Il palco vuoto dell’imperatore. Forme dell’incompiuto – di Mario Pezzella

Il palco vuoto dell’imperatore. Forme dell’incompiuto – di Mario Pezzella

13 Ottobre 2024 Off di Francesco Biagi

1. L’incompiuto, di cui parla Simmel nei suoi scritti di filosofia dell’arte, non è dovuto alla casualità degli eventi, alla malattia o alla morte dell’autore, alle circostanze biografiche che hanno impedito la realizzazione delle sue intenzioni: si tratta invece di una incompiutezza che deriva da una sproporzione interna, o da una antinomia costitutiva, che, nella tonalità dominante di un’epoca, non è dato di superare. I tre esempi più significativi portati da Simmel sono Michelangelo, Rodin e Rembrandt, e di essenza diversa l’uno dall’altro. Nel caso di Michelangelo emerge l’impossibilità di realizzare un ideale infinito entro la creaturalità finita dell’umano e della sua corporeità. La Stimmung cristiana, la sua tensione verso l’assoluto permane, ma si vorrebbe nel Rinascimento darle immagine compiuta non nella fantasia orientata alla trascendenza, bensì in una immanenza totale e redenta: «L’anelito religioso…subisce una rotazione assiale verso l’elemento terreno…ha portato con sé, nel mondo, ciò che si era sviluppato dal e nel rapporto con il sopramondo…Si è aperta una contraddizione tra la forma dei desideri e delle aspirazioni della vita, e il loro contenuto»[1]. Questa è per Simmel la tonalità essenziale del Rinascimento, che Michelangelo esprime nel modo più perfetto e porta anche a implodere nella sua antinomia. Perché la figura che dovrebbe accogliere in sé la perfezione, si scopre alla fine incapace di riposare in se stessa, nella quiete del simbolo, e si tende oltre il suo limite in una torsione tragica: «Il contenuto che la forma ora deve accogliere, non le è intimamente adeguato»[2], perché il sentimento religioso del cristianesimo permane all’interno di essa torcendone l’apparente classicismo in un desiderio e perfino in uno spasimo non concepibile in «modo finito». Ogni simbolo, dirà Walter Benjamin, diviene “torso di un simbolo”, che indica certo una direzione ideale, ma la cui realizzazione resta irraggiungibile. L’impossibilità di adeguare il contenuto alla forma è la radice dell’incompiutezza essenziale, il nucleo traumatico dell’esperienza di Michelangelo: «Che l’annientamento abbia le stesse radici dello sviluppo del senso e del valore del soggetto, fonda il tragico, e perciò Michelangelo è in assoluto una personalità tragica…egli non poteva sfuggire a quell’annientamento interno come non poteva sfuggire a se stesso»[3]. Le sue ultime sculture sfiorano il punto limite in cui la figura trapassa nell’inespresso, o l’informe esprime tutta la sua tensione a concretarsi nella forma sfuggente, demone che preme per uscire dal marmo. In questa incompiutezza gravida di senso, nondimeno, Michelangelo dà figura non solo alla sua personale antinomia ma a quella che vive al fondo dell’inconscio del collettivo della sua epoca: «Questo è il tragico delle figure di Michelangelo: che l’essere è travolto nel divenire, la forma nell’eterna dissoluzione della forma»[4]; la quale invece pretendeva all’essere in sé riposante e conchiuso del classico e dell’antico, ed è invasa dalla discordante tensione infinita.

D’altro genere è l’incompiutezza “moderna”, che Simmel considera nelle figure di Rodin, e che appartengono, per così dire, a un diverso “ideal-tipo”. Se Michelangelo esprime l’antinomia tra l’essere e il divenire, tra il classico e il cristiano, tra gli dèi antichi e il dio trascendente, e di essa fa il fondamento di un’umanità che aspira alla sua redenzione, senza trovare tuttavia conciliazione: in Rodin domina un radicale eraclitismo, in cui ogni essere stabile è a priori dissolto in un divenire ininterrotto e puntuale. Nel moderno come è da lui espresso ogni sostanzialità trapassa in «incessante trasformazione…ogni apparente unità dei contorni non è che increspamento e gioco d’onda nello scambio delle forze…flusso assoluto»[5]. Questo stile non è senza rapporto con l’erosione continua e dissolvente delle merci, che caratterizza l’essere della modernità. L’incompiutezza della raffigurazione – «il levarsi della figura dalla pietra, che in Rodin ne avvolge ancora alcune parti»[6] – è resa necessaria dalla mimesi di una vita che non conosce più una durata consistente né del soggetto né dell’oggetto. Se in Michelangelo la forma pativa della tensione infinita che l’oltrepassava, in Rodin essa è perduta fin dall’inizio ed è l’idea stessa di una durata che viene immediatamente a cadere, le sue figure «non sono che oscillazioni di un mondo eracliteo, alla cui totalità ottengono di appartenere al prezzo di abbandonare ogni sostanza e ogni unità di vita al mero presente dell’assoluto divenire»[7]. Con la stessa necessità questa forma in fuga fa appello a noi spettatori, la «fantasia deve completare ciò che è incompiuto»[8] e che l’artista ha lasciato abbozzato nel piano trascorrente della materia.

