Non ancora eppure già ora. Gli incolpevoli di Hermann Broch – di Mario Pezzella

Non ancora eppure già ora. Gli incolpevoli di Hermann Broch – di Mario Pezzella

21 Gennaio 2025 Off di Francesco Biagi

 

Lo stato d’animo dominante degli Incolpevoli, il romanzo di Hermann Broch, è l’indifferenza Versäumnis, negligenza, omissione esitazione[1]. La data in cui sono ambientati i primi due racconti precede di poco quella in cui si svolgono gli eventi di Huguenau o il realismo, l’ultimo romanzo della trilogia I sonnambuli, il 1918, alla fine della Grande Guerra. I sonnambuli sono trascinati quasi senza coscienza nel disastro; gli incolpevoli procedono indifferenti e apatici verso il nazismo e il nuovo conflitto mondiale. Come per altri scrittori della sua generazione, la guerra costituisce per Broch uno spartiacque, un trauma storico decisivo, che fa precipitare nel nulla la vecchia Europa, il suo ordine simbolico entro cui già si avvertivano le crepe della disgregazione. La catastrofe non è improvvisa, non è un crollo verticale, ma si prepara lentamente sotto la superficie del mondo precedente, nelle sue faglie, nei suoi vuoti, nelle sue contraddizioni irrisolte[2]:

«La stupidità essendo mancanza di immaginazione

sputa astrazioni, va cianciando di sacro,

di suolo patrio, di onore nazionale…

Quando si viene al punto,

è senza parole, i corpi dei maschi straziati

sono per lei inimmaginabili

come la fame…

Stupidità miseranda, pietosa…» (14-15)

Gli incolpevoli sono anche sonnambuli o ne sono i diretti eredi, soggetti invasi dalle pulsioni di distruzione dell’inconscio del collettivo, di cui hanno solo una confusa e incerta nozione, mossi da forze collettive con cui si identificano e che li svuotano di ogni senso di responsabilità personale: la loro colpa, se di colpa si può parlare, risiede non in atti voluti, ma in una indefinita e infinita passività. A., uno dei protagonisti degli Incolpevoli, non recato personalmente danno a nessuno, però ha lasciato che il male accadesse senza intervenire, ha abbandonato l’unica donna che lo ama provocandone indirettamente il suicidio e – sul piano collettivo – ha assistito indifferente all’avvento di Hitler. Il peccato suo e della sua generazione è l’omissione, l’accidia metafisica e psicologica: «Troppo grande è il compito che ci è stato assegnato, e per questo ci armiamo di cieca indifferenza…Persino di fronte al massacro…noi chiudiamo gli occhi e lasciamo che accada…Paralizzati da un compito immane, non vogliamo più assumerci l’impegno della paternità…Invochiamo la bestia, affinché ci comandi» (328-329).

Questo ammette A. nella sua estrema confessione e ammissione di colpa, e anche di essersi voluto «accucciare» vicino a una madre: l’indifferenza di fronte al male coesiste con una regressione senza ritorno a una dimensione infantile e impotente, all’imago di una Grande Madre in cui dissolversi. Uno stato d’animo che prelude all’immersione e alla sottomissione adorante ai movimenti collettivi in atto, alla fusionalità ebbra del nazismo. L’imago paterna si deforma in quella del padre violento dell’orda[3], quella materna perde il suo carattere generativo e diviene fantasma divorante: costellazione fatale di un inconscio del collettivo disponibile alla macchina totalitaria.

L’indifferenza è un effetto del trauma della guerra, che distrugge ogni sicurezza dell’ordine simbolico e genera nel fondo della psiche una stupefazione malinconica, una paralisi della volontà, una pulsione depressiva di autodistruzione: pronta però a trasformarsi di nuovo in aggressione verso l’esterno, verso un nemico additato. La percezione del proprio vuoto psichico si rovescia in ricerca del colpevole, su cui scaricare la propria intollerabile autodistruttività: «La libido ha allora il compito di mettere questa pulsione distruttiva nell’impossibilità di nuocere, e assolve questo compito dirottando gran parte della pulsione distruttiva verso l’esterno…La pulsione prende allora il nome di pulsione di distruzione, pulsione di appropriazione, di volontà di potenza»[4].

Finché le cose gli vanno bene, finchè i suoi affari sembrano diabolicamente avere sempre buon esito, A. giustifica la propria inazione, la propria “pigrizia”, con la fede e l’abbandono al destino; nozione ambigua, esaltazione di una necessità che poi si rivela estrema contingenza e imprevedibilità, fino a rovesciarsi nella rovina. Questo riflusso inconscio costituisce appunto uno dei caratteri emotivi del sonnambulismo: «Era avvenuto nella forma di un sorvegliato, vigile perdersi in sogni, come in uno stato di dormiveglia…» (115), che sembra fruttargli successo e danaro quasi senza intervento del suo io cosciente; ma lentamente il sogno favorevole si tramuta in incubo, i segni che si affollano da ogni parte diventano nefasti, e la benevolenza del destino si rivela come uno scherzo demoniaco, come accade a Faust o a Don Giovanni.

