
La scrittura del dolore – Alessandro Poggiali
Pubblichiamo un estratto di Alessandro Poggiali dal libro di recente pubblicazione: Conoscere, sapere, cura di sé (Altralinea Edizioni, Firenze 2024).
Come sappiamo, curare il dolore, il dolore di ogni genere, è un’attitudine umana costitutiva, e non solo umana. Altrettanto lo è rappresentarlo, insieme ai tentativi, alle pratiche di cura. La letteratura soprattutto è permeata da descrizioni di dolore, da sempre. Anche le immagini lo sono e lo sono state. Ma si potrebbe dire altrettanto di ogni creazione artistica. Le arti di ogni tipo sono anche una modalità attraverso cui gli umani curano le proprie pene e ogni sofferenza. Rappresentare il dolore in ogni sua manifestazione pare essere uno dei compiti che gli umani si sono dati e sicuramente in questa prassi di multiformi espressioni della sua presenza, stanno anche le molteplici modalità della sua cura e dei tentativi del suo contenimento e controllo.
Queste considerazioni sono ovvie, ma il loro richiamo vuole essere la sottolineatura del carattere ogni volta spontaneo dell’inizio di ogni pratica espressiva – che poi prenda o no il nome di arte, interessa qui meno. Anzi, questa parola va messa fra parentesi perché potrebbe perfino essere equivoca. Dire arte imprime alle pratiche umane di espressione il connotato forte di un comparto specifico e persino professionale, istituito ormai da tempi lontani. L’arte la fa chi è nominato artista dal mondo in cui vive e da esso riceve questa qualifica per le prove che mostra.
Non intendo stare in questo ambito, ma avere la possibilità di transitare in quello che oggi appronta quasi di continuo risorse per fronteggiare, curare forme di sofferenza di natura psichica o di altro genere, con procedure specifiche. Risorse per dare espressione, dire, esprimere il dolore. Peraltro esiste un’arte-terapia che ha uno statuto psicoterapico autonomo.
Comunque mi tengo nell’alveo ormai molto ampio delle risorse di cura, e vorrei fare alcune considerazioni intorno al fatto che per alcuni, che in vario modo li subiscono e patiscono, si considera opportuno mettere in scrittura dolori, sofferenze e lutti. Mi pare che la pratica si proponga come una sorta di abreazione che si faccia un più fidabile testo scritto, per l’autorevolezza che ha in sé la scrittura.
La sofferenza è chiamata anche qui a una presenza più certa, consistente, che ci si prospetta di ottenere oggettivandola in scrittura, chiamata a divenire essa stessa corpo sofferente, o a narrare sofferenza. Di nuovo qualcosa che cerca di uscire dalla vaghezza insostenibile delle parole, dando loro il peso maggiore della scrittura e per suo tramite dotarle di un corpo materico, sintattico, fermo.
Di più, a questo in-scriversi del dolore e delle sofferenze, si affida anche la possibilità di un’apertura che muova il possibile rinnovarsi di un orizzonte vitale. Si tratta di una suggestione che può essere accattivante, ma che in misura maggiore mi suscita perplessità e domande. Non dico lo scrivere, che può rimanere insaturo, contingente, in frammenti, quanto, piuttosto, ciò che si fa scrittura, e per essa la forma della sua necessaria strutturazione. Cerco anche di sottrarmi il più possibile alla diffusa qualunquistica e detestabile logica del: “purché funzioni va bene”[1].
Vengo subito alla prima dirimente domanda già accennata sopra: è la scrittura che deve divenire corpo sofferente, essendo essa stessa sofferenza, nelle parole che adopra e nella loro sintassi, o la scrittura deve proporsi di narrare la sofferenza del soggetto che la prova e ne fa un testo? Sono due prospettive diverse, anche se i confini sono labili, e penso sia piuttosto la seconda che chiama a essere interrogata, in ragione del fatto che se la prima chiede un bel po’ di talento (per restare in tempi recenti, viene in mente la raccolta di poesie Chiodi di A. Kristof, o L’anno del pensiero magico di J. Didion) e sapienza poetica e narrativa per poter esser praticata, la seconda, proprio nel suo mettersi in movimento, sollecita l’io del soggetto a organizzare i termini della struttura narrativa, con l’obbiettivo, implicito o esplicito che sia, di una riparazione del senso di sé.