L’ultimo Rembrandt dà occasione a Simmel di descrivere una terza tipologia dell’incompiuto: se Michelangelo mostra il trauma che interrompe all’inizio della modernità il simbolo in sé riposante del classico, se Rodin ritrae l’insostanza e l’impermanenza del moderno che nemmeno più pretende alla consistenza di una durata, Rembrandt dipinge invece una sostanza erosa: e cioè una forma che ancora insiste ad essere figura individuata ed emersa dalla materia, ma colta nel momento in cui sta per trapassare nel nulla (o, se vogliamo, nell’infinità del cosmo). La forma di Rembrandt è in bilico tra l’essere e il divenire, senza che si possa annullare uno dei due poli (mentre idealmente il classico tendeva a cancellare il divenire e l’eraclitismo di Rodin ad abolire l’essere). Certo anche in Rembrandt prevale il divenire: ma l’uomo che ne è attraversato, pure non si dissolve in esso: «…I momenti dell’assoluto divenire sono articolabili soltanto perché si compiono in qualcosa di unitario, che in qualche senso si mantiene…In ciò che è vivente l’individualità appare come questa sostanza ideale nella quale i momenti del divenire, emergenti e sommersi, si dispongono…non sono più atomi dell’esistenza non localizzati…ma momenti di sviluppo di una individualità»[9].

I ritratti di Rembrandt mostrano un processo di individuazione che avviene nel corso del tempo, verso un Sé, in cui ogni singolo aspetto del vivente diviene o disviene; ovviamente nulla mostra più chiaramente questa intenzione della lunga serie degli autoritratti. L’incompiutezza della figura deriva qui dal suo trapassare in un ulteriore momento di individuazione, che è insieme morte del precedente e metamorfosi. I tipi di incompiuto descritti da Simmel corrispondono dunque a tre diverse concezioni del tempo. Il classico tende a sospenderlo nell’atemporalità di una forma ideale-eterna: una tensione che viene ripresa nel Rinascimento, e portata alla sua massima definizione ma anche al suo punto di tragica crisi in Michelangelo; «nelle forme di Rodin il tempo è cancellato per il motivo opposto»[10], e cioè perché l’assoluta dissoluzione della durata e il precipitare immediato di ogni singolarità nel flusso materico impedisce il costituirsi di scansioni temporali riconoscibili; mentre in Rembrandt si configura il divenire di una individuazione, in cui ogni attimo è sì attraversato dalla corrosione, ma «presuppone tutti gli attimi passati e fonda tutti i futuri…Questo senso dell’individualità è evidentemente realizzabile solo attraverso la connessione temporale dei momenti della vita… e non con la loro atomizzazione»[11].

Dunque nel classico il soggetto tende a sublimarsi nell’idea, salvo a infrangersi tragicamente alla fine del Rinascimento; in Rodin svanisce nell’atomismo cosmico in cui i suoi tratti si staccano impersonali l’uno dall’altro; in Rembrandt si mantiene nella sua irreparabile fragilità, nella consapevolezza di trascorrere verso la morte, e nel tentativo di riparare al trauma racchiudendo nell’attimo la condensazione della sua intera esistenza. Di fronte alle figure «sradicate dalla tempesta…e divenute impersonali», che caratterizzano la povertà moderna dell’esperienza, quelle di Rembrandt mostrano «un’ultima, interna sicurezza», che è insieme presagio e resistenza al potere dissolvente della modernità.

