a una metamorfosi o al tramonto nella latenza dell’inconscio. E sembra che all’uomo, a ciò che resta dell’uomo, alla sua miseria presente, spetti il compito di compiere questa metamorfosi, di elaborare nella sua psiche ciò che ora manca alla figura divina: «Noi perciò costruiamo e costruiamo./Perciò qui sta, questo/miserabile letto, – alla pioggia,/ così sta». Stehen, stare e restare, in tutta la poesia di Celan indica la volontà di resistere nonostante tutto alla derelizione e alla mancanza, in questo caso alla mancanza stessa di Dio, che a differenza di quello di Giobbe «non viene, non ci rende asciutti», non ripara i guasti della pioggia dissolvente che abbiamo subito.
Siamo vicini, Signore,
vicini e afferrabili.
Già afferrati, Signore,
abbrancati l’uno all’altro, come fosse
il corpo di ognuno di noi
il tuo corpo, Signore.
Prega, Signore,
prega tu noi,
siamo vicini.
Nella terza strofa di Zweihäusig, Ewiger si rivela il rovesciamento radicale, che riattualizza quello operato da Giobbe. Non siamo noi che dobbiamo pregare il Signore è lui che deve pregare noi, forse chiederci perdono? Perché ha permesso – voluto? – la violenza verso tanti innocenti?
Glossa. B. Hendrik[18] ricorda che Zweihäusig è un termine biologico, e si riferisce a piante che hanno doppio genere, maschile e femminile; metafora per la presenza in Dio stesso del maschile e del femminile, come immaginato dalla mistica ebraica, e rinvia al saggio già citato di Scholem: la Shekhinah (che originariamente era il titolo dato da Celan negli abbozzi alla poesia) è il principio femminile in Dio, l’ultima manifestazione di Dio nel cosmo; da lui separato per il prevalere del male nel mondo. Questo “esilio della Shekhinah”, la scissione all’interno dell’essere divino, terminerà quando avverrà la riconciliazione col principio maschile, che è il senso stesso della redenzione.
L’inversione sistematica delle immagini e dei simboli della tradizione ebraico-cristiana, la loro reversione negativa, è al centro di Tenebrae[19], dove le figure cristologiche assumono un rilievo almeno pari a quelle della tradizione ebraica, coinvolgendole in un unico processo di ritrazione e metamorfosi. Le “tenebre” «si riferiscono alla rappresentazione della morte di Cristo» nei Vangeli: «A sexta autem hora tenebrae factae sunt super universam terram»(Mt 27,45). F. Lönker[20] ha messo in luce l’inversione sistematica di passi biblici e letterari come caratteristica fondamentale di questa poesia. Se nell’inno Patmos di Hölderlin si dice: «Vicino e difficile a cogliersi è il dio», qui invece siamo noi ad essere vicini e completamente afferrabili, abbrancati come le vittime dei campi. Se nel salmo 23 si dice «Il signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce», nella poesia di Celan il pastore conduce al luogo dell’annientamento e l’abbeverata è piena di sangue, rovesciando il senso della parola biblica. «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi», dice il Vangelo, ma ora invece il sangue è quello delle vittime, con la terribile ambiguità del testo, che potrebbe anche voler dire che è proprio il Signore ad averlo voluto versare. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno», ma nella poesia di Celan, il sangue viene bevuto confermando una morte senza redenzione,«gli occhi e la bocca stanno così aperti e vuoti» per sempre. In Zweihäusig, Ewiger: se nel Cantico dei cantici e in Isaia 4,6 il Signore protegge dalla pioggia e dalle intemperie, nella poesia ci lascia esposti, «lui non viene, lui non ci rende asciutti». Così in Tenebrae:
Curvi e sghembi noi andammo
andammo per chinarci
su fossa e cratere
Andammo Signore all’abbeverata
Era sangue, Signore,
ciò che tu hai versato.
E splendeva.
Gettò la tua immagine nei nostri occhi, Signore,
Occhi e bocca così stanno vuoti ed aperti, Signore.
Abbiamo bevuto, Signore.
Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore.
Prega, Signore.
Siamo vicini.
Come il Libro di Giobbe nell’interpretazione di Jung, questi rovesciamenti di senso non sono una inutile blasfemia, ma annunciano l’esigenza di una profonda metamorfosi dell’ordine simbolico, che sta avvenendo nell’inconscio del collettivo e che ancora non è giunta pienamente a coscienza.
Già Hölderlin nella sua poesia tarda raramente chiama per nome le figure divine, preferisce appellativi enigmatici, come il Conciliatore o il Principe della festa, perché questi sono e allo stesso tempo non sono più le potenze simboliche del mondo antico e cristiano, ne conservano l’ombra nel momento del trascorrere e della sparizione, ma contengono una parte di ignoto che non può essere nominata. Non più pienamente presenti, ritratte nel silenzio e nell’attesa, fra ombre di passato e tracce di futuro che cercano di comporsi come la materia di un sogno.
Tanto più Celan, dopo il disastro dell’ordine simbolico europeo nel ‘900, deve confrontarsi con lo scolorimento progressivo delle sue figure fondanti. Così corrisponde a un impulso profondo la sua evocazione di un principio femminile e generativo dell’essere, anche se di esso possono solo segnarsi tracce senza nomi definiti, come nella poesia Kolon[21]:
Nessuna mano
ottenuta vagando alla luce
della vigilia di parole.