Immagino la scena all’inizio del suo provarsi. Immagino quella particolare congiuntura dove con facilità accade che l’invito alla scrittura, provenendo dalle suggestioni di una cultura scritturale auto-biografica e auto-terapeutica molto diffusa, assuma la forma di un esercizio opportuno. Da lì, da questo inizio, che ha una forte impronta performativa, non riesco a non pensare che presto s’imbocchi una traiettoria che finisca nella seducente costruzione di un’espressività finalizzata, che in più si propone anche come una sorta di procedura data per il riavvio della vita.
Molto dell’uso ordinario del linguaggio è protocollato in formule già pronte e disponibili. C’è solo da augurarsi che il dolore apra delle zone di espressività diverse. Come è anche possibile e augurabile che chi soffre si apra a un’alterità, proprio dal momento che la forza naturale del vivere pare mantenere la sua incerta, e persino ottusa traiettoria, in una qualche stabilità, anche se spesso solo nell’inconsapevolezza di chi soffre. Ma è dubitabile che ciò possa accadere in relazione a un fare che sia un disporre mezzi adeguati a un fine. Intendo che quella più che misteriosa alterità, di cui si può dire che sia cercata senza intenzione e di cui nessuno sa niente, non possa che essere lasciata alle sue incognite possibilità – se si vuole, a una fede, ovvero a un affidarsi, anche senza che sia fede in qualcosa.
L’apertura, in quanto evento possibile, ha ritmi, cadenze, fisionomie ignote. La narrazione invece impone regole e ritmi propri, è, diviene una procedura seduttivamente esigente, che con facilità assume l’aria di un “come se”; quando non le accada di esser dettata dal proprio interlocutore ideale, o dal suggeritore più corrivo e compiacente. La scrittura dà sempre la possibilità di mostrare una traiettoria sequenzialmente positiva. Evoca e offre ordine di cause ed effetti.
Il dolore, mentre si scrive, si riscrive nell’alveo accogliente della scrittura. Uno svolgimento che di fatto è governato da un io che ne dispone. Una forma di sapere, che come tale si chiude su se stessa. Proprio perché si può essere invitati alla prova anche da figure che hanno autorità, presenti o meno, l’invito diviene facilmente invito a una prestazione. La prestazione distrae, e la distrazione viene plausibilmente cercata da chi soffre. La scrittura con facilità diviene essa stessa l’obbiettivo.
Possiamo dire che arrivi a diventare un’esperienza straniante? Forse. Ma non so quanto sia da augurarselo. Nelle esperienze stranianti quel che si offre non sta solo nell’accedere a una diversità di percezione, ma nella possibilità della comparsa di una tale alterità e in un tale scarto ed eccedenza di percezione, che l’esito può essere uno shock insopportabile. Può accadere tutt’altro, possiamo allontanarci dalla partenza in derive molteplici. Distrarsi davvero, passare ad altro, anche scivolare in un atto di quasi rimozione di ciò da cui si son prese le mosse, finendo poi negli assetti protettivi della lingua disponibile e a riprodurre la continuità narcisistica. Forse obbiettivo apprezzabile, visto che il dolore la danneggia. Ma di questa perdita narcisistica io voglio invece vedere le sue possibili virtù, piuttosto che la proposizione del mero restauro dell’assetto perduto. Va da sé che non ci debbano essere ingiunzioni di nessun tipo, poiché si tratta sempre di stare in territori molto delicati e difficili da maneggiare.
Certo, è da augurare che si possa recuperare un qualche senso del vivere. Ma pensare di trarlo da una pratica di scrittura sull’oggetto, a meno che essa non goda del privilegio di un consistente e sofferto talento, non corre il rischio che si muova più che altro la scorrevolezza dell’edificazione banale? Peraltro non evoco talento per perorare letteratura, ma solo per provare a salvare una qualche capacità delle parole di disporsi in apertura. Dico questo perché so che in quelle circostanze, a stento si riesce a dire qualcosa in lunghe, frammentate, difficili e soprattutto silenziose sequenze di psicoterapia, dove peraltro, ed è cosa della massima importanza, il giro comunicativo è particolarmente ampio e allentato, poco stringente intorno alla cosa.
Questa esperienza della ferita, incerta, intima, e scomposta, evento assoluto e ogni volta unico, nell’organizzarsi in scrittura che diviene la via, non rischia di farsi maniera mondana, modello edificante? O che, per la stessa scrittura, il dolore non si perda nell’astrazione? O non finisca nel cono d’ombra dell’impostura che l’autobiografismo imperante si porta dietro?
Peraltro da tempo la lingua che usiamo patisce un deperimento che pare inesorabile. La pochezza, la genericità desolante delle parole nel dire emozioni e sentimenti di ogni tipo è ascoltabile ovunque.