 

2. Dopo Auschwitz – diceva Adorno – la poesia soffre di una essenziale impossibilità: realizzare una forma tradisce l’informe reale del trauma. I poeti hanno cercato (almeno quelli che ancora vale la pena di leggere, come Celan o Char o Sereni), di aggirare il veto di questa sentenza, cercando di inscrivere la traccia del trauma nel tessuto della forma: che mostrerà però una incompiutezza necessaria. C’è nella poesia una tensione continua, destinata in parte al fallimento, al compimento delle cose incompiute, come avrebbe detto Walter Benjamin, in modo che ciò che nella storia è avvenuto (il dolore) non sia, e ciò che non è avvenuto finalmente si compia (la felicità). In questa immagine di sogno vive l’utopia di una completa individuazione che ecceda la menomazione e l’oppressione che l’esperienza ha subito, il desiderio che essa superi la frammentarietà e giunga alla pienezza che le è stata negata. La poesia vorrebbe rendere perfetta la singolarità delle cose e delle vite e s’infinge la loro intera realizzazione.

La felicità è l’acmè di una singolarità irripetibile, il suo giungere pienamente a se stessa e palesa nelle cose lo «splendore della loro caducità»[12], il colore unico, l’essenza specifica di un ente. La speranza coesiste con la consapevolezza che questa perfezione non si dà nel presente, non si è data nel passato, perché nella storia hanno prevalso il potere la servitù e il dolore: il trauma storico della violenza si è assommato a quello antropologico della malattia e della morte, il male etico a quello naturale: se questo è inevitabile almeno dal primo vorremmo fuggire. La poesia è un’antinomia necessaria, costitutiva: fra la traumaticità dell’esperienza e il sogno della felicità di ogni ente, non altro che una approssimazione infinita, come ogni utopia che non diventi cieca asserzione, ma reale e indispensabile all’umano in quanto tale.

Essa non investe solo ciò che appare alla superficie dell’esperienza, perché il compimento della singolarità concerne anche la latenza dei possibili, che essa contiene, la metamorfosi che agita ogni ente vivente. La poesia ridesta il fondo potenziale dell’essere. È movimento dionisiaco di affinità; ogni elemento afferma però il suo scarto differenziale e la sua determinatezza irripetibile, un essere in corrispondenza che è l’opposto dell’identificazione.

Paul Celan ha spesso parlato del respiro, della sua cadenza e delle sue sospensioni, che si comunicano alla ritmica poetica, e ha scritto in una lettera di una «poesia lirica non musicale». Essa segue un ritmo interno, non una sonorità tradizionale, e tuttavia non rinuncia a una scansione metrica, che traduce ed esprime la sostanza corporea della scrittura e non cade in uno sperimentalismo linguistico astratto che distruggerebbe l’aspetto ritmico e mimetico. Il “lirico” è la traduzione del proprio respiro fisico nel verso. Il battito metrico rimane dunque fondamentale anche se comporta una inevitabile estetizzazione. La poesia è in bilico tra questi due poli, non può non esserlo. Se vuole tradurre il respiro del corpo, che poi non è solo quello proprio, ma anche quello collettivo, non può evitarne la scansione nel verso, seppure questa in una certa misura già estetizzi la sofferenza: la poesia è una pausa fra il trauma e l’immagine di sogno. Il che non vuol dire dimenticare la ferita da cui essa parte, ogni volta cercando una soluzione specifica per serbarne la traccia. La poesia del Novecento si presenta – dove è autentica – come un incompiuto rispetto a una piena realizzazione della sua intenzione: e può essere che di questa resti solo un torso, come il corpo che stenta a emergere dal marmo dei prigioni di Michelangelo: «Solo il momento lirico è in grado di rispecchiare questa unità delle contraddizioni antinomiche»[13]. Non so se questa affermazione di Broch è vera in generale, ma lo è certo per la nostra estrema modernità, in cui le categorie del pensiero vacillano nell’incertezza tra il non-più e il non-ancora: mentre la poesia vorrebbe indicare un non-ancora e già-ora.

 

3. Clemente Rebora ha cercato di esprimere il trauma storico della grande Guerra, da lui vissuto personalmente, vittima di uno choc da esplosione: c’è riuscito solo in modo incompiuto, per frammenti, senza riuscire a comporre un libro unitario, e non per incapacità, ma per totale fedeltà alla negatività di quell’esperienza. L’accesso a una immagine di sogno, o anche a una forma definitiva che riscattasse il male radicale della guerra, gli è sembrato falsificasse la sua verità traumatica. Nell’Allegria di Ungaretti essa resta certo il centro della rappresentazione, ma il poeta sembra ammettere, pur nel dolore, l’utopia di una possibile comunità: come afferma Cortellessa, si misura qui la distanza «fra Rebora, sconfitto e muto, Rebora ‘sommerso’, e Ungaretti eloquente e vittorioso, Ungaretti ‘salvato’, fra il mai scritto ‘libro di guerra’ di Rebora e il fortunatissimo Porto Sepolto. Ungaretti, gettato accanto al compagno morto, ‘non è mai stato / tanto / attaccato alla vita’: e ‘scrive / lettere piene d’amore’. A Rebora resta solo il silenzio. Sono le due facce della poesia di guerra italiana»[14]. Anche se, come vedremo, non è un tacere assoluto, piuttosto una voce esile circondata dal silenzio. Rebora trova gli accenti più sinceri quando esprime la sua difficoltà a superare il trauma storico e personale vissuto, come accade nella breve prosa Rintocco[15]. 