La crisi della presenza che investe l’ordine simbolico viene mascherata da una superficiale iridescenza indecente, che costituisce l’essenza del Kitsch: è una ornamentazione spettacolare che occulta il vuoto, priva di ogni spessore etico e politico, forma estetizzante del piccolo borghese decaduto e pieno di risentimento in una fase storica che precede l’esplosione di un odio dichiarato: «come se fosse nel nulla che l’essere cela se stesso» (294). Il Kitsch è una citazione artefatta e manieristica di stili del passato, svuotati del significato originario, puri segni per un edonismo euforico, che accompagna lo sgretolarsi dei valori morali. La borghesia «impone al suo mondo un ordine artificialmente ornamentale e lo trasfigura per poterlo godere, ma solo a patto di nasconderne la miseria…Per il momento, il borghese non è ancora crudele, si sta però preparando a diventarlo, se è vero che in ogni estetismo, in ogni decorativismo…sonnecchiano il cinismo e lo scetticismo…»[5]. La superficie scintillante coesiste con una scissione traumatica dell’inconscio del collettivo, che viene oscuramente intuita, un’angoscia inarticolata e diffusa, ma non veramente conosciuta. Queste affermazioni di Broch ci risultano particolarmente leggibili, perché nella società dello spettacolo in cui ora viviamo il Kitsch domina in una forma ancora più pervasiva di dominio dell’esteriore: ««Tale svuotamento interiore del concreto ad opera dell’astratto ne lascia residuare solo una pellicola di superficie che diventa, con la sua superficialità, con la sua valorizzazione isterica…la negazione e la dissimulazione di tutto quanto accade al suo interno»[6]. Il Kitsch in questa prospettiva non si limita solo all’azione negativa del nascondere, ma ne esercita anche una positiva di dissimulazione e negazione, in una parola di inversione della realtà. I suoi fantasmi sostituiscono la percezione dello stato di cose reale, permettendo così la servitù volontaria all’ordine del capitale: «Il feticcio è una copertura del nesso sociale che lo rende possibile»[7], perché senza l’occlusione da esso operata il vuoto si spalancherebbe nella psiche del soggetto. Questo processo di dissimulazione e travestimento carnevalesco precede il più aperto dispiegarsi della violenza e della guerra, quando la prosopopea del feticcio si rivela incapace di contenere la corrosione e le contraddizioni latenti. Il Kitsch è il belletto provvisorio di un mondo, che sta per entrare in un’età della catastrofe.

Quando viene meno il fondamento etico di un’epoca, scrive Broch

«subentra il culto del feticcio,

l’idolatria…

il vuoto cosmico, in cui, livellato,

tutto ha il medesimo peso,

tutto ha la stessa santità empia». (56)

Ora, questa vacuità di superficie non è solo un male o una perversione in se stessa, ma è anche prodromica a uno scatenamento di violenza, allorché l’erosione si fa troppo acuta per essere controllata con gli strumenti della rappresentazione spettacolare, e l’autodistruttività si rovescia in ostilità aggressiva verso il presunto nemico, «rauca ferocia del vuoto assoluto», della guerra che è «una ruggente vuotezza» (57). Così all’avvento di Hitler

«s’era spenta la risata e la maschera

vedemmo del terrore, il Kitsch orrendo

e funebre, applicato

alla faccia piccolo borghese

del carnefice…

il volto del non aver lacrime». (292-293)

Il Kitsch non è un fenomeno marginale della storia dell’arte: è la manipolazione del desiderio da parte del capitale, la sua deformazione fantasmagorica. Alla scenografia distraente dello spettacolo, alla distrazione e alla stupidità come categorie storiche succede l’angoscia e poi la violenza e la guerra. Nel tempo sospeso tra lo spettacolo e il terrore il soggetto è manipolato e diviso tra l’euforia isterica del Kitsch e un oscuro senso di colpevolezza, presentimento del suo effettivo vuoto d’essere e della sua (in)colpevole negligenza. È un sonnambulo.

Alla fine della sua confessione, nel penultimo racconto Il convitato di pietra, A. riconosce la sua partecipazione alla colpa collettiva, la sua appartenenza a una unità ««freddamente magica, freddamente saldata in una universale indifferenza e mancanza di responsabilità, tanto che sia la colpa che l’espiazione sono condivise da tutti, e magica è la nuova vendetta di sangue nella sua freddezza, e tuttavia equa, non essendosi ribellato nessuno di coloro che ne sono colpiti» (333). Tecnica e magia fantasmagorica della merce costituiscono i due aspetti complementari del capitalismo europeo alla vigilia della grande crisi che porterà al nazismo, mentre la psiche si scinde in movimento frenetico fine a se stesso e anaffettività fredda, «Io esploso nell’illimitato, Io privato dei limiti dell’Io». Nella cesura del tempo, nella «vegetazione selvaggia di ciò che non ha direzione» (16), ogni aspetto dell’ordine simbolico entra in uno stato di indeterminazione e di caos, vengono meno le immagini e il linguaggio, «nessuna misura è qui più misura». Broch intuisce la spinta verso l’illimitato che caratterizza il capitalismo e la sua forza disgregante ogni valore etico, così nella poesia Voci 1913: «Addio Europa: la bella tradizione è alla fine», il «movimento frenato» che caratterizzava gli aspetti migliori di quella tradizione, lascia il posto a una slegatura universale, l’accordo di terza si è scomposto in dissonanze, la figura in linearità dissociate. Al termine della poesia con sarcasmo Broch si riferisce alla gioia maleveggente che inneggia alla guerra. Il primo conflitto mondiale pone fine ai secoli dell’Occidente, o almeno alla sua cultura:

«Din don gloria,

in battaglia si va,

perché non lo sappiamo,

ma spalla a spalla starsene,

starsene nella fossa,

chissà, ci fa piacere…

Alleluia, alleluia,

in battaglia si va» (18-19)

Da questa tonalità affettiva, secondo Broch, il nazismo ha tratto la sua energia fondativa.

 

Nota. Il romanzo ci pone oggi una importante domanda: può un popolo intero essere ritenuto colpevole dei massacri compiuti dai suoi capi, dai suoi governi e dai suoi eserciti? Perché questi non sarebbero possibili senza la sua indifferenza passiva, anche quando questa non sconfini nell’approvazione a distanza. Se questi capi sono eletti e sostenuti lungamente e talvolta fino agli estremi limiti da una grande maggioranza del loro popolo, è giusto che questo paghi per crimini che magari non ha direttamente commesso? Sono giuste le bombe di Dresda e di Hiroshima? E quelle a noi contemporanee, più o meno ispirate dal desiderio di vendetta? La violenza tende a diventare mimetica, in un incremento continuo di intensità, finché supera largamente le proporzioni iniziali e si perde nozione di chi sia ora l’aggressore o la vittima.

Nel primo racconto in cui compare, A. percepisce un groviglio confuso di voci che si aggrumano in uno spazio dilatato e disorientato, voci che si intrecciano nell’inconscio del collettivo, trascinando con sé l’Io, che però nonostante questo o forse proprio per questo, resta «disperatamente solo», nel «gomitolo dei destini vocali» (29), l’Io perde la propria individuazione, mera risultante dei loro incroci e delle loro pulsioni. In un racconto successivo A. ha

«la sensazione che questo ronzio globale fosse – in ognuna delle voci singole apparentemente indipendenti che lo formavano – l’espressione di un comando generale e che questo formicolio di voci facesse parte di un’organizzazione generale, smisuratamente grande, capace di imporre con la forza le proprie segrete, invisibili, inafferrabili norme ad ogni particella, nonostante la mobilità di ciascuna…» (232).