Del possibile evento di un’alterità che sia apertura, le ferite sono il sacco amniotico e la levatrice; ma ciò che può nascere avviene secondo tempi e modi non posseduti da alcuno, si tratta di una gestazione lunga e sconosciuta, dove il silenzio ha un’importanza decisiva.
Solo l’amore (agàpe più che eros ) e l’amicizia, che siano riconoscibili e accoglibili dispongono all’apertura. E nondimeno, l’esercizio della medesima sollecitudine verso se stessi: ovvero il necessario indebolirsi del dominio appropriativo dell’Io sull’intero Sé. Va lasciato che le ferite esproprino dal possesso di sé. La loro generatività è nel registro del negativo, esse disorientano, scompongono la modulazione prevalente dell’ordine narcisistico. L’invito alla scrittura espone all’opposto. Quel che può venire è per ciascuno eminentemente idiomatico, com’è il senso che viene dato a tutte le ferite; ma l’idioma non è maneggiabile per il soggetto stesso, che ne è semmai governato, e non di meno, sorretto, se gli vien dato il permesso.
Del resto, quanto il dire le esperienze dolorose sia difficile e precario fino a far patire fatica e sgomento, lo sa bene chiunque si trovi solo a provare a dirle. Lo smarrimento per la vacuità, la lontananza delle parole disponibili, l’estraneità che risuona nel pronunciarle, la loro inattendibilità, il vuoto di senso che veicolano, non solo per l’alterità massimamente sconosciuta del continuare a vivere, ma per l’alterità del dolore, irraggiungibile dalle parole. Continuamente esse vorrebbero evocarlo in chi prova a dirle e in chi le ascolta. Piuttosto accade che chi dice spesso adopri le parole facilmente in uso per proteggere il nucleo indicibile della propria sofferenza dalla pressante estraneità di chi le ascolta e di se stesso che le sta dicendo. Viene da pensare che spesso, piuttosto che provare a dire la propria intimità dolorosa, s’imponga di tacerla. Non sto citando Wittgenstein. Le mie notazioni vogliono solo essere problematiche. Peraltro non penso si debba e si possa solo tacere. Il tacere è una mossa contingente, nell’attesa indefinibile di poter dire. È che il dire è indispensabile quanto fallace e deludente. Lo scrivere spesso è illusorio e artificioso.
Mi rendo conto che a fronte di queste note che vertono su di una piccola prassi scritturale auto-terapeutica possa apparire fuori proporzione riferirmi alle pagine che M. De Certeau [cit., tr. it., 2001] dedica al tema scrittura, soprattutto rispetto alla misura storico-antropologica che egli è arrivato a cogliervi.
Del processo che disegna le frastagliate vicissitudini antropologiche occidentali dalla prima modernità in poi, De Certeau pone in evidenza quanto la progressiva intensificazione della presenza della scrittura abbia finito, nel corso di alcuni secoli, per acquistare egemonia su ogni altra forma di rappresentazione ed espressione umana. È anche nella densità d’implicazioni di questo processo che De Certeau vede le condizioni che favoriscono il prender forma della stessa soggettività moderna. La pagina bianca è
«uno spazio proprio che circoscrive un luogo di produzione per il soggetto […] un luogo sciolto dalle ambiguità del mondo, che presuppone una sfera di attività […] un intervento parziale ma controllabile. Una separazione si opera così nel cosmo tradizionale […] l’instaurare, attraverso un luogo di scrittura il controllo e l’isolamento di un soggetto davanti ad un oggetto» [pp. 198-199].
Nella scrittura la parola solidifica il proprio legame con la cosa, sembra la faccia esistere come cosa definita, certa e posseduta. Tutto si scrive e tutti scriviamo per attestare potenziare e corroborare presenza, certificare mondo, e presenza in esso. Dare evidenza all’essente proprio in quanto soggetto con ogni suo fare ed essere, e che sia socialmente riconoscibile e legittimo. Tutto del mondo e della sua riproduzione è scrittura, digitale o no che sia. La vita di noi tutti lo è, moltiplicata in scrittura, prodotta ovunque e in ogni modo. Quell’impianto (Ge-stell ) tecno-burocratico organizzato che procede verso il suo misterioso culmine indefinitamente approssimabile, e che un numero consistente di pensatori e artisti, dalla metà dell’Ottocento in poi, ha descritto e interpretato in più modi, inscrive, tramite documentalità scritta la vita di ognuno legandola alle vite altrui e all’ordine del mondo. Scripta manent. Tanto più l’antico motto è divenuto un esergo universale.