La casetta s’inspelonca. Sinistro rumor di silenzio.

La casa dove potrebbe avvenire la riparazione dal trauma si muta invece in una perturbante spelonca, popolata da ombre di ricordi, dove già una prima dissonanza dà il tono a tutto il seguito, perché rumore di silenzio è espressione stridente, che nega ognuno dei due termini in rapporto, solo la negazione ne resta il significato sinistro, allude a una antinomia insuperabile, tra il rumore e il silenzio ciò che manca è la nominazione, la voce, che potrebbe simbolizzare il trauma e così permetterne il contenimento.

Qualcosa accadrà: terrore se avvenga, terror se non venga. Chi aspetta? Cosa aspetti?

Sono domande retoriche, la risposta è già nella prima parte della frase. Non si esce dal terrore subìto, dalla paralisi che ha investito le membra del corpo e poi l’anima e l’equivalenza di tutto ciò che può accadere, sia che avvenga sia che non avvenga, rende l’alternativa fantasmatica e annullata già subito nella sua formulazione: resta solo questa immobilità incapace di uscire dalla sua condizione. L’attesa suggerita dagli interrogativi è nudamente vuota.

Alone di notte schiaccia i tetti. Demente barlume – e perline e perline che zampillano ferme: lampada accesa di nero sugli occhi.

In questa attesa senza speranza l’animo invaso dalla depressione del trauma sembra schiacciato dall’oscurità, rotta solo da scintillii inquietanti, perché – con un altro ossimoro – zampillano stando fermi, movimento apparente in realtà statico e simile all’apparizione di fantasmi: la lampada che dovrebbe dar luce spande un’ulteriore tenebra sugli occhi, dunque luce nera, zampillo fermo, silenzioso rumore, vita che non si scioglie dall’urto paralizzante del trauma. Queste luminosità perturbanti sono piuttosto barlumi che appartengono al regno della follia, e forse in queste parole affiora il ricordo  di effettive esperienze di guerra o di stati d’animo derivati direttamente dal trauma o poco dopo di esso.

Non c’è la falda di grazia, di là, sul divano: non muove dormendo la mano a quetarmi d’un gesto impaziente di sogno.

Qui si allude a una presenza salvifica che con un gesto di sogno potrebbe portare la pace e la quiete, ma l’allusione è tutta al negativo, potrebbe questo essere esserci, ma è ora assente e l’io è abbandonato alla sua pietrosa immobilità, alla sua ansia senza redenzione, che in effetti deriva da

Insonnia di cose recise.

Questa è la breve, concisa citazione della guerra, insonnia inquieta generata dal taglio inferto che cancella in modo irrimediabile: la vita precedente del poeta, le sue illusioni d’amore, i compagni morti in battaglia, il suo stesso corpo ferito e vulnerato, le speranze e le esaltazioni confuse dell’anteguerra, le prospettive di un futuro. Tutto non è ora che demente barlume, la guerra stessa è demenza popolata di luci illusorie e deliranti.

La campana è caduta sul tocco. 

La campana che col suo suono scandisce il tempo è ora ammutolita, il tempo stesso si è arrestato, portando così a compimento quell’irrigidirsi del moto in immobilità che sembra la cifra profonda, la metafora ossessiva, che percorre tutta la prosa, e che traduce in modo indiretto, ma proprio per questo più astratto e assoluto, l’esperienza devastante della guerra, che è in effetti un’ebbrezza di distruzione staticamente inerte, una furia di movimenti e di luci che si riassumono nel sempre uguale della pulsione di morte. Più evidente se vogliamo in un altro esempio coevo:

Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d’ordine, file perdute: barcollii di volumi spossati, ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti…perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa – per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi[16].

Nel turbamento traumatico della percezione normale, in cui i contorni delle cose barcollano e si incurvano, e le strade diventano magma informe, la guerra è qui vista nel suo impersonale meccanismo, a cui per un motivo profondo e inspiegabile non si riesce a sfuggire, come se una mano ferrea impedisse qualsiasi forma pur desiderata di diserzione (si deve, si fa, non si sa); stato di profonda incoscienza, in cui avviene la proiezione della pulsione di distruzione contro un “altro” nemico, ma la conclusione della frase ha la forza di rovesciare la logica della guerra: quella pulsione è dentro di noi, oppur accomuna noi e l’altro nella stessa china di dissoluzione.