Ma tu, a me giunta nel sonno,
in ogni pausa
sempre parli sincera:
quanto è sgiunto e discisso
prepari al viaggio di nuovo:
il letto
memoria!
Tu lo senti, noi qui a giacere
bianchi
oltre il millecolori
le millebocche dinanzi
al vento temporale, al respiro dell’anno, al cuormai.
La prima strofa rinvia a uno stato, a un lungo tempo, di mancanza e di assenza. La vigilia o la veglia è preparazione a un rito, un momento di privazione che può preludere a una festa; è anche un servizio di guardia durante la notte, un’attenzione concentrata, per cogliere segni di pericolo o di vita entro l’oscurità. È la “prova” iniziatica, della solitudine, del digiuno e della penitenza. Tuttavia non è uno sforzo eroico, che poi alla fine venga compensato, o una conquista della coscienza ottenuta vincendo il dolore.
Lo stato di vigilia è piuttosto uno svuotamento dell’io, che permette forse un’apparizione nella pausa dell’essere, nell’attimo del non essere, in cui ci mancano “mano” e parole. Colei che è “giunta nel sonno” affiora dunque dall’inconscio, femminile ispiratrice di una rinascita del linguaggio, ri-presa di una lingua intensamente trasformata rispetto a quella della chiacchiera e della ragione strumentale, senza la congiunzione dello spirito con questa controparte notturna, inconscia, lunare, proveniente come un sogno dal mondo della notte (o anche più profondamente dalla morte e dall’Ade) non c’è redenzione.
La sconosciuta, l’anima femminile, diviene ispiratrice della poesia e del verbo, in tutta la sua potenza erotica. Il risveglio del desiderio produce quello della parola, entro lo spazio in bilico, in sospeso, della “pausa” d’essere, nel vuoto della vigilia. La disgiunzione e la scissione sono di fronte a noi, comprenderle senza consolatori è necessario. La donna ispiratrice esercita la sua opera nelle pause, nei vuoti, nei silenzi, in cui tace la chiacchiera, serva delle opacità del potere, che dev’essere fatta saltare, disgiunta, discissa. La figura femminile riattiva la memoria, che vorrebbe ricomporre l’infranto, rendere compiuto ciò che è rimasto incompiuto. Il bianco, l’albedo, è possibile in questo radicale abbandono dell’Io all’altro da sé, che pone il poeta e l’amata al di fuori e oltre il millecolori e le mille bocche della chiacchiera spettacolare, del vuoto fervore del capitale, della storia dominata dalla catastrofe colorata e ciarliera del progresso.
Bianchi e non più dipinti di millecolori come i buffoni del potere, essi ascoltano il vento profondo del tempo, il respiro intimo dell’anno e si preparano al “cuormai”, a un evento inaudito e mai stato nella profonda anima. Questa attesa silenziosa e messianica non si riferisce tanto a un contenuto particolare, quanto a una disposizione a cogliere nell’attimo le voci dei dispersi e sommersi nella storia e riorientarle, riportarle in vita verso un non-ancora, in cui troverebbero finalmente la loro piena intelligibilità. Questo passaggio dalla scissione al ri-unificato, dal nero della disgiunzione al bianco del raccoglimento e dell’ascolto è il senso profondo dell’alchimia spirituale di Celan.
Note:
[1] Giuntina, Firenze, 1999.
[2] Nella raccolta La rosa di nessuno. Rinvio alla edizione delle Poesie di Celan, nella edizione dei Meridiani di Einaudi, curata da G. Bevilacqua, 2001, d’ora innanzi indicata con Poesie, p. 356. Traduzione modificata.
[3] P. Celan, Sotto il tiro di presagi, a cura di M. Ranchetti, Einaudi, Torino, 2001, p. 129.
[4] G. Bonola, “La testimone cieca”, in M. Susman, Il libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico, cit. p. 147.
[5] Poesie, p. 350.
[6] M. Susman, Il libro di Giobbe…, cit. pp. 97-98.
[7] C, G. Jung, Risposta a Giobbe, Bollati-Boringhieri, Torino, 1992.
[8] Poesie, p. 272.
[9] “Dein Hinübersein”, Poesie, p. 364.
[10] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Marietti, Genova, 1985, p. 439.
[11] “Zu beiden Händen”, Poesie, p. 366.
[12] “Psalm”, Poesie, p. 378.
[13] A. Neher, L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auchwitz, Marietti, Genova, 1991, p. 146.
[14] Poesie, p. 382.
[15] “Shekhinah. La componente femminile della divinità”, in G. Scholem, La figura mistica della divinità. Studi sui concetti fondamentali della Qabbalah,
Adelphi. Miano, 2010.
[16] Poesie, p. 404.
[17] “Zweihäusig, Ewiger”, Poesie, p. 420.
[18] Cfr. il commento alla poesia in AAVV, Kommentar zu Paul Celans “Die Niemandsrose”, Universitätsverlag Winter, Heidelberg, 2003, p. 187 e sgg.
[19] Che appartiene alla raccolta Sprachgitter, Poesie, p. 272.
[20] In AAVV, Kommentar zu Paul Celans “Sprachgitter”, Universitätsverlag Winter, Heidelberg, 2005, p. 187 e sgg.
[21] Poesie, p. 456. Traduzione mia.
Immagine: P. Klee, Blumenmythos.