Pur assai ampio, quanto poco circoscrivibile, lo spazio delle parole in voce ha perso via via e inesorabilmente affidabilità: quelle mere onde sonore permangono nella misura della presenza di un apparato uditivo disposto alla loro accoglienza, ma sufficientemente prossimo. Se manca, o non ascolta, esse si disperdono nel nulla. A meno che pratiche di registrazione non diano loro un corpo utilizzabile tramite le proprie pertinenti tecnologie.
Dalla prima modernità in poi, la scrittura diviene una delle risorse di cui sempre più il soggetto di tanto s’impossessa di quanto ne viene posseduto, secondo un registro di auto-etero-poiesi via via dominante. Esso trova nella scrittura il luogo e i modi della produttività del suo stesso essere:
«L’isola costituita dalla pagina è un luogo di transito in cui si opera un’inversione industriale: ciò che vi entra è un “ricevuto”, ciò che ne esce è un “prodotto”» [p. 199].
Un’altra funzione, altre risorse e un altro senso e presenza della scrittura e dello scrivere vengono a imporsi e chieste a colui che diviene il soggetto della modernità. La scrittura diviene necessaria, intrinseca e circoscritta a quella «produttività del fare» che acquista progressivamente centralità nel disegnare l’antropologia occidentale, e tanto che finisce per essere tramite non secondario di cambiamento della sua fisionomia, contribuendo a esautorare, fino a svuotarlo, lo spazio di fede e di affidamento in cui si tenevano le vite.
Se «Dire significa credere», come suona il titolo icastico di un paragrafo del testo di De Certeau [cit., p. 269], l’esserci umano, il suo dire il dolore e il piacere, si ricomprendeva in un credere, che non è più riuscito a sostenersi tramite l’affidamento alla parola ricevuta, trovata per fede nell’ascolto che, per un tempo lunghissimo, è stata la Voce del Libro di tutti i libri (riprendo il titolo, Adelphi 2019, dato da R. Calasso a un suo testo in racconto della Bibbia); e di seguito, per l’ascolto del Verbo evangelico (di nuovo voce prossima, addirittura accanto, divenuta poi scrittura anch’essa. Però senza poterne dire la durata temporale. Si rimane sempre incerti quanto il suo tempo sia durato. O se sia possibile dire che è udibile oggi, e semmai in che modi e forme).
Se l’antropologia del nostro mondo e della sua storia (ma nondimeno, insieme a quella che noi scriviamo indagando su ogni altro mondo), progressivamente si è declinata in scrittura, testo, libro, documenti, questo è avvenuto incrementandosi anche al seguito della perdita delle parole udite, ascoltate, ricevute dalla voce di un Altrove perso, proveniente da quel grande Libro che offriva, sollecitava, non tanto la sua lettura, quanto piuttosto l’ascolto di una Voce. Quella che era la scrittura per eccellenza, che già si proponeva come un processo di razionalizzazione di una tradizione orale, in realtà parlava e disponeva all’ascolto. Di essa De Certeau, sobriamente, dice che proferiva una
«parola che poco a poco non si comprende più, che s’è alterata attraverso le corruzioni del testo e le metamorfosi della storia […] La voce alterata o estinta è questa grande Parola cosmologica di cui ci si accorge che non arriva più: non attraversa la distanza delle epoche» [pp. 201-202].
Con la sua perdita si perde l’identità che se ne riceveva. Essa ora «dipende da una produzione, da un percorso interminabile [in cui] “L’essere si commisura al fare”» [p. 202]. La scrittura è elemento portante di questo fare produttivo che impegna in modo passivo o attivo ogni vita.
Lo scrivere legittima e imprime produttività ai pensieri. Scrivere si colloca in quel regime del fare che produce l’uomo stesso come attore unico e razionalmente orientato a perseguire finalità che in svariate direzioni e forme s’impongono necessarie. Esso è una potenza che attesta la soggettività moderna. Non per caso la scrittura si amplia, in vertigine, con lo svilupparsi del modo di produzione capitalistico, fino a far pensare di poter essere, per il pensare stesso, quel che è il capitale per l’impresa.
De Certeau ci dice che la scrittura la ritroviamo anche centrale nella figura di quel Robinson Crusoe impegnato a cercare di sopravvivere sull’isola del suo naufragio. Il naufrago, nel suo venire a capo della propria condizione di derelitto, è eletto da De Certeau a mito costitutivo della modernità [pp. 200-201].