È l’astrazione del capitale che si afferma come inconscio sociale, ricoprendo la sua inflessibile legge e le sue contraddizioni interne, il suo durare verso la catastrofe, con i feticci del Kitsch e dello spettacolo, e la loro frenetica “mobilità”. In Una leggera delusione Broch comunica lo stato d’animo collettivo ricorrendo all’immagine di una meridiana che non funziona più bene, che ha perso la relazione significante di luce ed ombra, che proietta a casaccio, mentre la struttura della via e del palazzo, un ordine che sembrava inalterabile, fatto di pietra e di ferro, «potrebbe anche disfarsi in silenzio» (154). È una casa misteriosa e fiabesca, del resto, un simbolo del “mondo di ieri”, quello in cui si trova Melitta, l’unica vera innocente di tutto il romanzo, vittima predestinata di A. di Zerlina e di Hildegard, è un residuo architettonico di un tempo scomparso, perduto nella fantasmagoria moderna della grande strada cittadina, la successione orizzontale dei suoi cortili diviene incomprensibile e intollerabile ad A., si trasforma in labirinto, covo «di ogni terrore», il quotidiano diviene l’unheimliches di Freud, ed è questa l’esperienza diffusa di una generazione che esce dalla guerra e presente e attende la propria rovina, nello spazio sospeso. Cosicchè il viandante può solo «procedere a zig-zag», come un ubriaco, un sonnambulo.

Il docente di matematica Zaccaria incarna perfettamente lo spirito piccolo-borghese che si accinge a passare dall’apatia al furore. Broch si chiede: vale davvero la pena di parlare di un tale «minimo di personalità», poco più interessante di una pala o di un oggetto morto? (38). La risposta è affermativa perché le sue idee politiche e le sue perversioni erotiche ci rivelano la tonalità affettiva del collettivo che si predispone al nazismo. Il professore non è del tutto insensibile, pur nella sua mediocrità, ma l’amore lo terrorizza, perché suscita nel suo animo inadeguato, almeno per una volta nella vita, una pretesa di infinito, un romanticismo, che inserisce una nota anarchica nella sua ordinatissima esistenza incolore.

L’amore «significava tendere a un punto infinitamente lontano», cosa che per Zaccaria significa tagliare completamente i ponti con il reale, svalutare «la propria cosciente consistenza d’essere». Quando esce dal suo moralismo oppressivo e asfissiante, il nostro cade in preda di un immaginario delirante e inarrestabile. A quest’uomo mediocre tocca di sperimentare un desiderio illimitante che «fluiva verso le stelle, e ne rifluiva indietro, fiammeggiava dentro di lui» (50). Questo accade al giovane Zaccaria, nel primo racconto in cui compare, inserito nella cornice del 1913. Giunge fino all’orlo del suicidio, ma solo fino all’orlo: evitata la fine di Werther egli diventa un perfetto filisteo, come lo vediamo nel racconto ambientato dieci anni dopo, nel 1923. Questa alternanza o scissione tra esaltato romanticismo e il filisteismo più bieco, descrive secondo Broch uno stato d’animo tipico del borghese tedesco, pronto a passare da un estremo all’altro.

Il piccolo borghese declassato della Germania postbellica, così ben descritto da S. Kracauer[8], è attraversato dal risentimento e dall’umiliazione. Zaccaria, nella cornice del 1923, è nientemeno che un socialdemocratico, ma nei suoi discorsi affiorano i segni della sua futura adesione al nazismo, con un rovesciamento di posizioni comune a gran parte della sua generazione. I tedeschi subiscono «la maledizione della grazia» (184), provano una pulsione irrefrenabile verso l’infinito e l’abolizione del finito: vocazione mistica che si muterà nella più prosaica distruzione dei corpi renitenti alla trasfigurazione. L’ancora socialdemocratico Zaccaria esalta la fraternità, superiore all’amore, di cui possiede certo l’impulso ad autoannullarsi, ma temperato in un ordine comune: che per l’ex-combattente Zaccaria è «una grande comunità virile» e quale migliore espressione di tale ordine se non l’esercito? Il soldato, come l’operaio di Jünger, diviene l’archetipo dell’“uomo nuovo”: «…Il suo corpo, in fila nell’interminabile schiera dei corpi, si fa senza paura, quando del corpo lo si priva» (195).

La Boétie si interrogava sull’enigma della servitù volontaria: perché essere disposti a morire per un tiranno, contro il proprio interesse, il proprio Io, la stessa sopravvivenza? Perché questa irresistibile pulsione di morte rivolta contro se stessi? In effetti si esorcizza la paura della morte identificandosi in un ideale dell’Io, incarnato dal capo, invulnerabile, archetipico, sovrumano, e amalgamandosi allo spirito collettivo della massa. Annullandosi, l’Io si percepisce immortale: «Una tale massa primaria è costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico medesimo oggetto al posto del loro ideale dell’Io e che pertanto si sono identificati gli uni agli altri» (Freud 80372).

Zaccaria invoca dunque l’avvento del «saggio e severo reggitore», vertice della piramide della fraternità, legata da un «amore eternamente pronto alla morte e per questo stesso vittorioso sulla morte» (203). Una gerarchia fraterna decisamente patriarcale, fondata sul culto degli antenati e del sangue che si tramanda nelle generazioni, nella fosca presenza, comunque, di un «Tutto materno», che minaccia come un tuonare lontano del cielo; a ripetere la tragica dicotomia in cui si sdoppiano le imago paterna e materna, nella loro edizione e reversione negativa di padre dell’orda e madre dissolutiva, congiunti nella potente pulsione di distruzione che porterà al nazismo e alla guerra. Identificazione a un ordine coattivo e caos pulsionale vengono a coesistere nella psicologia prenazista di Zaccaria: «incitando da una parte all’ascesi perfetta, dall’altra all’estremo scatenamento degli istinti» (210).

