L’oscuro residuo di Dio. La rivolta di Giobbe – di Massimo Cappitti
Sappiate invece che è stato Dio a farmi torto,
è Lui che mi avviluppa nella sua rete.
Giobbe
«Di te ho bisogno, d’uno che sappia protestare così forte che l’eco giunga ai cieli là, dove Dio si intrattiene con Satana a ordire piani contro un uomo!».[1] Inizia così la riflessione di Kierkegaard dedicata al libro di Giobbe. Giobbe, duramente messo alla prova da Dio, appare «su un palcoscenico dove egli presenta agli occhi e agli orecchi del mondo intero la sua causa»[2]. Afferma Giobbe «io vorrei incriminare Shaddaj. È contro Dio che vorrei protestare»[3]. Sofferente e innocente, avvia un processo contro Dio. Dio e Satana hanno scommesso sulla fedeltà di Giobbe, sull’autenticità della sua professione di fede. Sconcertante che Dio abbia attivamente aderito alla proposta del Maligno di sottoporre il protagonista a una prova inutile ma, soprattutto, iniqua. Colpiscono l’indifferenza e l’assenza di pietà che accompagnano la caduta di Giobbe in un «abisso di tormenti fisici e morali», «nello Sheol, regno della indeterminatezza, paese della calugine e della opacità, dell’oscurità e del caos, in cui la stessa luce è tenebra fonda»[4]: eco di un «fondo tenebroso» da cui le vite prendono forma. Il patimento di Giobbe riassume in sé «la voce del dolente e il grido dell’affranto e l’urlo dello sgomento»[5] e, ancora, il conforto per tutti coloro che – ammutoliti – subiscono la tragedia della vita. Il protagonista incarna la figura del vicario, testimone dello strazio che alberga nell’animo umano e colui che paga per i peccati degli altri e di tutti.
«Giobbe! Giobbe! Oh Giobbe: allorché l’esistenza intera ti franò addosso e giacque in cocci attorno a te, trovasti subito la chiave dell’amore, l’ardimento della fiducia e della fede?»[6]. Prende forma il conflitto tra Dio e l’uomo e tra Dio e Dio. Battaglia impari che trasforma il protagonista nel «bersaglio» di Dio, «la sua preda». La storia però «è ben altro che l’edificante storia di un’anima o la vicenda a lieto fine»[7]. Apparentemente, Giobbe ignora il patto che lo riguarda e, ancor più, ignora di costituire un pretesto perché Dio eserciti la sua potenza. Giobbe crede in un Dio buono e giusto ma non è «l’antesignano dei moderni critici di Dio e i suoi aspiranti sostituti, ma altrettanto poco somiglia al paziente imperturbato che in lui ha veduto la tradizione»[8]. Il bisogno di sapere orienta la strategia di Giobbe, il quale chiama in causa Dio, che – immotivatamente – ha inferto al suo accusatore una inevitabile ingiustizia.
Gli eroi eponimi dell’umanità, Ulisse, Faust o Amleto, per quanto eloquenti e significativi, sono labili ombre a paragone di questo oscuro personaggio biblico che soffre con un’anima simile alla nostra, e dice le cose che anche noi ci siamo detti, le uniche cose veramente essenziali per tutti[9].
Ripetutamente Giobbe invoca la morte, ristoro paradossale e rifugio estremo del dolore del presente. Un crescendo accompagna la vicenda che da una iniziale, rassegnata disperazione sfocia tra atroci sofferenze nel grido angosciato di Giobbe[10]. Nuovamente egli reclama il diritto di protestare e di citare Dio in giudizio, aprendo così una «vertenza» segnata dallo scarto incomponibile che oppone all’onnipotenza divina l’impotenza umana. Eppure egli non viene mai meno alla sua fede, anche quando Dio non ha esitato a dar voce alla sua collera. Dio è il «carceriere» degli uomini contro i quali scatena la propria violenza.
Il potere di Dio è assoluto, esercitato fuori da ogni regola, persino da quelle che lui stesso ha stabilito. Quand’anche gli uomini fossero in grado di entrare direttamente in relazione con Dio, sarebbero pur sempre soggetti inappellabili di condanna. Qualsiasi iniziativa umana si infrange nella spietata indifferenza divina, nella dismisura del male. Vana è la speranza di Giobbe di ottenere risposte efficaci alle sue lamentazioni. «Anche se avessi ragione, mi avvolgerebbe in una tormenta, moltiplicherebbe le mie piaghe senza motivo», «in quanto a forza, lui è la forza in persona; in giudizio chi lo può far comparire»[11]. La ricomparsa della parola divina e l’uscita di Dio dal suo silenzio non aggiungono né chiariscono alcunché. La stessa teofania finale non fornisce risposte al tragico di Giobbe. Poco importa che Giobbe sia innocente o colpevole; Egli annienta il colpevole e l’innocente. Si diverte a piegare gli uomini: «Se una catastrofe semina all’improvviso morte, egli sghignazza sulla tragedia degli innocenti». «Tutte le mie sofferenze mi scoraggiano, so bene che tu non mi assolverai»[12].
Se Dio esiste perché permette il male? Perché il destino colpisce me piuttosto che un altro? Per gli amici di Giobbe – «stomachevoli consolatori» e depositari di un sapere tradizionale, ormai sterile – vige il principio di retribuzione per il quale «ogni sofferenza è meritata perché è la punizione di un peccato individuale o collettivo, sconosciuto o conosciuto»[13]. Accade che i colpi di Dio richiamino un «senso nascosto», cioè ci sfuggono i motivi per i quali siamo puniti. Giobbe replica sarcasticamente alle argomentazioni sollevate dal suo amico.