In queste prose pare dunque del tutto assente quel margine di estetizzazione e di compensazione che compare anche nelle poesie di Ungaretti. Ma non è così, non può essere completamente così: affiora in questa prosa di Rebora quella poesia non musicale e pur sempre lirica, a cui alludeva la lettera di Celan. Le frasi seguono una scansione ritmica, che permetterebbe di disporle in versi, non presentano rime evidenti, ma una fitta rete di assonanze, e insomma una metrica continuamente contraddetta e interrotta eppure intimamente presente. Il significato del testo è senza speranza, ma il significante esprime nonostante tutto un sogno e un desiderio di felicità, che un estremo pudore impone a Rebora di celare nello spazio vuoto delle parole, tra le righe, nel ritmo con cui le immagini si susseguono, negli accenti che sembrano segnare l’espandersi e il contrarsi di un respiro, che per un attimo si abbandona a un desiderio di vita, e l’attimo dopo si sente obbligato a ricordare il suo lutto[17]. La presenza salvifica è citata per assenza, presentita come un possibile e subito smentita. L’utopia si dà nella sua intima contraddizione, nel non potersi dire se non come un possibile impronunciabile nell’attimo presente. È una lirica che interrompe la sua musica, nel momento stesso in cui ne lascia percepire l’eco. Anche altre prose e poesie di Rebora di questo periodo vivono della stessa antinomia e in questa esitazione tragica si possono paragonare solo alle ultime di Georg Trakl, tra le poche che siano riuscite ad esprimere l’angoscia della guerra. Entrambi non hanno potuto farne un libro, un’“opera”, ma questa incompiutezza appartiene essa stessa all’essenza di quell’esperienza, ne fa parte indissolubilmente: «Come ha scritto Romano Luperini, è lui l’unico poeta italiano…che scopra “la duplicità della poesia, che nasce dall’orrore e dal sangue, e li capovolge in musica d’arpa e in splendore di forma […] una volta ‘intesa’ tale verità, non resta che difendersi anche dalla poesia, proprio nella misura in cui essa finisce per render accettabile e persino meraviglioso ciò che invece è orribile e irredimibile”»[18]. Nella fermezza di questa contraddizione, non rinunciando a una traccia di redenzione possibile, consiste l’unicità dei frammenti di Rebora.

 

4. Nella Morte di Virgilio Broch aveva a lungo scrutato l’“incompiuto essenziale”, l’opera che non giunge a compimento per la distanza tra la sua aspirazione mistica all’infinito, la sua infinita esigenza etica, e l’insufficienza di ogni forma estetica a recepirla per intero. Ma è nel saggio su Hofmannsthal, figura con cui dialoga così intensamente da farne in parte un suo alter ego, che l’incompiutezza viene riferita alla percezione tragica di un tempo sospeso, nel vuoto di un ordine simbolico in via di decomposizione e nell’impossibilità di arrestarla.

Un’epoca siffatta ricorre per compensare il suo nulla di senso a una qualche forma di fittizio ornamento, che non tarda a degenerare nel Kitsch; ripresa artefatta e manieristica di stili del passato, assenza di stile originale e proprio, oggi la chiameremmo immagine spettacolare o postmoderna, estetizzazione di superfice, facciata edonista ed euforica al cui interno si sgretolano le fondamenta: la borghesia dominante «impone al suo mondo un ordine artificialmente ornamentale e lo trasfigura per poterlo godere, ma solo a patto di nasconderne la miseria»[19]. L’edonismo della superficie scintillante coesiste con una lacerazione e un trauma nel fondo, che viene oscuramente intuito, in un’angoscia inarticolata e diffusa, ma non veramente conosciuto. L’arte se vuole rappresentare lo stato d’animo del suo tempo, deve allora oscillare tra la conoscenza dell’ottusità dilagante e il suo procedere sull’orlo del tragico, che la stupidità non vuol riconoscere: «Se infatti il carattere essenziale di un’epoca è centrato su un vuoto di valori, la grande opera d’arte che la riflette deve necessariamente esprimere un vuoto corrispondente»[20]. Se il Kitsch si limita a esserne lo specchio ed è anzi il suo prodotto naturale, l’arte dovrebbe al contempo fornire la mimesi di esso, elevandolo a sapere consapevole, ed esibire le faglie di distruzione latente, le polarità incomponibili, gli estremi che pongono in tensione i suoi bordi.