Il racconto I quattro discorsi del professor Zaccaria si conclude nell’inferno del sesso masochista in cui precipita il nostro aspirante superuomo. In Costruito metodicamente lo avevamo visto rapito da estasi wertheriane e romantiche, ma ora la moglie megera gli sculaccia con una canna il sedere, mentre lui si abbandona del resto a una sorta di orgasmo. «Non si possono aiutare quelli che stanno all’inferno. Non si può. Dove c’è l’inferno le cose non possono andare che di male in peggio, sempre. E, stia pur tranquillo, in peggio andranno: non siamo ancora arrivati proprio al centro dell’inferno, dove dobbiamo arrivare prima o poi» (208-209). Per il momento si tratta di un inferno grottesco e domestico, ma non per questo meno incline al demoniaco. Con queste parole la moglie di Zaccaria congeda A. che lo ha accompagnato a casa ubriaco[9].

Nel romanzo vediamo forse ancora Zaccaria nell’ultimo racconto, presenza non dichiarata ma probabile, se è lui l’uomo che «con arroganza plebea» segue una donna fino in chiesa, ormai nazista dichiarato, col distintivo all’occhiello.

A è attratto dal ritorno verso una imago materna dissolutiva. Fin dal primo racconto, nella cornice 1913, il pensiero della madre «a cui bisogna obbedire», suggerisce quello del suicidio, che poi A. commetterà effettivamente. Regressione alla Madre e pulsione di morte sono complementari, A. si configura come propaggine fallica della madre, che crede di ritrovare nella vecchia baronessa, che gli affitta una stanza, mano infantile nella mano della madre (75). In questo desiderio di rientro nella fusione primigenia Broch vede un tratto caratteristico della generazione prenazista, preludio al torbido impulso di confluire nella massa opaca in cui dissolvere il peso dell’Io. Si tratta, percepisce confusamente A., di una «prigionia volontaria» (282), di una «illibertà volontaria» (284), in cui il senso oppressivo della limitazione coesiste con un “ritorno a casa”, che garantisce protezione e sicurezza: ma è in realtà desiderio di morte. Se intendiamo la storia di A. come un percorso di individuazione e di formazione, allora esso fallisce definitivamente nel momento in cui sacrifica l’amata, la figura femminile, l’anima mediatrice, che lo avrebbe salvato dal desiderio di regressione infantile alla madre.

«Chi torna a casa è assolto», si dice A. per giustificare la sua “incolpevole” responsabilità nel suicidio di Melitta, per indifferenza e omissione e incapacità di amare[10]. Pensa questa frase seduto nel giardino triangolare «davanti agli occhi il trifronte orologio della morte, coronamento sepolcrale, triplice volto del centro» (284). La triangolarità è una figura archetipica del romanzo e ritorna anche nella definizione dei caratteri. Zerlina, la baronessa e Hildegard disegnano un «triangolo delle donne» (87) tipologico e psichico, e la geometria del giardino sembra voler vanamente contenere il vuoto che A. avverte al centro della piazza. La costellazione trinitaria pare condannata all’incompletezza, le manca costantemente il “quarto” che permetterebbe di uscire da una verticalità chiusa ed asfittica, monodirezionale. Quando un quarto comparirà, nella figura fiabesca del nonno di Melitta, sarà per annunciare la catastrofe del mondo tridimensionale, piuttosto che la sua redenzione.

L’assoluzione che A. vorrebbe concedersi è viziata di falsità e ipocrisia e viene smentita nella poesia Voci, 1933: «Ci fu mai la Madre? Ci fu mai/quello che un tempo ti contenne? / C’è un verso casa? Oh non c’è mai Verso-Casa» (295). «Il segno del ritorno e dell’innocenza, il segno del bambino, sfuggito all’inferno» (285), è invece il contrario di ciò che sembrava, la prefigurazione dello «spettrale sacrificio umano» che si sta preparando per la generazione di A.

 

Nota. Le poesie che scandiscono i racconti hanno quasi la funzione di un coro tragico, ed esprimono il punto di vista altro del narratore rispetto alle vicende e ai personaggi narrati. Riguardo alla nostalgia della Madre e al ritorno a casa di A. Voci, 1933 rivela la visuale prospettica di Broch, strutturalmente una mise en abîme di ciò che avviene nel racconto precedente e forse una vera e propria cesura, in cui si chiarisce il senso del divenire e del fallire del personaggio in tutto quel che precede, luce che di rimbalzo ci permette di capire in prospettiva quanto fin qui è stato narrato, e di dissolverne ogni supposta “menzogna romantica”, riducendola alla sua verità romanzesca. A. indubbiamente contiene tratti autobiografici di Broch, anche quelli meno simpatici, quali egli stesso ha rivelato nella sua Autobiografia psichica[11], ma nel narratore agisce l’istanza della riparazione e della salvezza dal trauma costitutivo: è importante procedere all’indietro per comprenderlo, ma bisogna considerare lo scarto verso il possibile oltre la situazione di partenza, che caratterizza l’atto estetico nella sua autonomia psicologica e linguistica, senza riduzionismi biografici. La “metafora ossessiva” di un’opera, in ultima analisi, fuoriesce dal piano personale, e si inoltra nell’inconscio del collettivo: ed è anche la figura in cui l’Io dell’autore si progetta al di là di se stesso.

Al desiderio regressivo di una totalità avvolgente che domina la personalità di A., Broch contrappone la contingenza degli incontri e del caso, l’infinita «trasmutazione sul limite», la «corrente che ferma fluisce», lo spazio liminare dove il tempo resta in sospeso, tra uno Ieri e un Domani che tramutano incessanti l’uno nell’altro; questo è il tempo in cui A. e la sua generazione dovrebbe accettare di vivere, in «paesaggio scisso», conoscendolo, «prima che cada la sera» e dunque assumendosi la responsabilità dell’incertezza dell’accadere. Questo eraclitismo, questo divenire nel trapassare, è un possibile utopico rispetto al magma compatto e statico in cui A. desidera invece di sprofondare.

«Non volevi essere padre, volevi essere sempre e soltanto figlio», così dice il nonno di Melitta, il «convitato di pietra», che giudica A., il Don Giovanni stanco e fallito del 1933.

