Il male dei moderni. Note contemporanee, a partire da “Giobbe amico mio” di Bronislaw Baczko – di Gianfranco Ferraro

Il male dei moderni. Note contemporanee, a partire da “Giobbe amico mio” di Bronislaw Baczko – di Gianfranco Ferraro

18 Settembre 2023 Off di Francesco Biagi

Il primo novembre 1755 la terra trema a Lisbona. “Grande sarà l’imbarazzo di chi vorrà capire come le leggi del movimento producano disastri così spaventosi nel migliore dei mondi possibili”, commenterà Voltaire: “che razza di gioco d’azzardo è la vita umana? Che diranno i predicatori, soprattutto se il palazzo dell’Inquisizione è rimasto in piedi?”[1]. Il terremoto di Lisbona è un evento che sconvolge letteralmente, com’è risaputo, le certezze con cui il secolo dei Lumi si era impegnato ad emancipare la civiltà europea dai saperi teologici e dalle forme religiose dei secoli precedenti. Voltaire, il cui sorriso filosofico era assurto a rappresentazione sovrana di una intera epoca, nella quale, il sole politico di Luigi XIV era da poco tramontato su una sovranità statuale sempre più autonoma dai fondamenti teologici, si mette a scrivere il suo Poème sur le désastre de Lisbonne, questa volta scagliandosi, però, contro lo stesso compiacimento con cui i filosofi avevano cominciato a osservare una Natura la cui perfezione non doveva essere necessariamente imputata a Dio. Anche di questo sguardo, anche di questa percezione che, in fondo, sostituiva una perfezione con un’altra, una teo-logia con una fisio-logia retta da leggi immutabili e segrete, si poteva e si doveva sorridere. Anche se costava, e parecchio, allo stesso Voltaire: “Filosofi fuorviati che gridate «Tutto è bene» / Accorrete, contemplate queste orribili rovine, / E le macerie, e gli stracci, e le misere ceneri”, “«Tutto è bene, e tutto è necessario». / Ma come! L’universo intero, senza questo baratro infernale, / Senza inghiottire Lisbona, sarebbe stato peggiore?”, “Questo mondo, questo teatro di orgoglio e di errore / è pieno di sventurati che parlano di felicità”[2]. La verità è che Voltaire è sgomento. L’ironia perde un po’ della sua tenacia: “Tutto lascia pensare che il disastro di Lisbona abbia scatenato in Voltaire una crisi filosofica e morale: cambia la sua percezione del male, nonché il modo con cui ne parla”[3], commenta Baczko. Il male, appunto. Ad essere terremotata, è, in fondo, la fiducia che i Lumi avevano riposto in se stessi, nella capacità di adeguare la natura della ragione a quella della Natura, perfetta in se stessa. Con l’immagine di Dio, si era pensato di riporre tra gli armamentari ormai desueti anche il male. E, invece, se gli uomini possono regolare le proprie vite senza una direzione soprannaturale, il male permane. Irrompe nella storia, che allora non può essere più quella sognata, la storia di un progresso dell’uomo in direzione di ciò a cui solo deve adeguarsi, la ragione naturale. Se la Natura così perfetta non è, a cosa serve questo sforzo? È la stessa tensione che aveva sospinto la grande avventura del secolo a scoprirsi nuda: la ragione umana è sola, la felicità è una chimera. Senza Dio e senza Natura, senza perfezione a cui tendere, tutto sprofonda nell’assurdo. “Il male è sulla terra” scrive Voltaire nelle sue lettere tra il 1755 e il 1756. “Significa prendermi in giro dire che mille sventure producano la felicità. Sì, il male c’è e pochi uomini vorrebbero ricominciare da capo la loro vita, forse nemmeno uno su centomila. E quando mi si dice che le cose potevano essere altrimenti, si reca oltraggio alla ragione e ai miei dolori”[4]. Da adulto, Goethe ricorderà lo sconcerto provato da bambino, quando di fronte all’evento catastrofico di Lisbona, nessuno dei dotti del tempo riusciva a dare adeguate risposte: tra di essi, Voltaire, Kant.