Robinson fa di quella sperduta e ignota isola la pagina bianca che circoscrive lo spazio “proprio” di un luogo di produzione per il soggetto, dove si esercita l’incerto, sgomentato fare di colui che cerca di appropriarsi dell’isola de-scrivendola. Il suo obbligatorio stato di autonomia di uomo solo e smarrito, davvero gettato su di un lido misterioso, diviene l’epitome di una condizione originaria di smarrimento. Robinson deve fronteggiare lo spessore denso del reale che lo circonda, e che, ben di più, circonda il suo sguardo indagante e il suo soliloquio in continuo fallimento e lutto per la mancanza dell’interlocutore. Egli inizia un diario dove la scrittura, il produrre del suo scrivere, insieme al produrre del suo fare pratico, sono uno scrivere e de-scrivere a se stesso la sua isola, esplorarla, stabilire punti, fissare appunti, cercare di allontanare l’angoscia per l’alterità radicale e minacciosa che essa è. È in questa chiave, colma di suggestioni moderne, che Robinson e la sua isola divengono l’avventura comune a «tecnici senza voce e al sogno di fanciulli desiderosi di creare un universo senza più padre» [p. 201].
Tutti noi siamo immersi nei segni di questo interminabile passaggio, senza che se ne abbia una gran consapevolezza.
Quel che soprattutto si rende visibile oggi è quanto i segni di questa compiutezza impossibile finiscono col rifluire nelle forme spettrali o negli impasti sfigurati delle disposizioni con cui si accede a quegli atti liturgici che ancora e con frequenza sono chiamati ad alonare di sacro snodi decisivi della vita: nel kitsch disperante dei battesimi, comunioni, matrimoni, in molte imbarazzanti pratiche funerarie, in cui pure si prova ad affidare la fine della vita ad altro che alla terra e alla cenere.
Certo si può anche pensare che in quelle circostanze si renda presente la percezione e il sentimento di uno scarto dall’ordinarietà della vita, forse l’eco di un’apertura inusitata. Ma nell’affidare quel sentimento alle prassi disposte per poter esprimere il sacrosanto della gioia e del dolore che accompagnano le congiunture del nascere, dell’accedere al vivere e del morire – proprio lì, nei luoghi-comuni delle prassi date, accade che quel sentire in gioia e dolore si perda nei seducenti richiami di sovrastanti abitudini mondane. Esse inducono ogni soggetto a esporsi in quell’ordine inesorabile dello spettacolo in cui egli si specchia e concepisce sé. Quell’ordine è come fosse divenuto una macchina trascendentale, l’a priori di un registro nel quale le vite si svolgono e si significano.
D’altro canto, possiamo esser presi inaspettatamente da scene in cui siamo esposti a esperienze particolari e completamente diverse. Può capitare che avvenga di esser presi da un moto di commozione imprevisto, nel trovarsi davanti l’improvvisa epifania di qualcosa dei resti di quella fede. Casualmente può accadere d’imbattersi nelle minuscole sequenze di tracce di parole scritte su tombe di semplici umani – davvero povere anime, perlopiù contadini, pescatori, artigiani, o altri che siano di provata gran fatica e humilitas del vivere – nelle preghiere in ringraziamento apposte agli ex-voto, davanti a tabernacoli malmessi, piccole chiese sparse, luoghi lasciati, come si usa dire, all’usura del tempo, nei cimiteri di campagna abbandonati, addirittura trovarsi presenti nei resti di cimiteri dimenticati di paesi di mare, brutalmente dismessi a colpi di ruspa. Tombe ridotte a frammenti divenuti ciottoli di spiaggia, su cui può capitare di stare, in vacanza. Lì improvvisamente scorgere frammenti di date, evocazioni di salvezza, nomi consunti che aggrediscono chi l’incontra, stranianti. Chi s’imbatte in questi dimessi, danneggiati poveri luoghi, si trova come a tentare di resuscitare quei nomi e parole del credere e della fede. Nel vederli nominati, apposti in scrittura usurata, dispersa, vilipesa, povere tracce di materia danneggiata, si dicono i resti, i frammenti di quell’affidamento – come chiedessero per la pietà che muovono parole che mancano. La perdita sembra comparire in luoghi sparsi e languire infinitamente in nomi, tracce di vita, di fatiche e di piccole pudiche virtù accennate e depositate in speranze pressoché cancellate.
Note:
[1] Essa mi pare la bancarotta di ogni pensare per conoscere. Il mero funzionare affonda nell’opaco della genericità. Se non è il gesto disperato di fronte a eventi radicali in cui è preclusa ogni via d’uscita, altrimenti, il funzionare purchessia, è solo opportunismo e deficit pratico-intellettuale.