Al primo ingresso nella casa della baronessa, A. intuisce l’antica presenza di un uomo «virilmente severo» (79), il padre morto di Hildegard (almeno così sembra), ma ormai fantasmatica e dissolta, anche se il suo ritratto esercita ancora una potente attrazione: un uomo che, nonostante le macchinazioni della serva Zerlina, fu capace di sospendere il suo impulso alla vendetta contro l’amante della moglie, di assumersi responsabilità etica, al contrario di A. Il rifiuto del “nome del padre” da parte di A. si spinge fino al punto di desiderare di «essere figlio di se stesso» (149): «C’è una sola possibilità di rifugio ed è non avere nome. Chi non ha più nome, non può essere chiamato…Io, grazie al cielo, il mio l’ho dimenticato». Di sfuggita apprendiamo che il suo nome è Andrea, ma quasi sempre esso si riduce nel romanzo alla lettera A, salvo che nel terribile confronto con la figura paterna e severa del “convitato di pietra”, così nel Processo di Kafka il protagonista è indicato con la sola K. A. vorrebbe essere di una “coscienza increata”, come lo Stephen Dedalus di Joyce[12]; ma per lui l’autocreazione risulta impossibile, e quando cerca di uscire da questo vuoto del tempo non è per l’accettazione di una responsabilità etica, né per una personale individuazione, a cui ha totalmente rinunciato, ma «per accucciarsi vicino alla madre» (325), in una culla preedipica.

Il nonno di Melitta, il “convitato di pietra”, riconducendolo alla coscienza della sua colpa, lo chiama col suo vero nome «quasi volesse, come fa il padre, togliere il figlio dall’anonimità» (335) ma è troppo tardi e l’unico esito di questo risveglio è il suicidio, di Andrea e di tutta la sua generazione che sta per consegnarsi al sacrificio di massa voluto da Hitler «spinti d’ebbrezza in ebbrezza / alla tortura ed al sangue…» (289-290), dove il trauma personale interseca quello storico collettivo.

L’eros dei personaggi del romanzo oscilla tra perdizione e desiderio di morte – e la potenza demoniaca incarnata in modo eminente dalla serva Zerlina. Abbiamo già visto come per Zaccaria l’amore sia estatico annullamento romantico, wertherismo che poi sfocia nella perversione masochista, tensione al buio «che priva la sua anima di anima e il suo corpo di corpo» (186). Broch non ama il romanticismo, la “menzogna romantica” viziata da un estetismo che prelude al Kitsch. Sottovalutando tutto il primo romanticismo e la sua concezione dell’ironia, Broch si accanisce contro il sentimentalismo che, mancando l’autenticità del sacro, eleva al sublime l’atto sessuale e la banalità del quotidiano. Il romanticismo è incapace di produrre un’arte di medio valore, precipita dal misticismo cosmico nella fanfara sentimentale: ««Ogni occasionale copula della vita quotidiana venne sollevata alla sfera astrale, venne portata al livello dell’assoluto (o meglio di uno pseudo-assoluto, venne trasfigurata in un amore da Tristano e Isotta, incorruttibile ed eterno»[13]. «Fracasso dell’anima» (138), come osserva sprezzante la serva Zerlina, a proposito delle lettere d’amore tra la Baronessa e il suo amante von Juna. Il quale è immerso nella «coscienza di colpa dell’oscuramento dell’Io, che concerne ogni ossessione demoniaca» (132); egli oscilla tra i due poli dell’idealistico e quasi disincarnato omaggio “elfico” alla donna ideale (come per lui la Baronessa) e il vortice sadomasochista e dirompente di Zerlina. Perché demoniaca è propriamente la scissione tra lo spirito e il sesso, che fa precipitare entrambi i poli nella perversione: «In questa sfera spirito e sesso si muovono con una solidarietà, la cui legge è l’ambiguità»[14].

L’uomo dominato dall’eros demonico è risucchiato dall’oggetto mutevole e in fondo irrilevante dei suoi impulsi. Kierkegaard ha fissato i termini estremi di questa esperienza, commentando il Don Giovanni originale, di cui von Juna è il grottesco discendente, vittima masochista e non seduttore della sua Zerlina: «Ma se la sensualità è vista sotto la determinazione dello spirito, si vede pure che il suo significato è il fatto di dover essere esclusa; ma appunto per il fatto di dover essere esclusa, essa è determinata come principio, come forza; infatti ciò che lo spirito, che è esso stesso principio deve escludere, dev’essere qualcosa che si presenta come principio, seppur si presenti come principio solo nell’istante in cui viene escluso»[15]. La contorsione stilistica di questa frase di Kierkegaard, conserva tutta quella che è di fatto depositata nell’esperienza reale del demoniaco. Zerlina attende l’impeto dell’amante «portata sull’orlo del precipizio, dove le creature umane presentono l’estrema caduta» (134), e d’altra parte Von Juna secondo lei «non può amare…in ogni donna che incontra serve quella che non esiste e che potrebbe amare se mai esistesse, mentre così non è altro che uno spirito maligno che lo fa schiavo» (138). L’asservimento masochista si trasforma simultaneamente in odio, in impulso sadico. Zerlina è animata nel suo eros demoniaco da una feroce rivalità mimetica, che la spinge a occupare il posto della Baronessa, col suo amante, dopo aver tentato perfino col giudice, l’irreprensibile marito: «Non ero forse ricca, io, ricchissima, di fronte a lei» (132). La sua è una volontà di potenza primordiale, che la induce dal suo infimo ruolo sociale a impossessarsi e annodare i destini di tutti gli altri personaggi, animata da un passionale odio di classe, da un risentimento invincibile, finché compare alla fine sulla scena deserta di questo romanzo-Trauerspiel come unica trionfante dominatrice, nel paesaggio desolato in cui tutti sono morti o sconfitti, mentre le strade sono invase dalle bandiere hitleriane. Ammettendo la propria sconfitta, «se l’è veramente meritato», dice Hildegard a Zerlina, che ha preso possesso dei beni della baronessa, simbolo della nuova classe rapace che ha destituito gli antichi potenti e ora marcia sui corpi delle vittime.