Il libro di Baczko ha quasi trent’anni, ma morde ancora. E lo fa, ovviamente, là dove più duole. Quando Baczko scriveva, il Novecento si andava chiudendo. La fiducia nell’umana ragione era stata più che squassata dall’inenarrabile accaduto nella prima metà. Anche il lungo Dopoguerra, con l’incubo nucleare sempre lì pronto a esplodere, aveva più che mai motivato i dubbi sulla capacità degli umani, degli umani occidentali, per lo meno, di uscire dallo stato di minorità in cui erano caduti. È vero, però, che l’incubo era rimasto per quattro decenni là dov’era, ben seppellito negli arsenali delle maggiori Superpotenze. Due modi antagonici di vedere il mondo e di regolare le umane vicende si erano contrapposti ideologicamente, geopoliticamente, economicamente: entrambi, però, con la pretesa di far risalire proprio al secolo dei Lumi la propria spinta promotrice. Comunismo e democrazia rappresentativa, economia pianificata e di mercato, si riconoscevano come eredi dei Lumi, ciascuno a proprio modo. Provavano, anzi, a legittimarsi come due modi diversi di esperire la fiducia nella capacità dell’umanità di perfezionarsi: nella conoscenza, nella capacità di difendere le libertà, di dare gli strumenti tecnici per migliorare le condizioni di vita di ciascun essere umano e dell’umanità nel suo insieme. La caduta del Muro – evento, in sé, solo geopolitico – fa cadere la fiducia in tutti quegli altri sistemi di idee e di pratiche in cui si era costruita una declinazione diversa della ragione. La “fine della storia” proclamata dal quarantenne Fukuyama appena cinque anni prima della pubblicazione del libro di Baczko, pretendeva di rivelare ideologicamente semplicemente una cosa: che l’unica ragione, e dunque l’unica fiducia possibile nella realizzazione degli ideali illuministici doveva essere riposta in quell’unica forma di vita che aveva vinto, economicamente e geopoliticamente, la grande battaglia del Novecento. Tutto il resto era stato battuto o si era accartocciato nella polvere della storia. Il mondo poteva finalmente essere governato da un unico principio che avrebbe condotto il mondo, pezzettino dopo pezzettino, ad accettare le leggi di mercato, e anche i più riluttanti a dire che, sì, in fondo, quello che aveva vinto, e che sempre più si sarebbe imposto, sarebbe stato il migliore dei mondi possibili. Quello che non avevano dimostrato i filosofi – e, anzi, il secolo si era aperto proprio con dei filosofi che dimostravano il contrario – era stata la storia a metterlo nero su bianco, facendo trionfare l’unica ragione possibile, mettendo quindi fine a se stessa. L’uomo felice, l’essere umano realizzato, è, letteralmente, colui che si fa da sé, il self-made man: “[C]ritica nel propri confronti, la ragione ha dunque, quale sua appendice morale, la fiducia nell’uomo, nel suo presente e nel suo avvenire” scrive Baczko, pensando all’umanità sognata dai Lumi: “[C]ertamente imperfette e limitate, le facoltà di cui gli uomini dispongono corrispondono alla perfezione ai loro bisogni reali. La condizione umana, in sé e per sé, comporta quindi una promessa di felicità. È compito degli stessi uomini, e in particolare delle menti illuminate, tradurla in vita comune, in essere-insieme”[5]. Dio può anche essere morto, la Natura può ancora essere vinta dalla tecnica e la stessa morte individuale può sparire dalla scena, sepolta dallo spettacolo di nuove luci, sotto cui splende l’ultimo uomo, figlio del ’700. La fede è la stessa. E lo è appunto, soprattutto rispetto quella promessa di felicità il cui fondamento Benjamin aveva provato a chiarire negli anni Trenta: “L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto”. Criticare l’“idea di tale procedere” “deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso”[6]. Il “balzo di tigre nel passato” che ogni moda compie nel passato, viene sfruttato dagli interessi dominanti di un’epoca per citare un’epoca passata. La pretesa con cui si chiude il Novecento è quella di compiere, precisamente, la ragione e le razionalità di due secoli prima. Avendo finalmente davanti a sé un tempo svuotato da ogni storia, essa può finalmente librarsi in volo sulle rotte determinate, certo, dal linguaggio e dalle forme del nuovo tempo.

