Del rocchetto e d’altre facezie – di Antonio Tricomi
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
Giovanni Giudici, La vita in versi
Cioè: non mi sembra mia questa pancia.
Nel senso: sì, certo, è qui che scalcia,
e mi piace non si può dire quanto.
Ma se fosse soltanto un azzardo?
Un soprassalto di vitalità
preso per voglia di maternità?
Sempre, di mio padre, in soggezione.
Con mia madre: chi, dell’altra, bambina?
Mio fratello che mi chiama Stellina.
E io, nei racconti, a separarmi –
dal loro immutato inglobarmi –
in più grata identificazione.
Allora poi credi: serve un atto
che mi vieti questo gioco perverso
di riproduzione. Come mi lagno
e compongo per casa il dissesto,
a darmi in arredo quell’attrattiva,
ch’è loro, di acquattarmi passiva.
O l’isteria nel cibarmi, scordarmi,
ancora cercassi loro premure
e fossi in contesa, senza più scuse,
coi loro sordi capricci sovrani.
In un febbrile arresto del tempo
che non contempla il trascendimento:
nella villa da cui scorgo il mare,
tra mattoni sempre più scorticati,
noi che tutti a vuoto straparliamo –
quand’è estate in terrazzo le sere,
al primo piano graffiano i gatti –
ciascuno a sé. Intanto moriamo.
Come sottrarsi a questa commedia
di letargie, Gratta e Vinci, invarianze,
se ognuno non ha, è la sua parte?
Dovrei essere d’un’altra materia:
a chi non vuole diverso copione
recare, e pure a me, dolore.
Infatti pensi, ripensi, comprendi:
perché mai sentirlo un sobrio cenno
d’affrancamento da questo spartito,
un figlio? S’è anche lì partorito.
Non ho scampo dal gioco col rocchetto:
tu lasci riprendi, lasci riprendi.
Non lo so in che maniera si fa.
Sempre, anche nei sogni, quelle mura,
l’eco di frasi stantie fra le crepe.
Quasi che avessi sotto la pelle
un guinzaglio a negarmi la fuga.
Ma un espediente si troverà.
Forse, anzi è così senza meno,
qualche cosa di un poco diverso
principia da gesti a sé ignoti
a cui ci si piega contro nevrosi
che diciamo natura, e invece
sono la storia da cui si proviene.
Scriverò in un’agenda gli impegni.
I ripiani non saranno sommersi
da bugiardini, tazzine, rimpianti
per questo, per quello, per tutta quanta
la vita decorsa in rimostranze.
Spegnerò la tv, se fuori stanza.
Solo facezie. E, anche volesse,
dal sintomo che l’ha, s’è costruito,
nessuno si smarca poi veramente.
Ecco: può giusto farne altro rito,
cosicché, da mutata prospettiva,
il corpo senta la sua recidiva.
Sappia almeno giovarti, figlietta –
se, fornendo in vitto quel che siamo,
tutti diamo impacci a chi nasce –,
il mio strazio tra l’avido affetto
per il mai lasciato e il richiamo
a stremarlo, in testa, finché tace.
Non sono stata per tempo infedele,
dunque mai lo sarò, alle radici,
madri – tutte – di deliri, vagiti:
quelli dei miei, il sogno borghese
d’unicità, a marcare col mondo
divari, per tormento o per soldo.
E il prezzo mi è chiaro, di questo
smorfioso sofismo: io sono sola.
È scelta? È contagio da memoria.
Fragile, tra le persone m’immergo
a cercarne così l’approvazione
per mimesi, autoesclusione.
Da me torno a me: stringo il niente.
Ed è proprio allora che insorge
la nostalgia non quale cosciente
piacere d’infanzia, ma ch’è deforme
ossequio alle stagnanti romanze
che le mie ossa fanno movenze.
Ti piaccia, di me, non questo lignaggio
o che sempre ne dico un gran male:
due modi per non darmi ancoraggio
a un definirmi senza ciurmare.
Crescendo, studia di più, viceversa,
la mia scorza: ciò non mi ha persa.
Divisa, confusa, insicurante;
eterea, silente, accanita:
non l’ha, l’educazione parentale
alla morte, però avuta vinta
su me, se così a te mi descrivo,
ma posso comunque vederlo: vivo!
Sai? In fondo t’ho voluta per questo:
non fibre ch’io plasmi, ma ti sento –
giacché non ho smania di insegnare,
e poi cosa? come farsi del male? –
l’ostile reale che può strapparmi
al mio comodo significarmi.
Immaginarti qualcosa, qualcuna
che giunge per dispormi all’ascolto
di quanto non ho. Ma all’improvviso
divenire non m’incute paura:
vegliarti per smorzare il ricordo,
domandare chi sono al tuo viso.
Svestita – allo specchio un ritratto
che mi frantuma in lombi nascosti
dal ventre slargato, piedi rigonfi,
niente tinta ai capelli – d’un fiato
però mi sovviene cos’è il vizio
del quale s’ammala il proprio figlio:
è il senso di colpa, o l’opposto,
cui l’affida chi in lui riconosca
sia diniego sia dovere del conto
da saldare, o no, con la trascorsa,
presente forma di vita che è.
Chi l’estranei in giudizio su sé.
E allora trattengo il respiro.
Da tutta l’ansia – non sono capace,
avrà tare – ricavo un sospiro,
quasi un sorriso, che mi dà pace.
Brillano bave di sole sul vetro.
Acceco, ma non mi volgo indietro.
(29 marzo – 22 maggio 2023)