Quanto al rapporto traumatico tra la stessa Hildegard e A., essi sono come «sospesi, assunti nel non-spazio», «anime morte, lungi da ogni comunanza» (270), dopo che Hildegard ha di fatto provocato il suicidio di Melitta, e propone ad A. «l’amore primordiale, che sorge dal nulla, selvaggio, subanimale e malvagio, ma che tuttavia si libera da tutto questo e sale fino all’Essere» (278), fino all’umano. Ma questa trasmutazione pseudoromantica della crudeltà sadica si rivela impossibile, la scissione incolmabile, dominata dalla pulsione di morte, mentre Melitta l’unica creatura degna e capace di amore viene sacrificata. Da qui in poi non c’è più per A. redenzione possibile. Solo un’estasi fittizia, che di quella autentica è un simulacro, «un rapimento nel nulla», che però non ha niente di liberatorio e generativo, ma è pieno di «un fascino corrotto e funebre» (309), perché profondamente narcisistico anestetico indifferente al mondo e al dolore.

 

Nota. In un commento di Broch al suo romanzo, l’autore cerca parzialmente di riabilitare A. che è pur sempre e nonostante la sua regressione a una «pseudoconcrezione» materna, un «cercatore» di verità, l’unico ad essere consapevole che il mondo di ieri sta finendo e che quello nuovo, coi suoi caratteri illimitati e indefiniti, sta nascendo. Per questo egli, dopo la sua confessione finale, «diventa anche ricettivo alla nuova “grazia” che l’apicoltore gli apporta, prende coscienza, sia pure da molto lontano, della nuova assolutezza, che certo rimane agnosticamente indicibile, ma la sua esistenza è già così inequivocabile che può nuovamente ispirare conforto e speranza nell’anima»[16]. Questa però mi sembra più la consapevolezza e l’intento dell’autore, che ha voluto dare tale senso al romanzo nel suo complesso, e in effetti A. è il personaggio che maggiormente lo esprime nei suoi monologhi interiori: la logica narrativa prevale tuttavia sull’intenzione e per A. il “risveglio” coincide col suicidio, l’inazione e l’impotenza di fronte al male che avanza nella sua vita privata e in quella pubblica: sono molto deboli «il conforto e la speranza» per la sua anima. Al più si può parlare di una voluta «espiazione», un termine caro a Broch. Si vede qui come la verità romanzesca debba infine prevalere perfino sull’intenzione dell’autore: un A. salvo, confortato e magari sposo felice di Hildegard, scadrebbe inesorabilmente nel Kitch, mentre nelle strade si sentono le urla delle bande di Hitler.

Negli Incolpevoli lo slancio mistico che percorreva la Morte di Virgilio si avvicina alla teologia negativa più radicale, in un radicamento alla situazione storica specifica che viene descritta nel romanzo: «…Il significato dei tempi è nel tempo, ma il tempo non ha voce se non nei molteplici contraddittori istanti che fioriscono e periscono, negli orizzonti storici sempre tramontanti dell’uomo»[17]. All’ “orizzonte storico” degli uomini “incolpevoli”, alla loro generazione tutta, non è concessa una chiesa, una fede positiva, un contenitore simbolico del sacro. Broch è in questo vicino ai suoi contemporanei che hanno pensato in maniera radicale il rapporto fra teologia e storia nella crisi dell’ordine simbolico del 900, come Benjamin o S. Weil. Di questa mistica senza dogmi è espressione soprattutto la poesia Voci 1923. Con una terminologia familiare alla mistica renana e a Meister Eckhart, Broch lascia parlare il suo dio ignoto e assente: «Ho posto in te nel profondo il non-luogo della Mia essenza/l’esterno più esterno nel tuo più intimo interno», a noi è concessa la pienezza di luce solo nell’oscurità, una luce che è insieme «inilluminabile, inoscurabile: qui è il Mio non-essere, e in nessun altro luogo» (297).

Assenza storica e metafisica. La felicità e la redenzione sono promesse, visibili da lontano come per Mosé dopo il lungo attraversamento del deserto, ma non per noi raggiungibili, questa visione utopica è comunque l’unica consolazione di fronte alla morte, alla fine collettiva di un mondo, alla catastrofe della cultura europea:

Tutto è per l’uomo il sole, e amaro dire

all’ultima fuggente luce addio;

a meno che non scorga nell’estremo sguardo

la terra a lui promessa, a lui negata[18].

Durante un banale ricevimento nel giardino della baronessa, A. intuisce tre dimensioni del mondo che si distinguono e si compenetrano: il mondo tridimensionale della percezione, in cui comunemente viviamo, quello multidimensionale della visione metamorfica, che coglie il movimento continuo «dove l’Ente fluisce nel Non-Ente» (234),

l’attimo del trascorrere,

la forma che al tempo stesso si sgrana

e si aggruma, e ogni cosa ogni persona

non vale più per se stessa non resta

chiusa nei suoi contorni,

ma è dissolta-formata

da una unica «grande onda

pluridimensionale»,

nell’attimo si forma e si dissolve

tramuta in particella e goccia d’onda.

Questo ente in sospeso tra l’essere e il non essere, dice Broch, si è espresso nella «sublime spettralità delle grandi opere della vecchiaia» (234); pensiamo agli ultimi autoritratti di Rembrandt, o agli ultimi quartetti di Beethoven, in cui ogni contorno finito si slabbra nella pluridimensionalità di una vita giunta a presentire la morte e dunque capace di uno sguardo che trascende la finitudine conclusa in se stessa degli oggetti della percezione e delle categorie dell’intelletto. Sguardo che occupava gran parte della Morte di Virgilio. È il moto della metamorfosi «nel quale l’essere riesce a diventare conoscenza e tuttavia si annienta sempre di nuovo, il processo del centro e del suo irradiare» (243). Si annienta: il testo tedesco, con un richiamo a Hegel, ha sich aufhebt, si supera, diviene nulla, ma così facendo diviene altro, è un nulla che è morte, ma anche rinascita di forme. «Ecco quel che A. vide ad un tratto: «…l’inviolabilità della metamorfosi del movimento…irrigidimento nello spazio e dissoluzione dello spazio, scomparendo veloce come il tempo stesso» (230).