Si può saltare indietro in altro modo, però: “lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico”[7], ricordava Benjamin. Il volo del progresso è lo stesso dell’Angelus Novus. Il quale, però, invece di seguire la direzione del vento – che lui avverte come una bufera – viaggia “con il viso rivolto al passato”, lo sguardo attonito su ciò che si lascia alla spalle. Sappiamo cosa vede: “là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi”[8]. Da storico dell’illuminismo, e da polacco trapiantato a Ginevra già nel 1969, Baczko fa dunque il suo balzo nel passato per rivendicare la storicità del presente. Lo fa ellitticamente: ricordando cioè la storicità di quella stessa epoca di cui quella contemporanea pretendeva di considerarsi figlia primogenita, e facendo riemergere, accanto alla costellazione che l’epoca contemporanea vorrebbe citare, tutta orientata, appunto, al progresso, una diversa costellazione: costruendo un’altra storia dell’origine illuministica, da storico, Baczko “cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circorstanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quell’adesso, nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico”[9]. Questa nuova storicità, in cui il tempo presente viene aperto sino al suo rimosso, riemerge proprio quando è posta a contatto col rimosso dell’origine di cui esso si vorrebbe erede: l’irruzione del male sul trono della ragione, che porta, per Baczko, il nome di Giobbe.

“Buongiorno, mio caro Giobbe”[10], scrive infatti Voltaire nel suo articolo pubblicato nel Dictionnaire philosophique, e dedicato proprio al personaggio biblico. Senza evitare di canzonare tutto ciò che gli ruota intorno nell’Antico Testamento, Voltaire tutto sommato lo salva, aggiungendo nel 1769, due anni dopo la prima pubblicazione: “Del resto, il libro di Giobbe è uno dei più preziosi di tutta l’antichità”[11]. Commenta Baczko: “l’ironia è intrisa di sincerità. Sia pure perplesso e controvoglia, egli riconosce la grandezza di questo libro emblematico sull’esperienza dell’infelicità”[12].

Voltaire si era dovuto confrontare con la teodicea, traendone dapprima un’attitudine “minimalista”: se non tutto è bene, tutto è, per lo meno, sopportabile. Eppure, fino a un certo punto, “questo turbamento passeggero non mette in questione il carattere fondamentalmente razionale e ordinato del mondo”[13]. Eppure, Voltaire non può accontentarsi di ripetere ciecamente una sua convinzione, davanti all’irruzione del male radicale, sia esso collettivo, come nel caso del grande terremoto, o privato, come nel caso della morte sua grande amica Mme Châtelet o della prigionia cui lo costringe Federico II: “Se il mondo è davvero ordinato razionalmente, allora l’esistenza del male rappresenta uno scandalo morale e intellettuale”[14]. Eppure, di fronte a questa irruzione, che fa vacillare il suo sguardo sul mondo, Voltaire non vacilla nella sua attitudine. È in questa attitudine, e non nel suo razionalismo, non nella sua idea di natura, che Baczko ritrova la vera grandezza del filosofo, quando cioè, “[n]on raccoglie la sfida alla ragione con un discorso sistematico, o con un libro di precetti morali, ma con un testo che fa genere a sé, ancora e sempre capace di sorprenderci: Candide ou l’Optimisme[15]. Voltaire sembra insomma vivere già in sé tutte le premesse di quella dialettica dell’illuminismo che verrà pensata esattamente due secoli dopo, ma tenta di uscirsene senza “precetti morali”. Al contrario, quasi: Voltaire rimarrebbe, in questo senso, sempre più vicino al Marchese de Sade che a Kant e ai suoi allievi tardivi. Ciò che infatti non deve andare perduto del Candide “è la sua dimensione essenziale”, scrive Baczko. Ovvero, “il riso voltairiano: da due secoli a questa parte Candide non smette di farci ridere. Il racconto rappresenta con precisione le disgrazie dei suoi eroi e l’assurdità di un mondo che è anche il nostro”[16]. “Irresistibile e pungente”, il riso di Candide rimane sconcertante. E cosa significa, poi, quella chiosa finale, “bisogna coltivare il proprio il proprio giardino”?[17] Baczko ricorda come la stessa avventura editoriale rappresenta uno dei migliori commenti: stampato clandestinamente, il volumetto è condannato da tutte le censure, rincorso e sequestrato da tutte le polizie. L’autore nega l’autorialità, schermandosi dietro la finzione di una traduzione dal tedesco, divertendosi “a giocare a nascondarello”[18], ma compiacendosi di non poter essere punito. Un gioco illecito insomma, ma per nulla solitario. È questo che fa ritornare alla mente proprio il “giardino”, ed è questo che rende il gioco estremamente serio: “una volta a casa propria, leggendo questo libro proibito, si è presi da un riso folle, esso pure illecito. A loro insaputa, tutti i suoi lettori insieme, ciascuno per conto suo, partecipano così a un’avventura collettiva: contro tutte le censure, affermare nei fatti la libertà di espressione”[19]. È un Voltaire “divertito come un bambino” quello che Baczko insomma riconsegna, mentre nel suo rifugio di Ferney quasi tende l’orecchio a cogliere “gli echi di questo riso illecito che, da tutta Europa, giungono al suo «giardino»”[20]. Nel lavoro, e nel piacere di vivere, Voltaire incanala la sua inquietudine metafisica e morale: “non sogna una società più giusta, ma una buona giustizia; non una comunità felice, ma una vita in comune meno disgraziata e più prospera; non una società trasparente e razionale, ma uno Stato che garantisca la tolleranza e protegga le arti e le scienze”[21]. È questa l’attitudine dello “spirito libero” a cui sembra richiamarsi, in fondo, il Nietzsche “illuministico” di Umano troppo umano – dedicato a Voltaire nel centenario dalla sua morte – quasi ripensando – nell’immagine della “grande separazione” che ogni spirito libero deve esperire per poter davvero diventare tale – proprio l’evento del grande terremoto con cui Voltaire è costretto a confrontarsi[22]: nella separazione da se stessi si svegliano allora nella giovane anima “una volontà e un desiderio di andare avanti, dove che sia, a ogni costo; un’ardente, pericolosa curiosità verso un mondo ignoto serpeggia fiammeggiando in tutti i suoi sensi”[23]. E ancora: “con una risata cattiva capovolge le cose che trova velate, risparmiate da un qualche pudore: vuol provare come esse appaiano, quando siano messe a testa in giù”[24].