In ogni teatro di Vienna, nel periodo antecedente alla Grande Guerra, si conservava, ricorda Broch, un palco per l’Imperatore, se mai gli fosse venuta voglia di assistere allo spettacolo in corso, o altrimenti rimaneva vuoto; simbolo di un mondo in cui la rappresentazione ha sostituito la sostanza dell’ordine simbolico, che si regge ormai solo sun una finzione-astrazione centrale, uno stato che si sta per decomporre, e che rallenta il suo destino ricorrendo alla sola forma unitaria che gli sia rimasta: un mito, come quello dell’ultimo imperatore, prima della catastrofe che avrebbe posto fine alla sua esistenza.

Ciò che non può più reggere sul piano simbolico, viene unificato, ancora per qualche tempo, grazie a una esaltazione pervasiva dell’immaginario. Si avrebbe torto tuttavia a pensare che questa situazione riguardi solo l’impero asburgico, per Broch l’Austria è solo il caso estremo e illuminante di tutta la vecchia Europa, del “mondo di ieri”[21], che sta per precipitare nella condizione descritta nell’ultimo dei tre romanzi dei Sonnambuli: «Vienna come epicentro del vuoto di valori europeo» rivela al massimo grado la sproporzione tra l‘essere e l’apparire, che è propria della realtà capitalista e imperialista, alla vigilia della Grande Guerra. Certo a Vienna sembrava esserci, a differenza di altre capitali, «la saggezza di un’anima che presagisce la caduta e l’accetta. Era una saggezza da operetta però e sotto l’ombra della caduta incombente essa divenne a poco a poco sempre più spettrale…»[22]. È questa crescente spettralità che incontriamo nell’incompiuto romanzo di Hofmannsthal Andrea o i ricongiunti.

L’incompiutezza essenziale dell’opera dello scrittore austriaco non riguarda tanto la sua impossibilità di terminare questo romanzo o il suo inquieto errare da un genere all’altro: è l’oggetto stesso della sua mimesi artistica che palesa sproporzione e squilibrio, è il suo tempo in sospeso tra l’essere della disgregazione e l’apparenza dell’ordine, che non può pretendere a una rappresentazione che non sia di frammenti scomposti o ricomposti con un forzato montaggio, l’incompiutezza è qui la tonalità affettiva dominante dell’epoca: «Il fenomeno della copertura della miseria con una vernice di ricchezza si presentò a Vienna, specie durante la sua ultima, spettrale fioritura, con maggiore chiarezza che in qualsiasi altro luogo. Un minimo di valori etici doveva essere ricoperto con un massimo di valori estetici…Come capitale del Kitsch, Vienna divenne anche la capitale del vuoto di valori dell’epoca»[23], Hofmannsthal non fa che registrarlo, «come un ago magnetizzato perpetuamente oscillante»[24].

Il problema posto da Broch in questo saggio è dunque: quale mimesi dare di un’epoca che ha il vuoto al suo centro, senza per questo che la rappresentazione sia essa stessa un raddoppiamento o un fregio del nulla, e d’altra parte rimanendo fedeli alla sua assenza di significati e valori? Oppure, ma è la medesima cosa da un altro punto di vista, come formulare una utopia o speranza di alterità, senza per questo cadere in conciliazioni affrettate e fittizie, che diverrebbero esse stesse un penoso ornamento? La difficoltà di sfuggire a una letteratura che sia estetizzazione dei traumi storici può indurre il Virgilio immaginato da Broch, ma anche Kafka o Tolstoi nella realtà, a voler distruggere la propria opera ritenendola condannata a una incompiutezza non rimediabile, di fronte all’esigenza etica di fondare un nuovo ordine simbolico, etico e politico. Tuttavia proprio grazie a questa consapevolezza le loro quasi-opere, o torsi di simboli, esprimono fino in fondo la tonalità affettiva dominante del loro tempo, la sua verità non ornamentale: «…Questa facoltà creativa è stata eletta (o condannata) a diventare il punto focale delle forze anonime dell’epoca…»[25], afferma Broch di Joyce; è lo spirito dell’epoca «che costringe l’uomo a scendere nella sfera metalogica dell’inconscio e dell’irrazionale»[26], come è accaduto a Freud, poiché «le epoche caratterizzate da una definitiva perdita di valori poggiano infatti sul “male” e sull’angoscia per il male, e un’arte che voglia esserne espressione adeguata deve anche essere espressione del “male”, che agisce in esse»[27]e tuttavia non un suo duplicato come nelle forme del Kitsch, ma con la tensione etica e utopica che conduce «oltre la antinomica convulsione degli elementi disparati», verso una diversa unità «in cui l’estetico si rovescia nuovamente in etico»[28]. Si capisce che l’incompiutezza derivante da una tale molteplicità di tensioni è essa stessa il sintomo conoscitivo di un’epoca.