Infine la terza dimensione è l’Uno silenzioso e inespresso oltre ogni esperienza possibile, che non può che tacere e essere taciuto.

«Nel fondamento dell’Io l’infinito è accoppiato al Nulla»

Broch può occasionalmente rimpiangere l’ordine perduto, il Medioevo mitico, la gerarchia analogica del finito e dell’infinito come appare in Dante, ma tiene fermo senza esitazione all’impossibilità della sua restaurazione storica. La terra promessa è per noi un ignoto, un possibile che diviene all’interno della disgregazione, scarsamente visibile, se non in una vaga intuizione, perché «la vista della terra straniera dalla patria, dell’illimitato dal limitato, è stata tolta all’uomo. Al suo posto gli è stato concesso qualcosa che difficilmente può ancora ricevere il nome di vista, poiché si compie nell’illimitato…» (327).

Nella concezione apocalittica della tradizione il tempo della fine è anche il tempo della nascita e del risveglio messianico, ma ciò che si configura nella nostra epoca è invece «il pericolo della fine senza ricominciamento» (329), perché l’umano è attraversato da una tensione verso l’illimitato che rischia di corrodere i fondamenti stessi della vita del cosmo. «A noi non sorride più il mondo, e cresce l’angoscia» confessa A. per giustificare la sua indifferenza, difesa passiva contro la minaccia incombente. I porti della vecchia Europa, metaforicamente, sono sepolti senza rimedio dopo la prima guerra mondiale, e a noi tocca di dover sostenere la dismisura della tecnica e della fantasmagoria illimitante del capitale.

 

Nota. Ungaretti: «Da quella stella all’altra / si carcera la notte / in turbinante vuota dismisura… / in questo secolo della pazienza / e di fretta angosciosa / al cielo volto, che si doppia giù / e più, formando guscio, ci fa minimi / in sua balìa, privi d’ogni limite…»[19].

Una demenza avanza violenta e senza freno, l’apocalisse viene deformata, banalizzata, assimilata nel quotidiano, resa sopportabile, senza fine durata catastrofica, protratta da un perverso katechon:

«I nostri compromessi sono disgustosi, e lo sono ancor più in quanto derivano dal lasciar fare. Andiamo in guerra, stiamo a marcire nelle trincee, rischiamo che i nostri volti e i nostri occhi si carbonizzino atrocemente, perdiamo i visceri dall’addome lacerato, ma la Croce Rossa arriva subito e i nostri ospedali da campo sono quasi tutti modernamente attrezzati, e a chi ha fortuna gli fanno una protesi nasale, una protesi orale, una piastra cranica d’argento. Questi sono i compromessi che la bestia conclude per noi e che noi accettiamo, pretendendoli poi da noi stessi come dal prossimo nostro, consolandoci che l’Apocalittico sia – tutto sommato – ancora sopportabile…Indifferenti all’altrui sofferenza, indifferenti alla propria sorte, indifferenti all’Io nell’uomo, alla sua anima» (330-331).

Invece di una comunità abbiamo una massa, in cui «i nostri limiti sfumano l’uno dell’altro», pretotalitaria «nera e silenziosa», come i contadini e i mercanti che A. vede nella stazione, «oppressa da un fosco senso di colpa», che nasce dall’aver perso ogni rapporto con la natura terrena ed essersi abbandonati all’avida astrazione del danaro: nel ristorante della stazione si riuniscono gli agricoltori e gli affaristi della città, al sapore delle fiere di paese si è sostituita una «rusticana e lugubre atmosfera di borsa, dappertutto si contrattavano compere e vendite e, ogni momento, c’era chi tirava fuori un portafoglio pieno da scoppiare farcito di banconote, e il contenuto a malapena controllato di quel portafoglio andava a pagare qualcosa di non esistente» (246-247). Entrati nella sfera finanziaria del debito e del credito, i prodotti non sono fisicamente presenti come nei mercati contadini tradizionali, nelle piazze o nelle fiere del paese, sono virtuali, e lo scambio di danaro è immateriale, la merce non presente è pagata con l’astratta carta moneta, il cui valore oscillante è mutevole e falcidiato da inflazione e crisi economica[20]. Questo tradimento della tradizione, abbandono della corporeità e della materia, del valore d’uso per l’astratto valore di scambio, questa «cattiva coscienza del portafoglio pieno», determina una catastrofe antropologica, rende i membri di quella massa compatta «gravidi di sciagure», in attesa del «fischio infernale», che orienti e sfrutti la loro malvagità, avidità e risentimento. La trasformazione degli agricoltori in produttori di merci corrode la loro umanità, li rende disponibili a seguire chi «li avesse chiamati all’uccisione e al massacro» a sfogare «la propria cupezza in una voluttà di oppressione» (256).

D’altra parte A. è una sorta di broker finanziario, un mediatore di compravendite, di metalli preziosi, di immobili, e così costruisce la propria fortuna, la baronessa e Hildegard gli affittano la casa perché paga in valuta straniera, non con lo svalutatissimo marco. Il dominio del danaro nella Germania postbellica e gli effetti devastanti della crisi sono presenti in sottofondo nel romanzo anche se non vengono tematizzati in primo piano, e si saldano alla paura che quei portafogli pieni possano improvvisamente non valere più nulla, al risentimento profondo per la sconfitta subita (gli uomini che compongono la massa oscura erano senza dubbio nelle trincee della prima guerra mondiale). Siamo nel 1923, cornice che comprende la più gran parte del libro, «nasce tremendo/il Terrore/nella rauca ferocia del vuoto assoluto» (57). Di fronte a cui «un atteggiamento umanitario apolitico» è vago e impotente verso ciò che sta per venire.

Nell’ultimo racconto del libro il nazismo ha già vinto, una donna, forse Hildegard, percorre una strada vuota verso una chiesa deserta, seguita da un piccolo borghese ambiguo e claudicante (come lo Zaccaria di un racconto precedente) e la sua percezione del mondo è ora di un «vuoto disperato» (346).