Il “caso” Voltaire è per Baczko il punto di partenza, ma anche il paradigma, con cui tornare a guardare all’illuminismo, a partire da un’epoca, che è ancora la nostra, in cui si pretende di ritornare a una fede, fosse anche nella ragione, senza però quegli “spiriti liberi” che della ragione non si sarebbero mai fatti apostoli, ma ludici praticanti. Nel segno del gioco devono infatti essere viste anche le molteplici utopie illuministe, che scherniscono senza pietà la disperata ricerca topografica clericale dei “paradisi terrestri”[25], rispecchiano la ricerca di una provvisoria, parzialissima, “arte della felicità”[26], come nel caso di Fontenelle, o, come in quello di Diderot, tentano di trovare nella storia – magari in una storia futura – quel punto di perfezione umana che dovrebbe collocarsi tra il selvaggio e l’uomo civilizzato[27], e che, nel lampo della Rivoluzione americana, sembra potersi effettivamente realizzare. Nell’illuminismo, “la teodicea si converte in antropodicea: proprio perché liberi, gli uomini sono interamente responsabili dell’uso che fanno di tale libertà; responsabili, quindi della loro storia”[28]. I philosophes hanno dunque lo sguardo proiettato verso l’avvenire, e non verso il proprio presente: precisamente ciò di cui Leopardi rimprovererà il proprio secolo “superbo e sciocco”: “contro un male dalle molte facce, quali sono i mezzi per diminuire il tasso delle umane sofferenze?”[29]. Sarà Rousseau, marginale e modello di intellettuale antitetico a quello voltairriano, prima di diventare oggetto di un vero e proprio culto durante la Rivoluzione, a segnalare “le ombre prodotte dalla storia in marcia”[30], facendo dell’ineguaglianza l’origine del male morale. Per Baczko, in questo modo, l’epoca dei Lumi “si caratterizza piuttosto per un lavorio intellettuale e culturale che va in profondità, disloca la stessa questione del male in nuovi territori, e, così, inaugura la modernità”[31].