 

Quisquilie

Mostrare gli estremi dello stato d’animo di un’epoca non vuol dire superarlo; l’arte può indicare la necessità di tale oltrepassamento, ma non realizzarlo e nemmeno descriverlo. È il limite di ogni atto estetico.

Rispetto al “mondo di ieri” e alla Vienna di Hofmannsthal noi non abbiamo neppure la sua “saggezza da operetta”, ma certo per intero la sua stupidità.

Nei nostri teatri il Palco Reale, che ancora si insiste a chiamare così in omaggio alle ombre, è regolarmente sovraffollato da avidi prestanome, escort ingioiellate, politici di alto e di basso bordo; al confronto il segno del vuoto lasciato da Francesco Giuseppe assume addirittura una mistica dignità.

Per Broch, come già per Nietzsche, il Kitsch acquista in Wagner una sorta di perversa grandiosità; quanto a noi, gli ornamenti della nostra miseria, gli oriflammi della nostra comunque tragica condizione, ci vengono forniti da vocianti influencer, serialità televisive, ossessioni da schermo. Anche negli orpelli del vuoto c’è una gradazione di qualità.

Singolare come l’essenza del Kitsch rimanga costante anche in circostanze molto diverse: noi siamo invasi dal kitsch postberlusconiano, televisivo, seriale, facebookkante, tiktokiko e instagrammatico, che hanno sostituito l’operetta e il teatro viennese delle marionette. Nondimeno, la distrazione da una possibile guerra imminente e l’elusione della pulsione di morte resta il suo fondamento.

Nell’anteguerra del 1914 c’era esaltazione e quasi estasi in vista della distruzione incombente; nella nostra drôle de preguerre c’è piuttosto indifferente atonia, disponibile a trasformarsi in furore. Entrambe le cose per oscura premonizione e disgusto del vuoto che procede entro l’ordine quotidiano del capitale.

«Incendiate, incendiate! /date fuoco alla terra che diventi un sole. /Devasta sconquassa distruggi,/ passa, passa, o bellissimo flagello umano,/ sii peste terremoto ed uragano./ Fa che una primavera rossa /di sangue e di martirio/ sorga da questa vecchia terra,/ e che la vita sia come una fiamma./ Viva la guerra!». Così Govoni nell’anteguerra, con irruente pulsione di morte.

 Oggi dovremmo ritradurre: Dormite, dormite! Sprofondate nella terra che diventi un oscuro lerciume/passa, passa, o informe flagello inumano/sii virus, corrosione e apatia. /Fa che un autunno piovoso/ di acidi e pesticidi/sgretoli questa vecchia terra/e che la vita sia cenere spenta./Viva la guerra.

Se un dio oscuro della dissoluzione si impadronisce dell’inconscio del collettivo, come sarà possibile fermarlo? Nell’anteguerra dilagò una nefasta propensione al sacrificio e all’autosacrificio, una regressione al rituale magico arcaico, come se da questo potesse nascere il rinnovamento del mondo. Il fascismo eredita questo stato d’animo.

Mimesi dell’arte secondo Broch: non solo rappresentazione di ciò che si percepisce nello spazio e nel tempo, ma di ciò che si teme e si desidera entro di essi e così li incurva nella relatività dell’osservatore.

L’arte eticamente nobilitata non esprime mai solo l’Io, ma il noi, il timore e il desiderio nello stato d’animo dominante nell’inconscio del collettivo.

Osserva Broch che gli artisti nel periodo che precede la Grande Guerra sono oggettivamente crudeli: scompongono la figura umana, l’armonia dei suoni, la musica del verso. Esprimono la crudeltà che intuiscono crescere nell’inconscio del collettivo.

Alcuni dei nostri scrittori e poeti migliori sono apaticamente dimessi, immersi in una tragica banalità: esprimono l’indifferenza verso il male, che sentono crescere nell’inconscio del collettivo.

Noi siamo tra un non-più e un non-ancora, una frase che ho ripetuto molte volte: ma non è meno vera l’altra affermazione: non-ancora eppure già ora. Solo che non ne siamo accorti.

Viene in mormoranti bisbigli, dorme nelle latrine del parco, ha il volto coperto di foglie, le braccia di pannolini infantili, un lenzuolo gli serve da manto regale, quando l’infermiere lo agguanta spiega le ali e sguscia nel volo.