Dio è crudele e più gli si ubbidisce, più ci tratta con severità. È più potente dei potenti, col dito mignolo può dar loro il colpo di grazia, ma non lo fa. Solo i deboli ama annientare. La debolezza di un uomo eccita la sua forza. L’ubbidienza risveglia la sua ira. È un grande crudele isprawnik. Se tu osservi le leggi, allora dice che le hai osservate solo per tuo vantaggio. E se appena trasgredisci uno solo dei comandamenti, allora ti perseguita con cento castighi. Se vuoi corromperlo, ti fa un processo. E se ti comporti onestamente con lui, sta in agguato per corromperti[14].
Il romanzo di Joseph Roth intitolato a Giobbe è l’inserzione della «possibilità utopica» della promessa preventiva di felicità nel dominio del religioso. L’uomo può essere migliore, può comportarsi meglio del proprio Dio. Osserva Bloch che «un uomo supera, anzi risplende sopra il suo Dio. Sogna fuori un’altra vita al di sopra di sé, un disporre e governare migliori di quelli che appaiono ai suoi occhi perché non comprende più la miseria del mondo»[15].
Di quale Dio stiamo seguendo le tracce? Un Dio che «affanna e consola», un Dio che perseguita e colpisce, scempia e sfigura gli uomini, ridotti a un’obbedienza indefettibile, o ancora un Dio che sta per ritrarsi dalla scena del mondo – deus absconditus – gettato nelle pieghe dell’universo. Sottolinea Jung che dalle parole di Giobbe «emerge chiaramente che egli, pur dubitando che un essere umano possa aver mai ragione contro Dio, riesce solo difficilmente a rinunciare al pensiero di affrontare Iddio sul piano del diritto e perciò della morale»[16]. Ciò significa che non può rinunciare alla fede nella giustizia divina. Benché veda con chiarezza che Dio stesso si trova in un conflitto totale, da dare a Giobbe la certezza di trovare in Dio anche un alleato e un difensore, «Giobbe non può negare di trovarsi di fronte a un Dio che non si preoccupa di alcun giudizio morale, che non accetta alcuna etica che rappresenti per lui una limitazione o un impegno»[17]. Jung insiste nel sottolineare che Jahwèh non è diviso in due bensì è un’«antinomia», è contemporaneamente «persecutore e soccorritore». In questo consiste il dualismo di Dio che se da un lato «schiaccia senza il minimo scrupolo le vite umane, dall’altro però cerca nell’uomo il suo punto di riferimento»[18]. Sergio Quinzio parla del «Dio debole». La storia di Dio è una storia di sconfitte. Secondo la cabbala la creazione del mondo «è resa possibile dallo tzimtzum, il “contrarsi” di Dio. Nella sua totalità infinita e perfetta che non lascia nulla al di fuori di sé, non avrebbe altrimenti potuto trovar posto ciò che è altro da lui»[19]. Luigi Pareyson, sulla scia degli scritti tardi di Schelling, fa più volte riferimento al male in Dio.
È nel Dio prima di Dio che risiedono il nulla e il male come possibilità superate e vinte, ormai remote anzi immemorabili, respinte indietro dalla stessa originazione di Dio, ma tali da costituire l’accompagnamento oscuro della vittoria sul nulla e la scelta del bene, il risvolto opaco della sua positività, l’aspetto inquietante della sua affermazione stabile e sicura: quasi un’ombra in Dio, come a velare la sua luminosa apparizione, a trattenere la sua espansione avanzante, a concentrarlo maggiormente nella sua essenziale ascosità»[20].
Dio rompe il suo silenzio, spostando il terreno di confronto con Giobbe e magnificando la sua creazione, che è esibizione di forza e celebrazione della sua potenza. «Quando gettavo le fondamenta della terra tu dov’eri?»[21]. La presunzione di Dio si mostra in un comportamento «rivoltante», che testimonia la profonda inadeguatezza di Dio, incapace di rinunciare alla propria potenza.
Note:
[1] S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico di Constantin Constantius, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 96. Per un commento puntuale cfr. G. Ravasi, Il libro di Giobbe. Introduzione, traduzione e commento, Milano, Rizzoli 1989.
[2] P. Ricouer, Il male, Morcelliana, Brescia 1993, p. 15.
[3] Gb, 13, 9-14. «Le frecce di Shaddaj mi si infiggono e il mio spirito ne succhia il veleno. I terrori di Dio sono stati schierati per assaltarmi». Gb, 6,7. Un ulteriore esempio della crudeltà divina si ritrova in 16, 17: «La sua rabbia mi perseguita per dilaniarmi, contro di me digrigna i denti, contro di me il mio nemico affila gli occhi».
[4] Gb, 10, 21-22.
[5] S. Kierkegaard, La ripetizione, op. cit., p. 95.
[6] Ibidem.
[7] G. Morselli, Fede e critica, Adelphi, Milano 1977, p. 57.
[8] Ivi, pp. 56-57.
[9] Ivi, p. 54.
[10] La posizione di Giobbe è, in diverse occasioni, accompagnata da una «impotente indignazione». «Egli non può né contraddire Dio, né costringerlo a giustificarsi, né purificarsi da colpe che non ha la coscienza di aver compiuto», G. Ravasi, op. cit., p. 92.
[11] Gb, 9-10.
[12] Ibidem.
[13] P. Ricouer, Il male, op.cit., p. 15.
[14] J. Roth, Giobbe, Adelphi, Milano 1992, p. 150.
[15] E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1990, p. 146.
[16] C. G. Jung, Risposta a Giobbe, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 15.
[17] Ivi, pp. 15-16.
[18] Ibidem.
[19] S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 40.
[20] L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 1995, pp. 178-179.
[21] Gb, 38, 4.