Il male si ritrae dall’assoluto, diviene molteplice: non può risolversi integralmente, ciò che fa dell’Illuminismo anche un antidoto contro qualsiasi messianismo totalizzante. Eppure, deve confessare Baczko, “una volta sconsacrata, la storia è stata investita da promesse che, con ogni evidenza, non è riuscita ad adempiere. Come se, per contrappasso, l’età dell’oro della ragione avesse rinfocolato la nostalgia del Paradiso perduto e i Lumi avessero lasciato dietro di sè una grande ombra”[32]. Nel “non detto” del Contrat social è il male sociale – che proprio l’ambivalente “pantheonizzazione” del filosofo rappresenterà durante la rivoluzione[33] – il grande fantasma: “Che ne sarebbe di coloro che rifiutassero di obbedire alla volontà generale, di coloro cui si applica la famosa formula «li si costringerà e essere liberi»? Da dove sbucano tutti quelli per i quali sono previste, non foss’altro che in una nota, le prigioni sulla cui facciata si legge la parola Libertas?”[34]. Se non vengono indicate chiaramente le forze che producono i marginali della Città Nuova, è chiaramente definito il meccanismo di repressione, lo stesso, in fondo, a cui il sedicenne Rousseau si ritrova quando gli vengono chiuse in faccia le porte di Ginevra[35]. Proprio a Rousseau, e al complesso rapporto che la rivoluzione e i costituzionalisti rivoluzionari – Sieyès, su tutti – instaureranno col ginevrino, Baczko dedica gli ultimi capitoli. Concependo l’elettore come colui che esercita una funzione rappresentativa, Sieyès, proprio nel momento in cui appare più lontano dal rifiuto della rappresentanza di Rousseau, gli è invece più vicino: “non è un diritto originario, quello elettorale, ma una funzione che la nazione ha affidato al cittadino; quando costui accorda la propria fiducia al rappresentante deve pensare all’interesse della nazione”[36]. Rousseau diventa quindi il quadro stesso dentro cui la rivoluzione si trova a pensare e ad agire: è colui che contribuisce a generarla, ma è anche colui la cui immaginazione di una autorità sovralegale su cui fondare la nuova razionalità politica contribuisce a radicalizzarla sino al punto di rottura e di collasso. L’Illuminismo produce la Rivoluzione, ma la Rivoluzione è chiamata a parlare il suo linguaggio proprio mentre lo apprende. Sua figlia riconosciuta, la Rivoluzione francese produce per questo, da subito, una sua pedagogia, che però dev’essere anch’essa osservata nel suo carattere plurimo, come “un vasto campo di idee e di esperimenti in cui si manifestano tendenze diverse, anzi opposte”[37]. In una di queste opposizioni, troviamo il modello del vero giacobino, attuato attraverso lo scrutinio epurativo, in cui politica e morale si fondono per poi però confrontarsi opportunisticamente con le situazioni del momento. Prende corpo, pian piano, quel modello normativo del rivoluzionario che ritroviamo nel Rapport sur la police générale, la justice, le commerce, la législation, et les crimes des factions, di Saint-Just: “Un rivoluzionario è inflessibile. Ma è assennato: è frugale; è semplice senza esibire quell’articolo di lusso che è la falsa modestia; è nemico intransigente di ogni menzogna, di ogni indulgenza, di ogni affettazione”[38]. All’entusiasmo pedagogico giacobino risponderà Condorcet, contrapponendovi il “cittadino libero e responsabile” a cui dovrebbe tendere l’istruzione pubblica[39]. E proprio all’entusiasmo filosofico di Condorcet Baczko dedica le ultime pagine: se domandarsi Che cos’è l’Illuminismo? significa “definire se stessi in rapporto al ‘secolo illuminato’ e alla sua eredità culturale”, guardare ad un tempo verso un idealtipo e una “costruzione storica di cui occorre saggiare ogni volta la perspicuità”[40], l’originalità dei Lumi sta in una “riflessione in profondità sul male, negli spiazzamenti che quella riflessione ha operato, nonché nelle preoccupazioni e nelle tensioni che l’hanno attraversata”[41].