 Ai tardi Beethoven, Michelangelo, Tolstoi, non interessa più il contenuto reale empirico o soggettivo della vita ma le sue forme: intuiscono che nelle sue apparentemente astratte nervature si cela il contenuto di verità, il sedimento essenziale dell’esperienza. Li mettono a nudo, senza necessità di trasformarli in opera. E ci sono epoche che tendono per natura, collettivamente, allo stile tardo. Credo che sia la prossimità della morte a far considerare i contenuti una perdita di tempo.

Prima ci si rivolge ai sentimenti, poi ai simboli, poi agli archetipi: e gli uni contengono gli altri. Infine si ritrova il sentimento ma non è più soggettivo: è una tonalità dell’essere.

Anche in Broch c’è uno stile tardo. Dopo il fervore mistico della Morte di Virgilio, così (non)parla il suo (non)Dio in Voci, 1933, nella sua ultima opera, Gli incolpevoli: «Io sono e non sono, perché sono, alla tua fede sono sottratto: il Mio volto è non volto, la Mia parola è non parola…Presunzione è ogni testimonianza sull’essere o non essere Mio…Io sono Colui che non sono, sono un roveto ardente e non lo sono…venerate l’ignoto che è oltre, oltre la condizione vostra; è là che il Mio trono vuoto s’innalza, irraggiungibile, nel vuoto non-spazio, nella vuota non-mutezza, illimitato». È l’esperienza religiosa immediata, l’unica possibile nel nostro tempo, estranea ad ogni istituzione.

«Se non ti incontrerò mai in questa vita, che almeno io senta la tua mancanza, su questo sasso spietato». È il soldato Welsh, nella Sottile linea rossa di Terrence Malick.

La sua bocca riemerge da un sudario di sabbia, dall’oscura terra mormora una disperata preghiera, per questo gli è concesso il ritorno dal regno dei morti.

Sfiorò sorridendo il seno della madre con un’ala timida (forse angelo o morte o ombra redenta di sé), dal lato del cuore, sospingendone l’anima in volo, oltre i cancelli del cielo, oltre l’uccello sul ramo, muto nell’ora sospesa, e la fitta selva e il clamore scorrente del fiume, indifferente all’illusa geometria delle nostre schiere di guerra.

Inevocabile sogno si inoltra dalla riva nel mare, vieni qui dove io sono, ma se non ti vedrò in questa terra almeno sentirò il tuo vuoto errare sul feroce radore.

Nell’ombra premortale oltre l’oscuro vortice di pietra che nessuna morte terrena potrà mai valicare lei nella terra apre solchi di luce.

 

Note: 

[1] G. Simmel, Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 126.

[2] Ibidem.

[3] Ivi, p. 133.

[4] Ivi, p. 203.

[5] Ivi, pp. 170-171.

[6] Ivi, p. 204.

[7] Ivi, pp. 173-174.

[8][8] Ivi, p. 204.

[9] Ivi, p. 172.

[10] Ivi, p. 171.

[11] Ivi, pp. 172-173.

[12] I. Testa, Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale, Interlinea, Novara, 2023, p. 26. Questo libro tratta del rapporto fra poesia e utopia. Cfr. https://www.ospiteingrato.unisi.it/poesia-e-utopiamario-pezzella/

[13] H. Broch, Poesia e conoscenza, Lerici, Milano, 1965, p. 338.

[14] Le notti chiare erano tutte un’alba, a cura di A. Cortellessa, Bompiani, Milano, 201 8, p. 45.

[15] C. Rebora, Tra melma e sangue, Interlinea, Novara, 2008, p. 118.

[16] Ivi, p. 116.

[17] Cito di nuovo: Non c’è la falda di grazia, di là, sul divano: non muove dormendo la mano a quetarmi d’un gesto impaziente di sogno; dove l’incanto della prosodia sembra smentire la durezza del contenuto.

[18] Romano Luperini, Cala il silenzio sul pesce d’oro, in “Quotidiano” (Lecce), 16 aprile 1983. La citazione in Le notti chiare…cit. p.

[19] H. Broch, Poesia e conoscenza, cit. p.62.

[20] Ivi, p. 94.

[21] Titolo di un libro di S. Zweig, Garzanti, 2022.

[22][22] H. Broch, Poesia e conoscenza, cit. p. 135.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 228.

[25] Ivi, p. 233.

[26] Ivi, p. 247.

[27] Ivi, p. 438.

[28] Ivi, p. 441.

 

immagine (O. Kokoschka, Wien, Staatsoper, 1956)