 

Infine lei apre nonostante tutto

un libro di preghiere nella chiesa

dove risuona un antico corale,

è entrata dalla porta riservata

ai nobili signori del castello

Il cui ricordo è un resto

della Finis Europae,

esautorati dai nuovi padroni

aprire il libro è un gesto monacale

di resistenza e di testimonianza

è l’unico ora ammesso,

gesto lontano da grandi utopie,

un gesto al singolare, nella dolce

Impossibilità d’altro sperare

abbandonate le grandi utopie –

decoro dell’istante, perché importa

la purificazione d’un momento

unico al mondo nel tempo sospeso

non è concesso andare oltre lo scarto

differenziale e minimo che è l’oltre

insito nel risvolto e nelle pieghe

di tale situazione,

a cui per nulla al mondo

dobbiamo rinunciare

benché realizzarlo sia impossibile (332).

[In quest’ultimo capoverso le parole in corsivo sono di Broch].

 

NOTE: 

[1] Ortica editrice, Anzio, 2022. Pagine delle citazioni tra parentesi in corpo testo. Il romanzo ha tre scansioni temporali: 1913, 1923, 1933, che articolano i suoi undici racconti, con una netta prevalenza quantitativa della seconda cornice. Precede tutto la pseudochassidica Parabola della voce. All’inizio di ogni cornice si trova una poesia titolata Voci seguita dall’indicazione dell’anno.

[2] «…Perentoria illogicità che rivela l’illogico della organizzazione del reale» (L. Bazzicalupo, Tempo e storia in Hermann Broch, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987,).

[3] Come appare in Totem e tabù di Freud.

[4] S. Freud, Opere, vol. 10, Boringhieri, Torino, 1978, p. 9.

[5]H. Broch, Poesia e conoscenza, Lerici, Milano 1965, p. 62.

[6] R. Finelli, Il dominio dell’esteriore, Rogas, Roma, 2024, p. 29.

[7] M. Gatto, L’egemonia della superficie, Castelvecchi, Roma 2024, p. fine c. 4. «…Il feticcio sostituisce qualcosa, si appropria del posto di qualcos’altro e falsifica la sua posizione…la sua efficacia risiede nella possibilità offerta a chi lo consuma di riconoscersi come parte attiva di un culto o di una ritualità collettiva, capace, per un attimo, di riempire a livello identitario l’orizzonte misero della sua interiorità…» (Ibidem)

[8] Cfr. Gli impiegati, Meltemi, Milano, 2020.

[9] Il terrore per il dissolvimento del corpo nell’umido, nello sgocciolamento, nella decomposizione, è un fantasma dell’immaginario nazista, secondo Jonathan Littell e Klaus Theweleit. Il fascista è un «non completamente nato» incapace di separarsi dalla madre, la sua psiche è arcaica e preedipica, e per difendersi da questa intima fragilità vetrosa, la ricopre di un Io-corazza, che tuttavia «nei momenti di crisi si frantuma e il fascista rischia di essere travolto dalle sue stesse produzioni desideranti incontrollabili, dalla ‘dissoluzione dei limiti personali’» (J. Littell, Il secco e l’umido, Einaudi, Torino, 2009, p. 20).

[10] «È un motivo antico dei miti quello dell’uomo che disprezza la sua amata terrena, perché ella non corrisponde all’immagine di una donna divina che vive dentro di lui…Senza assumere su di sé il proprio destino, senza amore, nessuna individuazione è possibile, l’uomo resta dominio del caso, un nulla mortale…». ( A. Jaffé, “Hermann Broch: der Tod des Vergil”, Hermann Broch. Perspektiven der Forschung, Fink Verlag, München 1972, pp. 160 e 162.

[11] Il capitello del sole, Bologna 2002.

[12] Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo. 1975-1976, Astrolabio, Roma 2006, P. 21. «Joyce ha un sintomo che procede dal fatto che suo padre era carente, carente in modo radicale…è proprio volendosi dare un nome, che Joyce ha compensato la carenza paterna» (Ivi, p. 90). «La frase pronunciata da Stephen Dedalus … – “coscienza increata della mia razza” – segnala lo strappo tra le generazioni, l’assenza di trasmissione simbolica del debito paterno nel processo di filiazione … Si tratta allora di diventare “figlio” delle proprie opere, di fare da sé il proprio libro, di creare ex nihilo, senza l’ausilio del padre. Solo in questo modo Joyce potrà farsi un nome» (M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto, Cortina, Milano 2016, p. 126.).

[13] H. Broch, Poesia e conoscenza, cit. p.382.

[14] W. Benjamin, Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1979, p. 115.

[15] Enten-Eller, vol. I, Adelphi, Milano 1976, p. 124.

[16] H. Broch, “Inhalt und Darstellungsmethode der ‘Schuldlosen’ ”, in Die Schuldlosen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1974, P. 308.

[17] L. Bazzicalupo, Tempo e storia in Hermann Broch, cit. p. 227.

[18] «Oh, alles ist dem Menschen die Sonnenwelt, / und das Abschiednehmen fällt ihm schwer, /es sei denn, daß er das gelobte Land, /freilich ohne es betreten zu dürfen, ohne /es betreten zu müssen, im Abschiedsblick/ erschaue» (H. Broch, Die Schuldlosen, cit. p. 243. È la metafora ricorrente in tutta l’opera di Broch, riferita anche a Virgilio: «Tu sei la guida eterna, che non può giungere alla sua meta: sarai immortale, come guida sarai immortale, non ancora eppure già ora, è la tua sorte a ogni svolta del tempo» (H. Broch, Der Tod des Vergil, Suhrkamp, Fr. am Main 1958, p. 296).

[19] Dal “Taccuino del vecchio”, Tutte le poesie, n. 16 e n. 23, Mondadori, Meridiani,

[20] Marx nel I libro del Capitale: la produzione capitalista «s’intromette nel ricambio materiale tra uomo e terra, cioè nel ritorno a quest’ultima dei suoi elementi costitutivi che l’uomo ha consumato sotto forma di mezzi di nutrizione e di abbigliamento, sconvolgendo con questo la imperitura condizione naturale di una costante fertilità della terra. In questa maniera essa distrugge a uno stesso tempo la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale degli operai agricoli…ogni progresso che aumenta la sua [della terra] fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle costanti sorgenti di tale fertilità». Newton Compton, Roma 2011, p. 370.