A differenza di quelle di Voltaire e Rousseau, al Pantheon, la tomba di Condorcet, ricorda Baczko, è vuota. Braccato dai giacobini, scrive, ormai disperando di sé, un’opera “di supremo ottimismo”[42], l’Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain. Poi fugge: è il 26 marzo 1794. “Passa la notte in una cava; ferito alla gamba, divorato dalla febbre, affamato, non può più camminare. Si direbbe che la Storia gli mostra la sua smorfia ripugnante. Ma la Storia, scritta con la lettera maiuscola, non esiste: l’unico appannaggio di Condorcet sono la sua solitudine, la sua finitezza e certi delatori troppo zelanti o troppo entusiasti”[43]. Il male, anche ai tempi della Grande Rivoluzione, ha tratti banali. Condorcet è uno dei tanti Giobbe che vagano per il mondo, e il riconoscimento postumo di una tomba vuota non lo rende diverso, appunto, dai tanti Giobbe. È come si affronta il male, ciò che è ancora in gioco dell’Illuminismo. Ed è una certa, particolare attitudine, che, potremmo dire, rende amico Giobbe all’Illuminismo: “All’insuperabile contrasto tra le promesse della felicità e la fatalità del male, Condorcet diede un’ultima risposta, la più evidente e la più difficile: prese su di sé, fino in fondo, la condizione umana, la grandezza e le miserie dell’epoca, il proprio destino individuale. Il seguito non era più affar suo…”[44]. È un esempio che Michel Foucault, riprendendo con un altro dei suoi salti dialettici la risposta kantiana alla domanda su Che cos’è l’Illuminismo?, non avrebbe esitato a dare. Molte sono le cose che nella nostra esperienza ci fanno dubitare che il tentativo illuminista ci abbia fatto superare il nostro stato di minorità, scherza Foucault. Però, in fondo, nient’altro che “una prova storico-pratica dei limiti che possiamo superare” e un “lavoro di noi su noi stessi in quanto esseri liberi”[45] è quell’ethos filosofico che l’Illuminismo ci consegna. Per questo, Giobbe è un rimosso, appena una frase in mezzo al gioco, ma è anche ciò che Baczko invita ad ascoltare, come una tra le più serie, tra le voci dei Lumi.

 

Note:

[1] Cit in B. Baczko, Giobbe amico mio. Promesse di felicità e fatalità del male, traduzione di Paolo Virno, Il Manifesto, Roma, 1997, p. 15.

[2] Ivi, p. 16.

[3] Ivi, p. 17.

[4] Ivi, p. 17.

[5] Ivi, p. 34.

[6] W. Benjamin, Sul concetto di storia, XIII, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi, Torino, 1997, p. 45.

[7] Ivi, p. 47.

[8] Ivi, p. 37.

[9] Ivi, p. 57.

[10] Voltaire, Scritti filosofici, a cura di P. Serini, vol. II, Bari, Laterza, 1962, p. 278.

[11] Ivi, p. 278.

[12] B. Baczko, Giobbe amico mio, cit., p. 79.

[13] Ivi, p. 47.

[14] B. Baczko, Giobbe amico mio, cit., p. 48.

[15] Ivi, p. 49.

[16] Ivi, pp. 57-58.

[17] Voltaire, Candido o l’ottimismo, traduzione di P. Angioletti, Newton, Roma, 1994, p. 97.

[18] B. Baczko, Giobbe amico mio, cit., p. 60.

[19] Ivi, p. 60-61

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 79.

[22] “La grande separazione giunge per simili incatenati improvisa, come una scossa di terremoto: la giovane anima viene d’un colpo scossa, strappata, divelta”: F. Nietzsche, Umano troppo umano, I, Prefazione, 5, traduzione di S. Giametta, Adelphi, Milano, 2008, p. 5.

[23] Ivi, p. 6.

[24] Ibidem.

[25] Cfr. B. Baczko, Giobbe amico mio, cit., pp. 87-103.

[26] Cfr. Ivi, p. 121.

[27] Cfr. ivi. P. 145-146.

[28] Ivi, p. 158.

[29] Ivi, p. 158.

[30] Ivi, p. 159.

[31] Ivi, p. 160.

[32] Ibidem.

[33] Cfr. ivi. pp. 223-237.

[34] Ivi, p. 180.

[35] Cfr. ivi, p. 169.

[36] Ivi, p. 308.

[37] Ivi, p. 313.

[38] Cit. ivi, p. 327.

[39] Cfr. pp. 348-349

[40] Ivi, p. 356.

[41] Ivi, p. 357.

[42] Ivi, p. 362.

[43] Ivi, p. 363.

[44] Ibidem.

[45] M. Foucault, Qu’est-ce que les Lumières ? Dits et écrits, II, 1976-1988, Gallimard, Paris, 2001, p. 1394.